17 Luglio 2024
Filosofia della Storia

Dal Medioevo all’avvento della modernità ed oltre – 4^ parte – Umberto Petrongari

(prosegue…)

Si è precedentemente (in sostanza) sostenuto che, solo ‘in linea teorica’ (cioè attraverso un nostro mero pensare non davvero – e da ognuno di noi – creduto) si può considerare il mondo come una caotica rappresentazione. ‘Di fatto’, nella pratica (‘praticamente’), siamo invece tutti degli ‘ingenui realisti’, credendo – per lo più obbligatoriamente – che tutto ciò che esperiamo sia ‘reale’ (ovvero, che la realtà corrisponda ad ogni possibile visione deformata che l’intera nostra esperienza ci impone di avere, ad esempio e in primo luogo, identificandoci unicamente – e in tutto e per tutto – con il nostro corpo ‘da capo a piedi’). La materia sensibile (la materia ‘in senso classico’, e non ‘moderno’, quale è, ad esempio e in primo luogo, la ‘res extensa’), la prendiamo quindi per reale, identificandola (magari pressappoco) con la ‘satanica’ – è proprio il caso di definirla così – ‘materia prima’ di cui parla Aristotele: la materia, con il suo – tuttavia solo presunto – carattere necessitante, ci opprimerebbe senza sosta (ora più, ora meno, a seconda dei casi). Ma la materia può opprimere solo chi la avverte (chi ne avverte la resistenza, la durezza, l’opposizione, che essa eserciterebbe su noi tutti).

Essa sarebbe ‘morta’ (e dunque innocua) ‘materia’, se non vi fosse la possibilità di sentirla. La materia, per ‘lederci’ stabilmente, ha dunque immancabilmente bisogno della nostra interiorità percepente, cosciente. Ma, per farci ciò, c’è bisogno di un’anima: essa sarebbe collocata in una dimensione che trascende assolutamente l’empirico, ma è quanto condizionerebbe la nostra possibilità di essere coscienti (e dunque di soffrire, o anche di provare dei più lievi disagi). Ebbene (ma su ciò torneremo anche in seguito), il ‘puro borghese’ crede di avere un’anima animalesca (ossia egoistica); il ‘puro uomo del volgo’ crede di avere un’anima ‘umana’ (badando, sì a sé, ma anche – per quanto può – a tutti gli altri esseri). Anche il ‘puro aristocratico’ (il nichilista) crede di avere un’anima animalesca oppressa dal mondo, ma da tale fatto (rispetto al ‘puro borghese’) ne è turbato, ne è inquietato, assai poco (essendo in grado, per così dire, di ‘relativizzare ogni suo problema della vita’). Ora, una differenza di tipo (presuntamente) qualitativo vige anche tra un’ ‘anima animalesca’ e              un’ ‘anima umana’. Si crederà nella propria anima dunque in tal modo: in fondo, tutti (che si sia nichilisti, egoisti o umanisti) crediamo che l’anima non esiste, eppure non possiamo non fingere che esista (ciò, come si è visto, vale per ogni ‘differenza qualitativa’). E così, il nichilista fingerà, farà finta (obbligatoriamente dunque), di credere che l’umanista sia realmente ‘più buono’ di lui: solo che, anche di ciò, se ne infischierà altamente.

Ora, il coincidere – sia pure all’incirca – della negatività dell’esistenza con la ‘positività’ per il nichilista (in base alla sua ‘forma mentis’), non poteva che far sorgere miti (i più originari) in cui (dunque metaforicamente) ‘luce’ e ‘tenebra’ venivano considerate come collimanti o combacianti.     Si è accennato al fatto che l’ ‘Io’ (‘trascendentale’, però quale ‘puro arbitrio’) ha fino ad ora scelto (e con estrema probabilità continuerà per sempre a scegliere) che nel cosmo vi sia ordine e non caos. Ciò significa che ogni ente senziente agirà sempre in base a un movente comportamentale. Tutto ciò che si sperimenta ha il carattere della ripugnanza sessuale (che può essere più o meno intensa, a seconda di ciò che dunque viene esperito). Tuttavia non si può parlare – propriamente – di ‘pansessualismo’ (di un, per così dire, ‘pansessualismo senza sbocchi’), in quanto – perlomeno in linea di principio – l’Io, se volesse, potrebbe sempre decidere di non assecondare – nel modo più gratuito – un suo stimolo (sempre e comunque di natura sessuale). Inoltre, dal momento che tutto ciò che è empiricamente repellente ‘lo si vuole’ (in quanto lo si afferma liberamente, poiché nessuno ci obbliga a volerlo, ad affermarlo), di conseguenza non potrà essere (ciò vale per ognuno di noi) davvero repellente (essendo quindi gradevole, piacevole). Infine, se il nostro connaturato ingenuo realismo ci induce a reputare di natura sessuale soltanto ciò che manifesta più esplicitamente un aspetto sessuale, in tale nostro modo di giudicare le cose potremmo essere in malafede (sapendo dunque, in fondo, che tutto ciò che sperimentiamo ha carattere sessuale). Ma se al mondo vige, in pratica, la causalità, possiamo considerare il mondo come un intero (come qualcosa, per così dire, ‘di conchiuso’), potenzialmente conoscibile dunque – ma soltanto in linea teorica – ‘in ogni suo minimo dettaglio’?

Ora, l’universo è sconfinato. Ciò significa che vi sono innumerevoli mondi abitati e abitabili. Ma, dal momento che (in quanto esageratamente distanti dal nostro), possiamo essere ben sicuri che non entreremo mai e poi mai in contatto con detti mondi popolati da ‘alieni’, per noi, tali pianeti, è come se non esistessero. Il nostro universo è dunque delimitato da tutte le rappresentazioni che si sono avute fin da quanto le primissime forme di vita senziente le ebbero, e da ogni restante (sempre apparente) percezione; di percezioni se ne avranno fino a quando ogni forma di vita senziente non sarà del tutto venuta meno (la ‘vita animata’ venendo ad estinguersi completamente). Chiusa la postilla sulla natura dell’universo, torniamo a parlare del nichilista (pur tenendo presente ciò che si è asserito nella postilla). Si è detto della massima gradevolezza dell’esistenza di tipo nichilistico, nonché del ‘destino radioso’ che attende ogni nichilista (perlomeno se calato in certi contesti). Ma, se venisse posto in una condizione atrocemente passiva (se venisse ad esempio posto sul rogo), potrebbe ancora provare piacere? E se sì, in che modo? E in base a quali modalità?

