I medesimi archetipi prodotti dall’immaginario collettivo possono dar luogo nel tempo a differenti interpretazioni simboliche che variano durante il naturale corso storico e si traducono in diversi atteggiamenti comportamentali. Questa mutevolezza, affatto frutto di capricciosa fantasia, può essere indicativa delle condizioni ambientali e delle problematiche esistenziali a cui ha dovuto assoggettarsi periodicamente la sensibilità comunitaria.
Nei momenti che hanno caratterizzato il rapporto uomo e animale, il lupo è apparso catalizzatore di comportamenti umani del tutto contrastanti. Le fasi che si sono succedute o hanno coesistito a diverse latitudini sono state inequivocabilmente testimoniate da una serie di prove fornite dalla documentazione e dall’oralità trasmessa dalle fonti documentarie e dalla tradizione orale. I ruoli assunti dal canide: progenitore, compagno materno, bestia feroce, accompagnatore remissivo, martire assediato dalla sfrenata antropizzazione, possono apparentemente suscitare ragionevoli perplessità qualora vengano decontestualizzati dallo scenario che li ha visti nascere. Inquadrati nel panorama originario rendono possibile, se non la giustificazione, almeno il tentativo di una corretta comprensione.
Il lupo solare: padre totemico, guida e progenitore adottivo (figg. 1,2)
Presso numerosi popoli nell’antichità l’immagine del lupo ha assolto agli ideali di una funzione positiva. La sua figura è stata associata a quella di un dio, di un protettore divino, impegnato a difendere l’uomo. Nella preistoria i denti del lupo erano considerati ornamenti preziosi e potenti talismani. Inteso come portatore della luce e genio solare, all’animale era stata dedicata la costellazione dell’Orsa Maggiore; la sua raffigurazione rupestre compare spesso nelle caverne preistoriche (Adalbert de Beaucorps, Pierre Heinrich, Histoire de France, Librairie de l’Arc, Belin-Beliet, France 1914). Presso la città di Lycopolis (Asyút), situata nel delta del Nilo, si venerava come divinità il lupo (James George Frazer, Il ramo d’oro, Vol. III, Torino 1965, p. 779). Osiride (Asar) tornato dal regno delle ombre sotto le sue sembianze aveva portato agli uomini la civiltà mediante l’insegnamento delle tecniche agricole (Boris De Rachewiltz, Egitto magico-religioso, Roma 1982). Anche nella tradizione popolare romena,gli studi di Eliade ( Mircea Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan, Ubaldini Ed., Roma 1975), ne mostrano la funzione di psicopompo,accompagnatore impegnato nel portare le anime all’estrema dimora.
I miti di derivazione classica greco-romana vedono il lupo accostato al dio Apollo, al dio-sole. Il lukos dei greci deriva da lukè, prima luce del mattino. L’associazione al culto solare di Febo-Apollo, nei riti estesi al bacino mediterraneo perdurerà fino al V secolo dell’era cristiana. Nella primitiva tradizione venatoria dei popoli europei nel Nord Europa i lupi avevano fama di divoratori dei serpenti, notoriamente simboli del diavolo ed erano ammirati per lo stoicismo con cui sapevano affrontare in gruppo la morte. Anche per queste considerazioni, fino alla Riforma luterana, il comportamento del canide è stato equiparato a quello del Cristo (Louis Charbonneau-Lassay, Il bestiario di Cristo, Vol. I, Arkeios, Roma 1995). I paesi di area celtica attestano il legame con il culto della luce. Dal nome celtico del lupo (bleiz) deriva il termine Belen/Belenus, nome gallico di Apollo e le dracme in uso corrente presso le tribù galliche della Lombardia in epoca preromana portavano in recto la testa laureata di Artemide e sul rovescio la raffigurazione di un animale molto agile simile ad un lupo gradiente. Dall’illirico dhaunos (lupo) prendono nome i Daci che come gli Sciti (saka→dahae) conducevano una vita nomade e fuggiasca.
Una vera e propria metamorfosi si verificava nei rituali iniziatici indoeuropei quando i Männerbünde (società giovanili) si trasformavano in orde selvatiche i guerrieri-belva i ûlfhêdhnar,uomini-lupo e vestivano con la pelle dell’animale. Parimenti ai Licaoni dell’Arcadia, stanziati nell’Asia Minore, anche la tribù sannita dei Lucani derivava l’eponimo da Lykos (lupo). Nella leggenda è un hirpus (un lupo sacro) a guidare la migrazione del popolo degli Irpini. Il legame onomastico costituisce di per sé un fenomeno esteso, riscontrabile fin nel medioevo e sottintende il rapporto religioso, fatto di considerazione e rispetto riservato all’animale totemico. Popolarmente le caratteristiche del lupo, identificate con il coraggio, la forza, la determinazione, finiranno per influenzare l’onomastica e i blasoni nell’araldica.
