“Il cuore è la radice della vita”
È sempre lecito dubitare della storia narrata dai vincitori. Se crediamo ai racconti dei conquistadores, il massacro degli Aztechi fu giustificato da una doverosa ingerenza umanitaria, come spesso accade anche ai giorni nostri. I sacerdoti aztechi squarciavano il petto di bambini e di giovani e ne estraevano il cuore ancora palpitante per offrirlo agli Dei. L’olezzo del sangue impregnava l’aria e la terra. Gli spagnoli, da buoni cristiani, sentirono l’obbligo morale di sterminare un popolo dai costumi tanto abominevoli. Nella nostra evoluta civiltà, i sacrifici umani hanno forme più igieniche e razionali.
Nella corsia di un ospedale passa un lettino. Vi giace un uomo incosciente. Le persone intorno applaudono, come prese da una commozione grottesca e surreale. L’uomo, salutato come un eroe, viene portato in una camera operatoria, dove gli verranno espiantati gli organi. Ricorda un sacrificio azteco, ma i pugnali di ossidiana sono sostituiti da più moderni bisturi e l’ambiente è asettico. Gli apriranno il torace e l’addome, gli sradicheranno il cuore ancora pulsante e ogni altro organo utile, ma non per offrirli agli Dei. Probabilmente quell’uomo ha subìto un grave trauma cranico, l’EEG ha registrato un’assenza di attività elettrica nella sua corteccia cerebrale e hanno quindi deciso di farne un donatore. Forse il malcapitato aveva rilasciato in passato un consenso esplicito al prelievo, forse sono stati i parenti, in articulo mortis, a fornirlo, forse si è ricorsi al principio del silenzio-assenso, cioè ‘chi tace acconsente’. Volontaria o involontaria, è una donazione tragica, senza nulla di eroico o di particolarmente magnanimo. Una volta morto, cedere i miei organi non mi pare più nobile che regalare scarpe o vestiti che non mi servono più.
Quelle persone non applaudono l’eroe ma la vittima sacrificale, il cui corpo viene smembrato per essere reimmesso negli ingranaggi della vita. Recitano il copione previsto da una retorica ufficiale, secondo cui donare gli organi è un atto sublime. Celebrano religiosamente il rito che la società prevede. Negare la santità dei trapianti ci rende moralmente indegni. Non condividere la poetica dell’altruismo e della speranza che sempre li accompagna, fa di noi de cinici. Soprattutto, è una grave forma d’eresia, di arretratezza intellettuale, non credere al dogma della morte cerebrale, che fornisce alla prassi dei trapianti l’alibi scientifico.
Occorre una grande fede per non dubitare della morte cerebrale, perché essa rappresenta l’antitesi del senso comune, dell’immediata intuizione della realtà. Il senso comune dubita che un morto possa respirare (nessun cadavere, ventilato meccanicamente, respira). Dubita che a un morto possa pulsare il cuore e scorrere il sangue nelle vene. Dubita che la sua pressione possa sobbalzare quando il bisturi gli incide la carne o che sia necessario somministrare a un morto farmaci curarizzanti per bloccarne i movimenti. Dubita che una donna morta possa condurre a termine una gravidanza o un uomo morto generare figli. Dubita che esistano terapie per un cadavere, mentre è teoricamente possibile che in futuro questi pseudo-morti si possano curare. Il senso comune sa che può esservi una vita morente ma non una morte vivente.
Di fatto, oggi si chiama morte quello che in passato era il coma cosiddetto dépassé o irreversibile. Le persone in tale condizione, se assistite, potevano sopravvivere giorni, a volte settimane, mesi, in casi eccezionali anni. Non credo avremmo il coraggio di cremare o seppellire persone morenti. Tuttavia, ci sembra conveniente eviscerarle, magari concedendo loro una pietosa anestesia. Anche la Chiesa, che giudica inammissibile l’eutanasia, accetta questa distanasia senza vedervi alcuna contraddizione. Anzi, vi riconosce una forma di amore del prossimo. Migliaia di persone attendono un cuore o un fegato nuovo. Perciò, dopo un tempo di impaziente osservazione, che progressivamente si dimezza – 48, 24, 12, 6 ore… – anche la Chiesa approva che le persone in coma dépassé vengano frettolosamente avviate alla donazione. Sullo statuto della morte lascia alla scienza totale giurisdizione.
In realtà, prima che di procedure mediche, si tratta di un groviglio di dilemmi filosofici e morali. Il trapianto è di per sé un atto disumanizzante. Assimila l’uomo a una macchina cui si possono levare i pezzi difettosi e sostituirli con pezzi di altre macchine. Ai più questa analogia non ripugna, sembra anzi possedere crismi scientifici. Ma in essa vi è l’implicita negazione di una natura spirituale, di un legame fra corpo e anima. San Tommaso direbbe che l‘anima è “tota in toto corpore”. Per noi invece la vita si esaurisce in combinazioni biochimiche, il pensiero coincide con gangli neuronali e l’uomo, morendo, ritorna al nulla. Ovvero, per la nostra società utilitaristica, diviene inutile. Sembra quindi giusto recuperare parti di quell’essere che scompare e riutilizzarle. V’è nel trapianto un inconfessabile cedimento al principio del mors tua vita mea. Ci si rallegra se “si è trovato il cuore” per un piccino malato e non ci si cura della provenienza di quel cuore. Nessuno si duole per il bambino cui l’hanno strappato, con perizia chirurgica e barbara. Si dirà: “era morto, ma ora la sua vità continua in altre vite”, secondo una bolsa e insulsa formula di rito. Si costringe il nostro sguardo a fissarsi sul bambino che vivrà, anche se non sappiamo quanto e come. Il trapianto è infatti un atto contronatura. Il corpo lotta disperatamente per rigettare l’organo alieno. Solo imbottendolo di ciclosporine, farmaci che sopprimono le difese immunitarie, lo si costringe a tollerarne l’innesto.