Ora, l’ordine, l’ordinamento, del mondo non è, quindi, che una mera apparenza: resta, in linea teorica, un sogno, in cui, dunque, ‘tutto è possibile’. Ciò significa che il dolore che potrebbe concretizzarsi in esso, potrebbe realmente andare a costituire una gamma – letteralmente – infinita, di dolori dunque sempre più acuti. Ma lo stesso discorso vale per il piacere: potrebbero darsi cioè infinite cose gradatamente sempre più godibili, ovvero, sempre più (per così dire) ‘leggere’ (sempre meno ‘pesanti’). Ma stabiliamo cosa sia l’ ‘ebbrezza’, in cosa consista. Si prova ebbrezza quando si sperimenta ‘la novità’, ciò che è dunque inaudito, ossia inedito. Se dunque potessimo concentrarci unicamente sull’attimo presente, dimenticandoci di ‘tutto quanto’ (‘di tutto quanto il resto’), senza neanche dunque proiettarci nel futuro (senza pensare ad esso, ossia alle ipotetiche cose future che ci riguardano o che potrebbero capitarci), saremmo ‘ebbri’, qualsiasi sia la cosa che si stia vivendo (passivamente) al presente (al momento). È solo infatti paragonando cose, fatti, che ci sono accaduti, che si può stabilire quale di essi sia il meno doloroso (di norma, perseguendolo, prediligendolo cioè fra le altre cose). Inoltre, qualunque sia il nostro stato d’animo, tutto ciò che ‘si vive nell’attimo’ và sempre bene per esso (per noi), in quanto la sua collocazione è unica (all’interno di una gamma infinita di cose o fatti più e meno dolorosi o gradevoli). Se tuttavia la gradevolezza o meno di qualcosa sono i sensi a rivelarcela immediatamente, essi sono comunque ingannevoli, in quanto non rivelano la realtà (accessibile solo attraverso la ‘Ragione’, il ‘Logos’): nulla infatti esiste, per cui qualsiasi cosa si faccia, e qualsiasi cosa ci capiti, siamo sempre immersi in una ‘negativa felicità’. Si è detto che – ma solo convenzionalmente – si può parlare di presente, passato e futuro. Ora, anche il divenire non è altro che una mera rappresentazione, ovvero un’apparenza insussistente: nel divenire, passato, presente e futuro, sono completamente identici, o almeno sono ‘equivalenti’. Ma ciò significa che la vita di ognuno è senza futuro, in quanto sempre uguale (è immodificabile), ma è anche senza passato: la vita si riduce allora ad un presente immutabile, ed anche eterno in quanto la rappresentazione in generale (per definizione) non esiste, non esistendo, di conseguenza, nulla. Le condizioni del nichilista, dell’egoista, dell’umanista, sono quindi pressoché identiche (e ugualmente felici); e dal momento che ‘nulla esiste’, le tre anzidette tipologie umane non potranno che equivalersi anche da un punto di vista ontologico-valoriale (vigendo in tal modo – a questo mondo per giunta comparso, apparso, ‘gratuitamente’ – il ‘relativismo’).

Infine, le tre tipologie saranno egualmente tagliate fuori dalla verità (nichilistica), poiché, come si disse, il ‘nulla’ (da un lato) è assolutamente inconcepibile, ma (d’altro lato) anche la rappresentazione e l’annessa contingenza risultano necessariamente inaccessibili (alla mente umana). Anche il discorso che andrò ora a svolgere sarà schematico, ipotetico e astratto. Immaginiamo dunque che esista un mondo piccolo e (per così dire) ‘concentrazionario’. In tale mondo esistono solo due razze, l’una corpulenta (che – mettiamo – popola il nord di esso), l’altra più bassa e smilza (che occuperà il suo meridione). Tutta la popolazione del pianeta è dedita solo alla caccia e alla raccolta (le attività di sussistenza più semplici e basilari). Ora, per via del sovrappopolamento del ‘nord’, tale luogo non risulta più vivibile (prima c’era cibo per tutti, e tutti vivevano per lo più isolati e per lo più in pace tra loro). Un gruppo di uomini si unirà in una banda allo scopo di raggiungere il ‘sud’ per impossessarsi delle sue risorse cibarie. Dovranno però letteralmente estorcerle ai suoi abitatori, che dovranno allora esercitare una ‘resistenza’ affinché ciò non avvenga. Ora, entrambe le razze condividono una medesima mentalità primigenia (nichilistica), ossia esente da ogni timore, ma dal loro scontro quella del ‘nord’ avrà la meglio in quanto dispone ‘di una marcia in più’ costituita dal suo fisico imponente (mettiamo inoltre che le due razze si siano scontrate con delle clave, utilizzate da entrambe anche per cacciare). Ebbene, la ‘razza del nord’ ridurrà in schiavitù quella del ‘sud’, imponendogli con la forza di cacciare e raccogliere cibo per essa. È probabile (stavolta ‘storicamente’) che la più antica forma di governo sia stata l’ ‘oligarchia’; uomini dal fisico assai simile ed egualmente senza paura (dei ‘pari’ dunque), si sarebbero imposti su popolazioni dai corpi (ugualmente simili tra di loro) più gracili. Sempre ‘storicamente’, gli uomini della suddetta banda (vincitrice della guerra d’aggressione) non avrebbero (al pari degli animali) ‘messo su famiglia’, ma si sarebbero congiunti con le donne basse e magre della razza ridotta alla subalternità, spinti unicamente da passeggeri e sporadici desideri sessuali. Da tale mescolanza nascono figli più deboli dei loro padri, ma comunque più forti della ‘razza meridionale’. E quando i loro genitori muoiono, detti ‘meticci’ vanno a rimpiazzare la precedente ‘oligarchia’.