A Roma il culto del dio-lupo appare sotto la denominazione di Apollo Soranus (KARL Kerenyi, Miti e misteri, Torino 1979; Renato Del Ponte, Dei e miti italici Ecig, Genova 1985), dio degli inferi. Nella cultura mongola il Lupo Celeste è progenitore di eroi, tra i quali Gengis Khan (Mircea Eliade, La nascita mistica, Morcelliana, Brescia 1974) ed è ancora una lupa, Marzia, a proteggere ed allevare Romolo e Remo, fondatori della città. Il 15 di febbraio di ogni anno si svolgevano nell’Urbe i Lupercalia, a ricordo di quel miracoloso allattamento. I Luperci,
giovani sacerdoti divisi in due schiere di dodici membri ciascuna, compivano riti di purificazione e di fecondità (Georges Dumezil, La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano 1977 e Karl Kerenyi, Miti e misteri, Torino 1979).
Il simbolo della lupa compariva sia nei monumenti pubblici che in quelli funebri (Johann Jakob Bachofen, La lupa romana sui monumenti sepolcrali dell’impero, Sear ed., Parma 1991). Nelle legioni romane il Signifer o vessillifero, rappresentante della truppa, recava sulle spalle una pelle di lupo la cui testa veniva usata come copricapo e le zampe erano allacciate alla gola e alla vita. Queste considerazioni, del tutto favorevoli, nei confronti del lupo, durante l’alto medioevo saranno destinate a continuare. È Paolo Diacono a narrarci l’avventura occorsa al bisnonno Leupchis che,scappato dalla prigionia degli Avari, incontra un lupo che lo accompagna e ne favorisce il ritorno in Italia (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Rusconi, Milano 1971).
La bestia antropofaga e i protettori cristiani (Figg. 3,4,5)
Dopo il primo millennio, almeno in area mediterranea, questi atteggiamenti benevoli nei confronti dell’animale sembrano mutare. Gli spazi destinati all’agricoltura, le terre bonificate, a partire dal decimo secolo aumentano. Gli animali selvatici percepiscono l’ostilità di queste sopraggiunte limitazioni. Gli uomini disputano loro il cibo e nei boschi diventano temibili concorrenti di caccia (Vito Fumagalli, Paesaggi della paura, Il Mulino, Bologna 1994). In antitesi con l’agnello, emblema del Cristo, il lupo assurge a concentrato di tutte le tre peggiori qualità diaboliche: impudicizia, ingordigia e ira come ne è un esempio la lupa dantesca. Etichettato da animale crudele finisce così per diventare il camuffamento preferito utilizzato dal demonio per manifestarsi sulla terra. Il feroce predatore di ignari passanti (così è raffigurato nelle stampe), reduce dalle stragi di animali (come viene riprodotto nelle tavolette dei soffitti rinascimentali) e divoratore di bimbi (ne sono testimoni le scene pietose prodotte dalla religiosità popolare) sembra placarsi solo al sopraggiungere dell’intervento divino, patrocinato dal potente santo (tramandato nell’incontro di San Francesco) o dall’intercessore celeste (testimoniato negli ex voto conservati nei santuari). Contro il povero animale sembra scatenarsi una vera psicosi che continuerà nel corso dei secoli successivi.
In un’epoca di guerre, carestie e pestilenze aumenta anche la popolazione dei lupi. I branchi si spostano seguendole zone limitrofe alle aste fluviali dell’Oglio, del Serio, dell’Adda. L’inquietante presenza mal tollerata si intensifica con l’arrivo dei transumanti. Si fa scoperta, quando la stagione invernale spinge i branchi, in cerca di cibo, ad attaccare cascine e nuclei urbani. Vengono innalzate mura intorno alla città, per allontanare le forze ostili e pericolose rappresentate dagli eserciti nemici, dalle bande di briganti ma anche con lo scopo di evitare gli assalti di queste paurose bestie feroci (Vito Fumagalli, Paesaggi della paura, Il Mulino, Bologna 1994).