V’è però un aspetto più oscuro, come un’ombra che aleggia al confine tra la vita e la morte. Distinguere un corpo vivo da uno morto può apparire semplice come distinguere una candela accesa da una spenta. Nonostante ciò, l’uomo ha sempre provato un’angoscia profonda al pensiero di essere seppellito vivo, cioè di vedersi attribuito lo status di cadavere mentre è ancora in vita. La tecnologia diagnostica oggi disponibile sembra poterci liberare dall’incubo di una morte apparente. Paradossalmente, questi sofisticati macchinari vengono invece utilizzati per lo scopo contrario, per consentire cioè una diagnosi di morte più ambigua e problematica. Il motivo di questo paradosso ci diventa comprensibile solo quando vediamo il nesso funzionale che lega il paradigma della morte cerebrale alla pratica dei trapianti. Non si possono infatti usare gli organi dei cadaveri, perché la morte, quella vera, innesca molto rapidamente dei processi necrotici. È quindi indispensabile prelevare gli organi da corpi vivi. Ma espiantare organi da una persona viva significa commettere un omicidio volontario. Perciò quando Barnard effettuò il primo trapianto di cuore si posero enormi problemi giuridici. Si doveva scegliere, o abbandonare la strada dei trapianti o modificare la definizione legale di morte. Si preferì la seconda soluzione, elaborando ad hoc il concetto di morte cerebrale.
La commissione presidenziale di Harvard, che analizzò i vari aspetti della questione, riconobbe l’impossibilità di fare una diagnosi di morte cerebrale senza generare sofismi e incongruenze. Si cercò allora di teorizzare la morte della coscienza, secondo il sillogismo: la vita umana è coscienza – la coscienza coincide con le funzioni dell’encefalo – l’assenza di queste funzioni è assenza di vita, indipendentemente da altri parametri biologici. Le premesse di questo ragionamento sono evidentemente arbitrarie. E la conclusione è astratta, perché non è possibile dimostrare una cessazione totale e irreversibile delle attività encefaliche, se non in modo incerto o ipotetico. Le stesse metodiche diagnostiche hanno provocato lunghe controversie. Sappiamo ancora troppo poco del cervello, delle sue funzioni e delle sue potenzialità. È indubbio che gravissime lesioni del tronco cerebrale provochino un crollo sistemico. Ma questo significa che sono un prodromo della morte, non la morte stessa. Tra una prognosi infausta e una diagnosi di morte v’è un incolmabile abisso ontologico. Considerando tutto ciò, appariva più saggio, per un principio di cautela, astenersi dal prelievo di organi: in dubio pro vita. I relatori di Harvard conclusero quindi che, per non rinunciare ai trapianti, occorreva coagulare un consenso sociale intorno a una verità fittizia, cioè imporre il teorema della morte cerebrale attraverso forme di propaganda che lo rendessero scientificamente credibile, moralmente accettabile e legalmente valido.
Lo scopo è stato rapidamente raggiunto. Molti hanno accettato l’idea di una morte cerebrale perché credono non vi sia più vita dove non c’è più coscienza, pensiero, possibilità di relazione con gli altri. Altri perché rende possibile sacrificare una vita ormai senza valore per aiutarne un’altra che, in pratica se non in teoria, appare loro più degna di rispetto. Altri per ragioni pragmatiche: il morituro, prima peso gravoso, viene convertito in un vantaggio per la società. I medici cinesi, usando dei condannati a morte per procacciarsi organi sani, hanno applicato questo principio in modo coerente. Prende forma così il pericolo di scivolare gradualmente da una morte cerebrale verso una morte psicologica o sociale. Già qualcuno propone di utilizzare come serbatoi di organi persone in stato vegetativo o con gravissime disabilità fisiche e mentali. Potremmo trovar giusto, e vi saremmo predisposti già da lunga consuetudine, sacrificare persone inferiori a vantaggio di altre.
Un amico messicano, studioso di storia precolombiana, mi assicura che i suoi antenati praticavano sacrifici umani solo raramente, in relazione a transiti astrali. Lo facevano anche popolazioni europee, prima di essere cristianizzate. Quei riti arcaici ci fanno inorridire. Ma forse gli Aztechi erano meno sanguinari di noi, le loro macellazioni umane meno ipocrite delle nostre. Nella nostra superiore civiltà si sacrificano quotidianamente migliaia di vite giudicate ‘prive di valore vitale’. Immolate sull’altare della solidarietà, vittime di un orrore nascosto dietro i sorrisi e le omelie edificanti. In realtà, attraverso i trapianti di organi il corpo dell’uomo è mercificato e abusato fino al suo ultimo respiro. Per la scienza questo riciclaggio di parti umane, usate come pezzi di ricambio, rappresenta un valore e un progresso. Ma probabilmente è solo un sintomo del male che ha colpito la nostra civiltà, privandola del cuore, allontanandola da quel centro dell’essere di cui il cuore di carne è il tabernacolo, crocevia di soffi divini.
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