Ma nel nord sorge un nuovo problema di sovrappopolamento: altra gente della ‘razza del nord’, si spinge verso sud per poter sopravvivere. Essa si scontra con i ‘meticci’ ora ‘al potere’ nel ‘sud’, ma, alla fine, li sottomette (avendoli dunque sconfitti definitivamente). A questo punto la società diviene ‘tripartita’: vi è una nuova oligarchia al vertice, costituita dalla ‘pura razza del nord’, vi è un ceto intermedio costituito dagli ‘incroci’, vi è un ceto subalterno (di schiavi) costituito dalla ‘razza del sud’; è solo quest’ultimo ad occuparsi di ‘caccia e raccolta’. Vediamo dunque, dal rapporto tra tali tre ‘corpi sociali’, quali ‘psicologie’ vengano a darsi. Il ‘corpo dominante’ (l’ ‘aristocrazia’ dunque) resta, si mantiene, nichilista. Inizialmente anche i meticci non mutano la loro mentalità originaria (persino ‘a sconfitta subita’): la cambieranno quando, posti in una situazione di subalternità politica rispetto all’oligarchia ora dominante, realizzeranno di non essere più gli assoluti dominatori del (loro) mondo. Ora, come prima cosa, generalizzando tale loro disagio (dovuto all’invidia frustrante che provano nei confronti di chi li soggioga, li asservisce), ‘ridipingono il mondo intero a tinte fosche’: se precedentemente, da nichilisti che erano essi stessi dunque, erano per lo più serenamente apollinei nei loro momenti contemplativi, e dionisiacamente ebbri soprattutto quando si trattava di agire, adesso esasperano la gravità del reale. Il loro timore nei confronti di ogni tipo di offesa morale si amplifica (poiché il dolore che provano quando gli capita di riceverne diviene esagerato). Ma aumenta anche la loro paura nei confronti del dolore materiale, sebbene quest’ultimo non possa esasperarsi, rimanendo oggettivo, universale (ossia egualmente – o piuttosto, assai similmente – sperimentato da chiunque lo provi in ogni sua forma). Prima, invece, ‘da nichilisti’, per il dolore materiale (corporeo, fisico), provavano il giusto timore (il timore minimo che si possa provare, che possa provare un uomo), ossia un timore adeguato all’oggettività del danno che avrebbero potuto eventualmente ricevere, eludendolo, ma pur scontrandosi con la giusta dose di coraggio. Invece, per quel che riguarda le offese morali, quasi non le avvertivano, essendo pressoché ‘superiori’ ad esse.

Ebbene, il ‘corpo intermedio’ riesce a guarire (o perlomeno ‘ci prova’ a guarire) dal disagio psichico che ora prova, in più modi. Per prima cosa, inizia a vivere il solo presente, nella dimenticanza delle avversità trascorse e nell’imminente speranza di un futuro effettivamente e pienamente felice (cosa che non potrà, ovviamente, mai verificarsi). Il presente è infatti per essi pesante e opprimente (continua cioè ad esserlo), gravoso. In secondo luogo si auto-convincono (anche se in fondo sanno di mentire) che i loro capi siano degli stupidi (se non, piuttosto, dei ‘pazzi’) a dar così poco peso allo loro stessa esistenza (con il loro coraggio, con la loro audacia, con il loro sprezzo del pericolo; non solo, dunque, ‘per tutto e tutti’).

Infine, iniziano a dedicarsi alla scienza (più in generale, alla ‘conoscenza’), in quanto è l’unico modo che hanno (venendogli consentito dai loro padroni, in quanto agli inizi essi stessi ne traggono indirettamente beneficio) per accrescere (gradualmente) il loro peso sociale (e ciò li condurrà – pian piano quindi – a spodestare – per giunta senza colpo ferire – i loro capi, sostituendosi ad essi nel dominio del loro ‘piccolo pianeta’). Inoltre, da egoisti che sono, mancano di coraggio, e lo sviluppo progressivo della ‘tecnica’ (della tecnologia) non richiede intrepidezze o ardimenti di sorta. Per prima cosa (mettiamo) escogitano l’agricoltura, insegnando al corpo più subalterno (‘votato, portato, all’ignoranza’, dunque) tale nuova, tale innovativa, attività. In tal modo ‘il possesso di beni’ (sia pure soltanto alimentari) dei ‘meticci’ registra un primo, piuttosto notevole, incremento. E sebbene una fetta (magari ‘grossa’) di tali beni spetti gratuitamente ai loro padroni (in quanto sono i loro ‘signori’, i loro ‘dominatori’), il loro ‘livello di vita’ (il loro ‘grado di benessere’) si innalza: è tuttavia il ‘primo passo’ che compiono in direzione di un’ascesa sociale inarrestabile (mettiamo che lo sia), che li condurrà – dunque ‘alla fine’ – a divenire il nuovo ceto dominante. A questo punto è necessario parlare del ruolo del denaro nelle società, della sua ‘natura’, della sua caratterizzazione. Ebbene, il denaro ha un valore, per così dire, ‘relativo’: ovvero, è necessario averne sempre di più, non poiché ‘ciò ha valore in sé’, ma in quanto il suo possesso (che dovrà essere il più ampio possibile) ‘pone al di sopra di tutti’ (ponendo, potremmo dire, ‘al di sopra della Legge’). Il denaro ha infatti – in primo luogo – il potere di ‘corrompere’, ovvero di ‘comprarsi tutti’; ‘elargendolo a destra e a manca’, non c’è azione (più e meno lecita, più e meno atroce addirittura) che non possa venire commessa. I soldi, insomma, rendono gli uomini (tutti gli uomini) i ‘burattini’, i ‘servitori fedelissimi’, di chi glieli concede. Insomma, il denaro ha valore in quanto (stando all’esempio che stiamo ancora svolgendo) è un ‘surrogato’ (potremmo dire) della ‘clava’: si può dunque ‘dominare assolutamente’, in due modi; o attraverso la bruta possanza fisica (grazie alla quale possiamo fare ciò che vogliamo di chiunque non sia forte quanto noi, anche in tal modo ponendoci completamente ‘al di sopra della Legge’); ebbene, il denaro consentirebbe altrettanto. Svolgo alcune ultime considerazioni relative alla ‘borghesia’. Ora, la sua mancanza di rispetto nei confronti della ‘Natura nel suo insieme’, verrebbe a dipendere dal fatto che (come si è detto) il ‘puro borghese’ vivrebbe solo nel presente (e ciò ‘per necessità’, per salvaguardare al meglio – ma per quanto ciò gli sia possibile – la sua ‘salute psichica’). Ecco perché i danni che egli stesso (con la sua ‘natura egoistica’) riceve dal suo stesso, ‘umanamente insostenibile’, ‘progredire  tecnico scientifico’, non può assolutamente evitarli. In conclusione, parliamo della sua ascesa (graduale) della ‘piramide sociale’: man mano che ascende socialmente, si sente sempre più ‘sollevato’ (nel suo animo), anche se, una volta giunto al vertice della piramide, l’amarezza che prova nei confronti della sua esistenza non viene meno, mantenendo uno sguardo pessimistico sulla vita.