Nei codici diplomatici dei secoli VII-XII è stata notata la frequenza con cui nelle cronache compare il nome proprio di Lupus, attribuito a uomini liberi e vengono offerte numerose indicazioni toponomastiche che costituiscono prove dell’ingombrante presenza: nomi di campi, case, cascine, vie e luoghi. Le cronache di Salimbene de Adam (1247) evidenziano la massiccia frequentazione della fauna lupina diffusa in tutta la Pianura Padana, ormai quasi completamente coltivata. Il mutato atteggiamento, da parte della comunità comprova la nuova insofferenza verso la moltitudine di lupi voraci. Da predatori si avvicinano nottetempo ai centri abitati, razziano armenti, pollame, attaccano gli uomini, ragazzi e bambini, facendone una strage raccapricciante. Le cronache tramandano racconti spaventosi, secondo cui i piccoli vengono rapiti nelle culle o strappati dalle braccia delle madri. Le testimonianze agghiaccianti, anche se enfatizzate dalla tensione, provengono da aree diverse e sono state raccolte in vari momenti. Alla base risultano alcuni casi incontestabili che portano a considerare come l’infausta presenza venisse poi messa in relazione ad eventi demoniaci. Risulta problematico parlare di pure fantasticherie poiché la disparata campionatura delle fonti storiche, il loro susseguirsi in un arco di tempo considerevole, avvalorano i giustificati timori, inquadrabili in uno scenario drammaticamente realistico. Il lupo è rimasto l’unico animale antropofago, le fonti raccontano la sua propensione nel cibarsi della carne umana. Dal XV al XIX secolo nei registri ecclesiastici si registra minuziosamente la pietosa raccolta di quella scia di sangue, teste, membra e viscere che costituiscono i tragici avanzi dei banchetti lasciati dall’astuto predatore. Il problema diventa collettivo. L’incolumità pubblica va tutelata e la minaccia, affatto trascurabile, viene presa in considerazione dalle istituzioni pubbliche. La preventiva sicurezza assume ufficialità e gli statuti municipali dei liberi comuni contengono appositi capitoli dedicati alla caccia dei lupi che vengono portati vivi o morti sulla pubblica piazza per la riscossione di prestabiliti premi. Nell’archivio comunale dei paesi è possibile rintracciare dichiarazioni che avvalorano le aggressioni del canis lupus lupus. Anche il soccorso religioso non tarda a mancare e nei santuari si conservano ex voto dedicati ai miracolosi soccorsi divini. Si intensificano nelle chiese e nei santuari i culti appositamente professati per sfuggire al pericolo dei canidi ed evitare i loro frequenti attacchi. Le immagini di San Defendente, Sant’Ignazio, San Bellino acquistano potere apotropaico nel lenire le ferite prodotte da morsi e le malattie procurate alle vittime degli incontri con bestie inferocite che razziano i preziosi armenti.
Dal lupo terribile dei romanzi neogotici al lupo ingordo e sciocco del floclore (fig. 6)
Il lupo incontrollato, che vagava famelico tra lande desolate, avvolto nelle cupe atmosfere medioevali, è diventato tòpos di recenti romanzi storici. Tali racconti di genere, iniziati con successo da Giuseppe Pederiali (Le città del diluvio, Ed. Rusconi, Milano 1978; L’Osteria della Fola, Ed. Garzanti, Milano 2002) hanno trovato voce presso diversi narratori. In queste leggende padane, dedicate al Mare Gerundo, all’Insula Fulcheria e alla Gera d’Adda vengono narrate le vicende di personaggi nostrani, alle prese con guerre, pestilenze e carestie. La vita dei protagonisti è spesso in bilico tra le feroci scorrerie delle belve selvatiche e crisi spirituali. Ne esce il quadro di progenitori, eroi loro malgrado, in un mondo pervaso da certezze teologiche ma tormentato da incertezze quotidiane.
Se la progressiva antropizzazione del territorio sottrae sempre di più alle fiere gli spazi del bosco, la civilizzazione, di pari passo con la bonifica del territorio, fagocita progressivamente l’incolto. Lo spazio ridotto favorisce il confronto esplosivo tra uomo e animale. Oggi, dopo il secolo dei lumi, la battaglia dell’uomo civile contro la belva antropofaga sembra ormai esser definitivamente vinta. Il lupo braccato e privato dell’habitat naturale batte in ritirata e sta quasi scomparendo. Come si conviene nella migliore tradizione storica ai vinti non può spettare che il disonore. Del selvatico antagonista viene celebrata la spietata ferocia di origine demoniaca, sono evidenziati gli strali che lo sbeffeggiano spietatamente, esponendolo al ridicolo. È sintomatico notare la sua goffa presenza nelle fiabe locali, popolate anche da altre entità, per metà reali e per metà fantastiche.