Parliamo infine del ceto più subalterno, ossia degli ‘schiavi’, della ‘servitù’, che menzionerò, però, anche come ‘popolo’. Anch’essi (come del resto ogni uomo) hanno dunque in origine una mentalità di tipo nichilistico: la modificheranno a contatto con chi li sfrutta, sia direttamente (la ‘borghesia’) che indirettamente (l’ ‘aristocrazia’, l’oligarchia al potere nel caso dell’esempio che ancora stiamo svolgendo). Il ‘popolo’ proverà avversione sia per i ‘borghesi’ che per gli ‘aristocratici’, e in base a tali ‘antipatie’ ridefinirà completamente se stesso. Ebbene, il popolo prova nei confronti dei ‘puri’ aristocratici gli stessi sentimenti che i ‘borghesi’ provano nei confronti di questi ultimi: li prenderanno cioè per ‘pazzi’ o per ‘stupidi’, in quanto non temono pressoché nulla. Ai borghesi rimproverano invece, innanzitutto, la loro egoistica immoralità (connessa al loro spirito scientifico, alla loro ‘indole’, per così dire, ‘filo-tecnologica’: i borghesi si considerano infatti quali ‘cose tra cose’, in un mondo in cui vige la causalità; nel caso degli uomini, dunque, vigerebbero per i borghesi degli egoistici moventi comportamentali). Ed è proprio per non confondersi con essi (che gli sono, come si è detto, ‘antipatici’) che ‘i popolani’ (‘il volgo’) escogitano la ‘morale’, la ‘moralità’ (o la ‘Legge’ che dir si voglia). Essi (vedremo poi in modo più chiaro il perché) respingono ‘la conoscenza’ (essa infatti è una peculiarità dell’ ‘odiato’ borghese); sono in possesso soltanto dell’ ‘etica’. Ora, anche il popolo ridipinge a tinte fosche e pessimistiche il ‘mondo intero’ (e per gli stessi motivi che hanno indotto i borghesi a fare lo stesso). Solo che, la loro eticità, dovrà necessariamente condurli ad una soluzione del loro disagio esistenziale ben differente rispetto a quella messa in atto dalla ‘più pura e originaria’ borghesia. La loro massima avvedutezza (per se stessi, per gli altri, per l’intera Natura) li induce – necessariamente – a non ignorare, sia il passato che il futuro (oltreché, ovviamente, il presente). Ma con ciò, il loro dolore è più consistente rispetto a quello del borghese, poiché quest’ultimo (si disse) conosce solo l’ ‘immediato’ (al pari, fra l’altro, degli ‘animali’ più propriamente detti). Ma lo è ancora di più (inoltre, in aggiunta) per via della loro miserabile condizione esistenziale (di ‘schiavitù’; mentre i borghesi sono ‘semiliberi’ e la loro vita è – comunque, nonostante ciò – ben più agiata rispetto a quella dei loro ‘schiavi’, dei loro ‘lavoratori dipendenti o subordinati’). Ebbene, il popolo tenta di guarire da tale suo acutissimo disagio inventandosi la ‘speranza’: credono cioè che, perlomeno quando ‘spezzeranno le loro catene’, raggiungendo finalmente delle dignitose condizioni di esistenza, non saranno più infelici. La loro soluzione alla tragicità esistenziale è dunque di tipo ‘apollineo’ (ed è anche – come a breve vedremo – una soluzione contraddittoria). Quando il popolo si sarà dunque ‘emancipato’, potrà (effettivamente) sentirsi più sollevato (di quanto non lo sia adesso), e anche grazie al fatto che potrà provare (però ciò non è vero) la più piena felicità. Quest’ultima (difatti), essendo esclusivamente ‘negativa’, non verrà davvero raggiunta: nel fondo del suo animo il ‘popolo’ manterrà una concezione pessimistica della vita (in genere), ma, al contempo, dirà a se stesso (auto-ingannandosi) di essere ‘assolutamente felice’. Ebbene, nonostante tale contraddittorietà, il suo animo potrà, se non altro, sentirsi un po’ più sollevato rispetto a prima (rispetto a quando, cioè, contemplava la tragicità dell’esistere in tutta la sua evidenza, senza alcun ‘velo’, senza alcun ‘velame’, che la coprisse almeno un po’).

Al pari dell’intero ‘genere umano’, anche l’ ‘uomo del popolo’ non è esente da invidie. Tuttavia (per come è ‘internamente costituito’), non può che respingere quell’invidia che tende alla sopraffazione di tutto e tutti (condivisa sia dal borghese che dall’aristocratico). In che modo allora il ‘servo’, lo ‘schiavo’, potrà porsi al di sopra di ogni altro uomo? Ma ‘livellando a sé’ ogni ‘essere umano’, ossia ‘uniformandolo’ alla propria (per così dire, ‘multiforme’) ‘mediocrità’. Il ‘popolano’ vuole quindi che nessun’uomo possa spiccare, risaltare, personalmente (e dunque socialmente), sia in positivo (tramite ad esempio il possesso di una rara intelligenza), che in negativo (persino attraverso l’omosessualità, in quanto essa è espressione di libertà e di differenziazione, di ‘individualità’). La gente ricca e la gente (ancor più direttamente) prepotente, costituiscono i suoi principali ‘nemici di classe’. Il popolo rifiuta persino la (chiamiamola pure) ‘raffinatezza stilistica’ del ‘provare e mostrare sentimenti’ (propria dei ‘sentimentali’), in favore del più semplice e spontaneo, naturale (o quasi), ‘sentimentalismo’ (rientrando anch’esso nella ‘mediocrità’). Il ‘più puro uomo di volgo’ vorrebbe insomma instaurare un regime in cui tutti sono uguali (ciò è ‘comunismo puro’; ‘storicamente’, chi ha incarnato maggiormente – anche se, ovviamente, non del tutto, poiché ciò sarebbe stato impossibile – tale ‘ideale di popolo’, sono stati i regimi staliniano e maoista). Il popolo ama l’‘ignoranza’, non per ‘congenita e incorreggibile stupidità’, ma in quanto   l’ ‘intelletto astratto’ è una peculiarità della borghesia, borghesia che (quindi) ‘odia’ in ogni suo aspetto, in ogni sua caratteristica (o caratterizzazione che dir si voglia). È inoltre la borghesia che ha (spesso forzatamente) insegnato al popolo, perlomeno alcune delle sue conoscenze (necessarie, tuttavia, per far arricchire sempre più se stessa). Ma il popolo, fin quando resta (per così dire) ‘cieco’ (si è detto come l’eticità sia la sua unica qualità e peculiarità), non può (conseguentemente) fare e produrre ‘nulla di buono’. Per potersi emancipare politicamente, dando inoltre luogo ad un regime saldo e duraturo, è costretto – suo malgrado – ad appropriarsi di una delle caratteristiche dell’ ‘odiata borghesia’, ovvero dell’ ‘intelletto’ (‘astratto’); in altre parole, di ‘scienza e tecnica’ (in generale). Grazie all’intelletto può, fra l’altro, anche tenere a bada la natura. Anch’essa, infatti, la vuole ricondurre (in certo qual senso) alla sua mediocrità: la natura dovrà dunque venire placata (e costantemente, ininterrottamente).

Ben diverso è allora il rapporto che il borghese intrattiene con la Natura (intendendo per essa ogni ente – compreso l’ ‘uomo’ – che la costituisce). Il borghese, vivendo nell’immediato, in certo qual senso è ‘costretto’ a ignorare i contraccolpi negativi della sua spregiudicata e immorale attività scientifico-tecnologica (da intenderla nel senso più generale). Il suo intelletto astratto lo induce inoltre a semplificarla: il suo obbiettivo (la sua utopia, la sua illusione, il suo ‘chimerico sogno’) è conoscerla fin nei più minimi dettagli allo scopo di dominarla interamente. La Natura per il borghese è (nel suo insieme) un nemico (anzi, ‘il nemico’) da sopraffare, da soggiogare completamente (conoscendola-controllandola-dominandola). Ora, concludendo il discorso sul ‘popolo’, si è scandagliato soprattutto l’inconscio della ‘mentalità popolare’ (della ‘mentalità di popolo’). Ebbene, il popolo non può che negare (sapendo in fondo di mentire), non può che misconoscere, il suo ‘cinico’ (e ‘ogni uomo’ – in fondo o palesemente – lo è) inconscio. Sul piano più esteriore (quello, dunque, della ‘coscienza’) dirà di se stesso che è ‘buono’ (mentre i borghesi e gli aristocratici sarebbero per esso, letteralmente, ‘i cattivi’). Esteriormente, la morale del popolano è riconducibile a due soli aspetti. Il primo dei due è il ‘dovere’. Ma non è mai un ‘dovere fine a se stesso’, corrispondendo, bensì, al ‘dovere sociale’ (il suo stesso ‘lavorare’ non avrebbe per lui senso se non fosse fatto a beneficio dell’intera società, oltreché, ovviamente, di se stesso, ‘per poter campare’, e ‘dignitosamente’). L’etica in generale è fatta di rinunce, anche immediate (il popolano reprimerà se stesso anche al presente, non nuocendo ‘immediatamente’ ad alcuno e ad alcunché). Ma ‘i sacrifici’ del popolano sono da esso attuati anche in vista del futuro (essendo insomma ‘previdente’, per sé e per gli altri). L’ ‘uomo del volgo’ è dunque, sì cinico (nel fondo del suo animo), ma è – al contempo – innocuo, inoffensivo. Non lo è tuttavia nei confronti di chi ‘si macchia di colpe’ (contravvenendo alla ‘Legge’): verso i ‘nemici di classe’ (che per esso sono ‘i cattivi nel loro insieme’), potrà agire, talvolta, anche con spietatezza (in base alla gravità delle colpe da essi commesse). Il popolano non è cioè troppo cavalleresco; il suo motto sarà piuttosto ‘occhio per occhio, dente per dente’ (è cioè poco ‘signorile’ o ‘magnanimo’; è poco votato al ‘perdono’, all’ ‘indulgenza’). Tale, dunque, l’ideologia puramente comunitaria (o comunitarista) dell’ ‘uomo del volgo’. Detto ciò, si è concluso l’esame delle tre (sole, a mio giudizio) possibili tipologie umane (sia pure – vi è da ribadirlo – nella loro ‘più assoluta purezza’. Sono inoltre tali da combinarsi tra loro in vari modi. Ma ho inoltre tralasciato di considerare una quarta tipologia umana, ossia quella del ‘puro cristiano’; la caratterizzerò sufficientemente più in avanti). Avrei dunque scandagliato (spero di averlo fatto adeguatamente) l’animo umano. Ma ho fatto ciò, soprattutto per conoscere quale sia l’ ‘indole’ (per meglio dire, il ‘modo d’essere’) del ‘puro banchiere’, in modo tale da poter prevedere (pur attraverso delle congetture ‘da prendere per buone con la dovuta cautela’) i suoi intenti più reconditi (perlomeno alle ‘masse’).

Le possibilità che si offrono sono allora – pressoché certamente – due: o esso è un ‘egoista’ (un ‘puro borghese’), oppure è un (ben più ‘lucido’ rispetto a quest’ultimo) ‘nichilista’ (dalla mentalità quindi ‘aristocratica’, ma non ‘decaduta’ o ‘sfaldata’; persino prima del medioevo tale tipo di mentalità aveva perduto la sua originaria ‘purezza’). Personalmente, sarei più propenso a considerarlo quale un ‘sapiente’ nichilista, che sarebbe inoltre in grado di ‘tematizzare’ il suo nichilismo (ritengo, insomma, che dei suoi piani futuri ne sia abbastanza cosciente, avendoli – addirittura nel trascorrere dei secoli – ben ponderati e consapevolmente deliberati). Ebbene, nel corso della storia (a partire tuttavia, come si è visto, dai tempi iniziali del basso medioevo), il ‘mondo della finanza’ avrebbe (sia pure, com’è ovvio, molto lentamente), dapprima sbaragliato l’ ‘aristocrazia’, per poi abbattere il ‘comunismo’. Cosa gli resta – logicamente – da fare, al fine di ottenere la sua ‘supremazia’ a livello globale?