Esseri immaginari come gatacornia,gata-marangola, mandrane, bésa-rana/bis raniröl, bésbiloch, rüsa-madüna sono spauracchi, finalizzati a limitare quei pericoli a cui è inevitabilmente soggetta la popolazione infantile. In questo panorama zoologico i temibili mostri occupano l’immaginario nei racconti del folclore. Tra questi figura anche l’archetipo del lupo che è pure presente nelle favole. Come nella storia di Cappuccetto Rosso, nata dalla tradizione popolare europea, emancipata e propagandata dai fratelli Grimm. Quando però nelle nostre storie il temuto personaggio fa la sua apparizione ha già assunto tutti i difetti storicizzati, veri o presunti, che gli sono stati attribuiti dalla recente storiografia. Lo incontriamo adempiere a ruolo di gregario, nella più famosa e conosciuta “pastòcia della cagnulina”, nei racconti che d’inverno venivano raccontati nelle stalle. In questo caso si tratta di un animale ormai storicizzato. Ha perso il ruolo di terribile antagonista occupato un tempo e rimane solo un’ombra decadente e caricaturale della sua fama originaria. Non incute più paura ma solo pena poiché, nella memoria comunitaria, la primitiva pericolosità è ormai ridotta ad uno sbiadito ricordo. La sua battaglia è stata irrimediabilmente vinta dall’uomo. In queste saghe popolari riveste il ruolo dello sciocco, ingordo e credulone, sodale subalterno dell’astuta cagnolina. Quest’ultima con petulante malizia riesce sempre a gabbarlo. Mentre la cagnulina assapora i frutti del ladrocinio e delle menzogne derivati della sua furbizia, il povero lupo, per ingenua fiducia e limitata capacità di comprensione, paga di tasca sua la voracità che lo contraddistingue.
Il protagonista, animale-lupo, ormai addomesticato, può essere identificato con il personaggio, stereotipo del contadino zotico e credulone. Il villico, sedotto dai miraggi della civiltà urbana, ha perso le originarie caratteristiche di forza, coraggio, schiettezza, capacità che un tempo lo contraddistinguevano. È questo un lupo che dell’indomabile selvatico conserva solo il pelo e la fame atavica. Nelle varianti del racconto rimane sempre succube dei bassi imbrogli di una commare antipatica e saputella. È pure immeritevole di qualsiasi compatimento poiché da più forte cade preda del più imbelle compare. La cagnulina veste le parti del cittadino, e come tale è assuefatta alle doti antropomorfe della menzogna e del tradimento. Ritorna l’eterna antitesi tra gaget (campagnolo/zotico, da gahagi, gagio/gazolo voce longobarda di terreno boscoso, selvatico, incolto e quindi gaget=uomo dei boschi) e schitì (cittadino/cagasotto, dal goto skeitan morire).
Il comportamento dei due (cagnolina e lupo) non solo casualmente è affine a quello dei giovani razziatori, le bande italiche preromane (verehia-juventus), gli esiliati (bersekire ulfedhnar dei Männerbünde) del ver sacrum. I protagonisti della storia popolare conservano curiose analogie e possono essere equiparati agli uomini-lupo della protostoria europea. Il ricordo delle loro gesta ha subito un ennesimo processo di folclorizzazione e, attraverso le credenze popolari, tramutati in leggenda, sono giunti fino a noi.
Il lupo: povero perseguitato e ramingo (fig. 7) Per i fautori dell’ambientalismo radicale e del ritorno ad un naturalismo originario, la decadenza della civiltà passata, così come l’eccessivo sviluppo antropico della presente, sono due fenomeni conseguenti; entrambi hanno avuto per effetto lo scatenarsi, la reazione e sparizione della popolazione lupina. Questa, a seconda dei casi, ha reagito sentendosi minacciata. Nei tempi della moderna globalizzazione e dei timori ecologici, la figura del lupo feroce assalitore, è andata ulteriormente sfuocando, sostituita da quella del “lupo vittima” e “soggetto dannatamente sfortunato”, un “lupo Alberto” come viene spesso rappresentato nella serialità dei cartoni animati.
Il nostro interprete si è ridotto ad essere oggetto di riprovevoli e ingiustificati comportamenti persecutori da parte dell’uomo. È subentrata la tesi secondo cui il lupo di per sé non sarebbe antropofago. Senza rifugio, spinto dalla fame, quasi per necessità è stato ed è costretto ad assalire l’uomo.
In questi ultimi anni ha quindi preso piede la tendenza a minimizzare i danni prodotti un tempo dall’insaziabile predatore. Nonostante dalle carte degli archivi laici ed ecclesiastici spuntino incontrovertibili prove sui misfatti che hanno caratterizzato i rapporti sanguinari reciprocamente intercorsi tra le passate generazioni e la fiera silvestre. La sua forzata reintroduzione nel ciclo biologico risponde a motivazioni di seria preoccupazione e ottempera ai danni di una possibile paventata estinzione della specie. In un habitat, ormai irrimediabilmente compromesso, che stenta ad essere vivibile anche per l’uomo, il lupo non può che occupare il posto di un trofeo circense, tutt’al più da esporre nel salotto-buono dei parchi, delle riserve o degli zoo.