Ma abbattere l’ultimo ostacolo che gli si frappone dinanzi al raggiungimento del suo ‘scopo supremo’, intralcio corrispondente al ‘mondo della grandissima imprenditoria’. Quando anche l’imprenditoria verrà ‘ridotta all’osso’, ‘all’essenziale’ (non potrà infatti del tutto scomparire in una società che sarà ancora di tipo ‘capitalistico’), il cartello dell’altissima finanza mondiale concentrerà nelle sue mani (sia pure per lo più indirettamente) il grosso dei beni e delle risorse (di ogni tipo) mondiali. In altre parole, con il suo ‘denaro’ l’ ‘altissima finanza’ sarà ‘potenzialmente’ in possesso di quasi tutto il mondo. E farà certamente ‘meno affari’ rispetto a prima. Ma, giunta ad un tale punto, cosa se ne farà dei suoi affari? Sarà infatti finalmente (definitivamente) riuscita ad ottenere il massimo del guadagno cui poteva ambire, avendo ‘spremuto fino al midollo’ chiunque non faccia parte della sua (più o meno stretta) cerchia. Si è detto inoltre come il denaro non sia altro che un surrogato di una (qualsiasi) ‘arma’ (intendendo per essa un generico ‘strumento di oppressione’): ebbene, ‘l’universo della finanza’ riuscirà finalmente a produrre il massimo del disagio sociale e il massimo dell’oppressione cui si potrà mai ambire (status quo più odioso – si disse – dello stesso originario e animalesco ‘stato di natura’). Ora, i (per così dire) ‘buoni’, vogliono la fine della povertà – e ancora di più della ‘fame’ – mondiali, vogliono che al mondo ci sia vera, equa, giustizia, desiderano che non ci sia più gente servile innocua, nonviolenta, ma lamentevole (mera ‘funzione’ dell’esercizio del ‘sadismo’; senza tale tipo di gente il ‘sadico’, il ‘sadiano’, ‘non saprebbe con chi prendersela’). Desiderano, insomma, che di ‘brutta gente’ di ogni risma (malvagi, ipocriti, perversi, lavativi, incompetenti ecc.) non ve ne sia più. Ebbene, i ‘nichilisti’ non possono che desiderare uno scenario planetario che si contrapponga completamente a quello sopradescritto, cui aspirano dunque i ‘buoni’. Da un simile, malvagio, ‘habitat’, i ‘cattivi’ trarrebbero il maggior godimento possibile (e trattasi proprio – trattasi letteralmente – di ‘godimento’: anche se, almeno in alcuni casi, di tipo non – o non troppo – esplicitamente sessuale; si parlò, infatti, di ‘pansessualismo’). Per poter concludere il saggio dovrò tornare a parlare del clima culturale che si respirava nel medioevo (tale discussione è stata infatti lasciata in sospeso), ma soprattutto in riferimento al corso del tredicesimo secolo, accennando inoltre ad alcuni mutamenti culturali che si verificheranno intorno al ‘cinquecento’. Parlerò poi dei rapporti tra l’arte e la filosofia, che vanno dal diciassettesimo secolo fino al finire dell’ottocento. Chiuderò il saggio tornando a riflettere sull’ ‘uomo’ e su fenomeni politici abbastanza recenti, attuali (attraverso brevissimi cenni), e futuri. Prima di parlare dell’ ‘amor cortese’ così come lo concepirono i trovatori in lingua d’oc e i trovieri in lingua d’oil (analogamente lo concepirono diversi ‘minnesänger’, cantori di area tedescofona e di estrazione – di norma – ghibellina e anche piccolo-nobiliare al pari di trovieri e trovatori), farò riferimento a Dante Alighieri, nonostante sia un esponente del mondo della cultura più recente rispetto alle suddette tipologie di letterati.

Per poter discutere della sua poetica è prima necessario tentare di chiarificare la sua visione teologico-filosofica, il che non risulta essere cosa facile. Ho cercato di trarla avendo fatto riferimento al Convivio, al De Monarchia, ma anche ad alcune parti della Divina Commedia. Ciò nonostante risulta già difficile stabilire se il ‘Sommo Poeta’ sia stato un puro aristotelico; potrebbe infatti aver fatto propri anche alcuni aspetti della dottrina platonica. Come si disse, le conseguenze morali del platonismo e dell’aristotelismo, si somigliano – quantomeno – molto. Ma, forse, il platonismo sarebbe un po’ più mondano rispetto all’aristotelismo. Le Idee, infatti, danno concretezza, sostanzialità, ai vari ruoli sociali (ad esempio ad un certo mestiere), mentre il nominalismo aristotelico rende la dottrina dello stagirita maggiormente legata (per così dire) all’ ‘ideale’ (al coltivare, cioè, eminentemente degli ‘ideali’, nella vita). Insomma, per Aristotele è la sola moralità a contare davvero: è in fondo l’unico ‘valore’, è l’unica cosa che dovrebbe ‘davvero importare’ ad un uomo: la sua ‘levatura morale’ è cioè ‘tutto ciò che conta’, prescindendo dalla sua collocazione sociale (gerarchicamente alta o bassa, dunque all’interno di uno ‘stato organico’). Ma è probabile che per Dante (da borghese o da ‘piccolo nobile imborghesito’ che sia stato) anche i ruoli mondani avevano ‘un loro peso’ (‘una loro certa importanza’). Per quel che invece riguarda la sua visione più generalmente e puramente ‘metafisica’, ecco in cosa sarebbe potuta consistere. Potrebbe addirittura aver coinciso con la visione teoretico-filosofica dello stesso Aristotele (se interpretato come segue): quest’ultimo potrebbe avere attribuito a Dio la facoltà del libero arbitrio (quale ‘perfezione’ divina). Ma Dio, proprio in quanto ‘perfetto’, pur disponendo di tale facoltà, sceglierebbe sempre per il ‘bene’. E così, un masso potrebbe volere liberamente e gratuitamente ‘contrariarsi’ sperimentando il ‘vuoto’; un animale potrebbe ‘contrariarsi’ optando liberamente per il proprio svantaggio (negando, in tal modo, il suo costante egoismo). Infine, l’uomo ‘umano’, potrebbe, non solo agire egoisticamente, ma potrebbe anche arrecarsi svantaggio, sempre ‘secondo contingenza’. Ma l’ ‘amore’ di Dio per l’uomo è tale da rendere ‘costante’ il comportamento di ogni essere del ‘creato’, in modo tale che un uomo possa sempre ‘ben orientarsi’ nella vita. Riferendoci ora al De Monarchia, non possiamo far prescindere la visione filosofica dantesca dalla sua visione della politica (in quanto le due cose risultano, perlomeno in una certa misura, collegate). Ebbene, Dante ritiene che il potere regale derivi direttamente da Dio, ritenendo inoltre (e forse ‘in connessione’) che alla Chiesa spetti il solo potere spirituale (non dunque quello temporale). Anche i passaggi che ho considerato dell’opera politica di Dante non risultano di facile interpretazione. Egli vi afferma che l’imperatore agirebbe dapprima per ‘cupidigia’. Ma quando quest’ultima lo conduce a ‘possedere il mondo intero’ (a ‘possedere tutto’), essa cesserebbe di operare (nel suo animo, ovviamente). È così che al sovrano – non potendo più ‘desiderare’ – non resterebbe da far altro che far rispettare a tutti le sue giuste leggi.

Ritengo che, quando Dante parla di ‘universalismo imperiale’ realizzato, non vada preso troppo ‘alla lettera’. Sto sostenendo, insomma, che la ‘cupidigia’ del sovrano cesserebbe nel momento in cui esso diverrebbe l’essere socialmente, politicamente ed economicamente più importante del mondo (senza dunque che il suo impero debba per forza avere la più ampia estensione). Dante, legittimando in certo qual modo le ‘brame di conquista’ dell’imperatore, non porrebbe del tutto in discussione i principi su cui si fonda ogni società politica che sia ‘tipicamente’ medievale. Non porrebbe, di conseguenza, in discussione la legittimità delle conquiste dell’intera aristocrazia (quella subalterna al sovrano). Allo stesso tempo non metterebbe però neanche in discussione le ambizioni di guadagno borghesi, le quali non dovrebbero, dunque, per Dante, essere soggette a vincoli che le ostacolino. Insomma, alcuni principi dell’universo politico medievale (servitù della gleba ecc.), non verrebbero posti in discussione dal grandissimo poeta fiorentino. Dante, nell’opera in questione, asserisce dunque che il sovrano deve apportare ‘felicità’ all’intera società della quale è a capo. Come devono essere intese tali parole pronunciate dall’Alighieri? Credo che lo scopo del sovrano sia quello di proteggere la persona – esclusivamente – ‘fisica’ dei membri della società, nonché la loro – legittima – proprietà (sia che sia dunque derivata dagli ‘affari’, sia che sia derivata dalla conquista militare). Ogni questione (più propriamente) ‘morale’ (concernente ad esempio anche l’ ‘uso delle buone maniere’ fra gli uomini), sarebbe invece di esclusivo dominio della Chiesa. Essa deve impartire agli uomini i principi della ‘fede’ (in Dio, ovviamente), della ‘speranza’ (che esista Dio e dunque – primariamente – anche un’ ‘al di là’), della ‘carità’ (dell’amore reciproco tra ogni essere umano, quale primaria e più essenziale conseguenza della ‘fede in Dio’): è in tal modo che, anche verso chi non gode (se non altro ‘di fatto’) di nessun diritto politico, ci si dovrebbe comunque comportare civilmente e umanamente (facendo, ad esempio, l’elemosina al mendicante delle città). Le tre virtù teologali avrebbero validità solo a patto che Dio esista e, con esso, una (sua) ‘creazione’ (in quanto tale) ‘reale’ (‘di peso’, ‘avente valore’). Se infatti ‘fede’ e ‘speranza’ vertono su di Lui, l’esercizio costante della ‘carità’ ha senso solo a patto che esista una ‘realtà creaturale’. Ma perché non spetterebbe tanto al ‘filosofo’, quanto piuttosto al ‘sacerdote’, convincerci dell’esistenza di Dio e della creazione? Poiché – ritengo – Aristotele non dimostra l’esistenza di Dio (e, con essa, l’esistenza di un mondo reale e regolare). Si limita, tutt’al’più, a dimostrare l’esistenza di un ‘primo motore immobile’, quale tuttavia ‘singolo attributo’ divino (se, inoltre, lo avesse dimostrato nell’interezza dei suoi attributi, la completa operazione filosofica kantiana non avrebbe avuto ragion d’essere). Tentò poi, certamente, di dimostrarne l’esistenza ‘completa’ (ovvero, di Dio ‘nella sua completezza’), Anselmo d’Aosta: ma, dal momento che la sua ‘prova ontologica’ si incentra sulla ‘positività’ dell’ ‘esistere’ (dell’ ‘esistenza in generale’), non da ogni scolastico venne accettata (nella sua pretesa, dunque, di ‘assoluta certezza’). Infine, per dimostrarne l’esistenza, non si potette (assai probabilmente) ricorrere neanche al platonismo, in quanto sarebbe impossibile per l’uomo (in generale) sperimentare la totalità delle Idee simultaneamente (ossia Dio. O meglio, il ‘Dio platonico’; la mente umana non sarebbe cioè idonea ‘a contenerlo’). Dal momento che ci si è riferiti (poco fa) alle ‘virtù teologali’, ciò mi dà occasione di parlare brevemente del cristianesimo paolino e della funzione da esso svolta all’interno delle società medievali. Dal Fioretto francescano della Perfetta letizia emergono espliciti riferimenti a Paolo di Tarso, e il monaco Pier Damiani influenzò l’ideologia francescana. Se Gregorio VII si servì dell’anzidetto monaco per i suoi scopi politico-sociali, lo stesso fece Innocenzo III con Francesco d’Assisi. Per entrambi i frati, nel mondo, sarebbe addirittura assente un ‘disegno provvidenziale’: l’intera realtà, che sia stata considerata da costoro come ‘creaturale’, o che sia (addirittura) coincisa (per costoro) con Dio stesso (per così dire, manifestantesi ‘sotto mentite spoglie’), non andava neanche minimamente cambiata (in quanto – nell’uno come nell’altro caso – essa ‘cadeva’ interamente – e imperscrutabilmente – sotto il dominio divino). Tutto di Dio (o – in alternativa – della creazione) andava dunque rigorosamente rispettato, porgendo sempre l’altra guancia e non opponendosi mai al male (che eventualmente si riceveva). Ebbene, una tale ideologia era destinata a far leva sui ceti più umili – semplici contadini, garzoni e mendicanti – per ‘tenerli buoni’. La mite allegrezza (o anche uno stato di serenità), a costoro, gli sarebbe eventualmente derivata unicamente dal fatto che, seguendo sempre (e unicamente) i comandamenti divini, si sarebbero anche potuti convincere di ‘fare la cosa giusta’ (‘stando nel giusto’, avendo cioè ‘azzeccato’ il senso del loro vivere su questa terra, e – più in generale – il senso dell’ ‘esistenza tutta’).

Detto ciò, possiamo finalmente passare a considerare l’ideologia dell’ ‘amor cortese’. La lettura dei componimenti del trovatore Jaufré Rudel (vissuto fra l’altro nel dodicesimo secolo), non deve trarre in inganno: nonostante (ad esempio e in primo luogo) nella sua composizione più celebre, ovvero in Amore di terra lontana, l’amore che prova per la donna amata non viene ricambiato, non per questo il suddetto nobile e poeta rifiuta l’amore sensuale: tutt’altro. Si potrebbe allora paragonare la frustrazione ‘sensuale’, la ‘pena amorosa’ provata dal trovatore in questione, al contenuto di un più (e assai) recente ‘blues’ (che parli d’amore). Insomma, Rudel non vorrebbe altro che poter congiungersi carnalmente con la donna, con la ‘dama’, amata. Confermerebbero tale mia ipotesi sulla natura dell’amore cortese i componimenti di un trovatore quale Lanfranco Cigala, piuttosto che quelli della troviera Maria di Francia (vissuta anch’essa – perlomeno in parte – nel dodicesimo secolo come il Rudel; fu una nobildonna suddita di un re plantageneto): entrambi esaltarono le gioie dell’amore sessuale. Quello dell’amore cortese ritengo sia un fenomeno culturale tipicamente medievale (originatosi nel medioevo). Ma le sue radici andrebbero rintracciate nel mondo romano e italico. Da un lato esso attingerebbe dalla cultura espressa dal popolo romano ai tempi della nascita del culto di Giove Capitolino (secondo – pressappoco – l’interpretazione di detta cultura da parte di uno studioso come Carl Koch); dall’altro attingerebbe dal costume feziale, caratterizzante ogni popolo italico (umbro-sabellico). Ai tempi della fondazione della ‘triade capitolina’ i Romani erano mondani o terreni; inoltre (contraddicendosi) attribuivano all’esistenza in generale una nota di positività, negando l’ebbrezza e credendo, dunque, nella possibilità della ‘gioia’, quale effettiva e assoluta felicità terrena (ossia, da sperimentare già ‘in vita’). Il costume feziale era invece di tipo cavalleresco. Tali due elementi culturali, combinandosi tra loro (in una ‘sintesi’), diedero luogo all’ ‘amor cortese’, il quale, se lo intendiamo in un’accezione estesissima, accompagnava ogni momento dell’esistenza di un uomo dall’animo nobile (persino quando si trattava di combattere, di guerreggiare). Attenendoci (per il momento) alla concezione ‘cortese’ dell’amore sessuale, ecco in cosa sarebbe consistita. L’ ‘amore’ in generale, per non essere ‘egoismo camuffato da amore’, non deve volere ‘nulla in cambio’ (soddisfazione, felicità, personali): l’ ‘amore vero’ (o ‘autentico’) è quindi un puro atto di ‘rinuncia’ (è – in generale – ‘sacrificio, in pro dell’Altro, fine a se stesso’). Nell’accoppiamento sessuale uno dei due partner rinuncia ad ‘abusare’ (sia in modo più o meno ‘blando’, sia – addirittura – in modo ‘cruento’) dell’altro partner. Da quest’ultimo riceverà però in cambio (‘in dono’, pur senza, però, avervi neanche minimamente aspirato) un atteggiamento sensuale tale da appagarlo veramente e pienamente, assolutamente (sarà tale, cioè, da renderlo ‘gioioso’). Tra i due amanti si stabilisce dunque una perfetta simbiosi, una profonda sintonia: chi si esibisce sensualmente, sa bene cosa desidera il suo partner in quella determinata fase in cui si esibisce per lui (e viceversa, quest’ultimo farà lo stesso quando verrà anche per lui il momento di ‘mettersi in mostra’).

Insomma, nell’uno e nell’altro amante – sia che si tratti di ‘mostrarsi’, sia che si tratti di fruire di quanto ‘si offre a tutti i suoi sensi’ – l’impulso sessuale (egoistico) è accompagnato ‘senza sosta’ da ciò che potremmo definire ‘ascetismo amoroso’: un tale ‘connubio’ è tale da soddisfare costantemente, pienamente, massimamente, entrambi gli amanti (in ogni fase del congiungimento sessuale, a partire dai ‘preamboli’, ossia dal petting, fino a giungere – quindi man mano – all’orgasmo, ovvero all’apice del piacere sessuale). E (ad esempio) il fisico della donna deve essere già predisposto a tale tipo di rapporto amoroso-sessuale: dovrà essere una donna, per così dire, ‘misuratamente procace’ (per cui, una donna che supera detta misuratezza, manifesterà, al contrario, una bellezza perversa, sia per difetto, che per eccesso); tutte le sue sembianze e fattezze dovranno cioè essere, nel loro insieme, belle o armoniose, ‘ben proporzionate’ tra loro. Ma l’uomo nobile, l’uomo dall’ ‘animo cortese’, ama l’intero creato, pur avendo delle preferenze, per le quali sarà portato ad ‘amare’ alcune cose più, altre cose meno, stabilendo dunque una scala gerarchica in cui le colloca (però tutte, ‘nessuna esclusa’). Al primo posto porrà la sua donna e la sua prole, subito dopo il suo ‘signore’, quindi la sua ‘gens’, poi seguiranno i propri ‘amici’ (i suoi ‘pari’) e, dopo di essi, il suo popolo d’appartenenza, e così via, giungendo a provare del ‘rispetto’, del ‘ritegno’, persino per i propri schiavi, nonché (addirittura) per i propri nemici. La graduale indifferenza che prova nei confronti della suddetta gerarchia (dell’intera ‘Alterità’ o ‘Natura’) man mano che ‘scende di grado’, lo fanno essere sempre gioiosamente attivo (‘volitivo’) nei confronti di tutto ciò che fa (nella sua vita). Per cui, non è mai ‘perverso’, persino quando guerreggia: combatterà quando il suo particolare stato d’animo (di tipo coraggioso, ossia ‘audace’, ‘ardito’, ‘impavido’ o ‘intrepido’ che dir si voglia; ovvero, ‘pronto’ persino a morire) glielo suggerirà. Certamente, non vorrà tuttavia essere trattato in modo ‘disumano’ (eccessivamente, ‘oltremodo’, crudele) da parte del suo nemico. Ma egli stesso non vuole trattare il suo avversario in modo disumano (non tuttavia ‘per tornaconto’, ma ‘per amore’): per cui lotterà lealmente, ‘mettendosi nei panni’ del suo rivale, al quale dunque risparmierà atteggiamenti spietatamente e cinicamente crudeli, ‘infami’ nei suoi confronti (nel caso dunque del suo ‘prevalere nello scontro’). È probabile che, ancor prima del Guinizzelli, fu il trovatore Sordello da Goito (alquanto più vecchio di quest’ultimo) ad aver anticipato lo stilnovismo (solo che, a differenza di Sordello, per gli stilnovisti l’ ‘amore nobile’ non era prerogativa del solo ceto aristocratico): i suoi stessi ‘scritti di invettiva’ denoterebbero una concezione realistico-umanistica. Inoltre, pare avesse nutrito una venerazione (la si potrebbe dire) ‘platonica’ (anche se, a parere di molti, solo ‘sulla carta’) per una certa nobildonna (di rango a lui superiore). Ma se vogliamo conoscere concisamente il fenomeno culturale del ‘dolce stil novo’, possiamo riferirci al celeberrimo sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare (e a quanto – in prosa – brevemente lo introduce). Innanzitutto c’è da dire come la concezione dell’amore degli stilnovisti abbia (assai probabilmente) poco a che vedere con quanto si è detto a proposito dell’ ‘amor cortese’ (più propriamente detto); essi avrebbero piuttosto preso a modello della loro ideologia, la cultura scolastica, la quale fece quindi leva soprattutto sull’alta aristocrazia. Beatrice (così come la ‘donna-angelo’ in generale) incarnerebbe un canone di bellezza tutt’altro che avvenente: la donna-angelo in generale, non è prosperosa, ma (è comunque) aggraziata, nonché minuta (siamo perlomeno portati a immaginare ciò, leggendo – ad esempio e in primo luogo – il suddetto sonetto della Vita Nova). Non è tale, quindi, da ispirare desideri di natura sessuale in chi la osserva, quanto piuttosto incita al miglioramento (al perfezionamento) morale: il ruolo di Beatrice è dunque ‘eticamente edificante’, in quanto susciterebbe ‘buoni sentimenti’ (e non ‘erotismo’) in chi la guarda.

(continua…)

Umberto Petrongari

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