[Un ringraziamento all’amico Mirko Filippetto e a mia madre
per il supporto bibliografico, la compagnia durante i “sopralluoghi” e i suggerimenti
per la stesura di questa ricerca]
Introduzione: cenni sulla visione cosmica degli antichi,
dal Neolitico alla letteratura classica
Una particolarità che si riscontra in modo pressoché universale nelle più varie culture preistoriche, protostoriche e antiche (in una parola, tradizionali) è l’allineamento di importanti strutture di tipo sacrale o civile impostato su particolari orientamenti astronomici.
Le suddette costruzioni, di tipologia varia ed eterogenea, venivano erette in modo da poter osservare direttamente certi punti del paesaggio circostante, punti che fin da epoche lontanissime avevano rivestito un particolare interesse da parte delle popolazioni locali, specialmente dal punto di vista calendariale, e quindi anche sacro e religioso. Gli esempi sono innumerevoli e ben noti: dai tipici osservatori-santuari megalitici diffusi in tutta l’Europa mesolitica e neolitica, all’orientamento del tempio greco diretto ad Est (concetto di tradizione dorica e in seguito ampiamente recuperato dal Cristianesimo antico e medievale), fino ai magnifici e colossali templi di pietra delle civiltà dell’America centrale e meridionale, eretti in linea con particolari posizioni del Sole e degli altri astri (ad esempio il pianeta Venere, particolarmente considerato nella cultura Maya, o la stella Capella della costellazione dell’Auriga, la cui levata al solstizio d’Inverno era attesa dagli Zapotechi di Monte Albán per iniziare la semina del mais).
È il caso di ricordare e considerare una volta di più, infatti, come l’umanità primordiale vedesse e vivesse il legame profondo, pressoché simbiotico tra i cicli dei fenomeni celesti e il regolamento della vita e dell’attività umana. La vita dell’agricoltore e dell’allevatore è necessariamente regolata dalla conoscenza dei ritmi cosmici, fin dai tempi (se non da prima ancora) delle civiltà stanziali del Neolitico (complessivamente situato tra il 9000 a.C. circa fino al III millennio a.C., ma la periodizzazione varia alquanto a seconda dell’area mondiale e delle rispettive culture): l’attenta osservazione delle potenze naturali celesti e terrestri, legate all’alternarsi delle stagioni, deve essere seguita non solo per gli appositi lavori legati alle coltivazioni, ma anche per officiare i relativi riti, sacrifici, preghiere. Per l’uomo antico, ogni fenomeno naturale, ogni manifestazione delle forze cosmiche (non casualmente il greco χοσμος indica un «ordine» universale e interconnesso) è appunto il fenomeno di ciò che ci appare, e che in realtà si trova molto più oltre; sempre in greco il verbo φαίνω, ovvero «apparire», «fare apparire», «manifestare», mantiene la stessa radice lessicale di φως: la luce che fa apparire, che svela ciò che illumina, come ricordano tanti indimenticabili brani dell’opera di Platone. È sempre a ciò che si riferisce un’altra criptica e bellissima immagine, quella del Fuoco universale di Eraclito, definito πύρ e anche λόϒος del Cosmo, che si manifesta nel suo continuo, ordinato espandersi e ritrarsi loans-cash.net.
Anche la grande letteratura antica, infatti, testimonia puntualmente e in infiniti casi questo concetto, che ritroviamo ad esempio al centro delle opere di Esiodo (Le opere e i giorni), Arato di Soli (i Fenomeni e pronostici, poema didascalico dedicato appunto agli eventi astronomici e meteorologici), Marco Manilio (gli Astronomica) e Virgilio (le Georgiche), solo per restare nell’ambito della cultura classica.
Naturale, quindi, che la naturale concezione del mondo come un terribile e meraviglioso spettacolo foriero di profondi significati e scandito da ritmi precisi sia stata assolutamente tipica e radicata anche presso le antiche culture del Nordest d’Italia, che hanno espresso questa visione attraverso l’erezione dei tumuli artificiali noti tradizionalmente con i termini di motta, mutera o montiron (plurale montironi) in area veneta, e con quello di gradisca in ambito friulano.
Si tratta di collinette costruite in terra battuta, solitamente di altezza media dai due ai dieci metri e di larghezza variabile, talvolta anche di un centinaio di metri, la cui costruzione si rivela una tradizione ripresa in vari momenti della lunga storia di queste terre, ma la cui origine si perde nell’oscurità dei tempi primigeni.
Sulle culture venete preistoriche e protostoriche
Pare che fin da tempi lontanissimi l’antica terra veneta si sia rivelata florida e ospitale per i vari popoli che vi si sono insediati nel corso dei millenni; questo grazie alla ricchezza delle acque, la fertilità della terra e gli abbondanti territori di caccia, incentivi fondamentali per una vita meno dura e per lo sviluppo delle comunità. Le più antiche tracce di una attività umana nella regione sono state rinvenute in provincia di Verona, nei siti di Quinzano, Riparo Tagliente, Torbiera di Barbarago e Grotta di Fumane, che hanno restituito reperti risalenti al Paleolitico medio e inferiore.
Decine di millenni più tardi, nel Veneto neolitico, si sviluppano numerosi e importanti siti della cosiddetta civiltà dei vasi “a bocca quadrata”, cultura ampiamente diffusa in tutta l’Europa dell’epoca. Nell’Età del Bronzo Antico (collocabile all’incirca tra la fine del III millennio e il 1500/1200 a.C.) si ha la comparsa della cultura di Polada, una civiltà palafitticola diffusa nell’Italia settentrionale dell’epoca e particolarmente radicata in Veneto nelle zone del Lago di Garda, dei Colli Euganei e nella Valle dell’Adige. Gli agricoltori di Polada utilizzano le tecniche lavorative tipiche dell’epoca, come l’uso dell’aratro e degli animali da traino; è in quest’epoca che il cavallo diviene un animale da allevamento molto importante nel territorio, tanto che nei secoli seguenti i cavalli veneti diverranno molto apprezzati e richiesti presso i popoli limitrofi e soprattutto nel mondo greco e romano. Successivamente si manifesta la cultura dei castellieri, caratterizzata appunto dalla diffusione di abitati fortificati, costituiti da pietre a secco accatastate, posti in cima alle colline nelle zone pedemontane (valli alpine e valle dell’Adige), che saranno riutilizzati e manomessi in epoca romana e altomedievale.
Originata dalla precedente cultura terramaricola diffusa in Emilia, Lombardia e Veneto occidentale, è approssimativamente tra il XI e il IX/VIII secolo a.C. che si sviluppa la cosiddetta cultura protovillanoviana, che nel giro di qualche secolo avrebbe poi originato, o almeno mantenuto delle considerevoli influenze, sulle culture tirrenica ed etrusca che introducono intorno al IX secolo l’uso del ferro.
Tra VIII e VII secolo compare invece la celebre civiltà atestina o paleoveneta, cultura proveniente dall’Europa orientale che parla una lingua indoeuropea vicina al latino e utilizza un proprio alfabeto (mutuato da quello etrusco) di cui si hanno iscrizioni databili dal VI secolo.
La civiltà degli Atestini/Paleoveneti, o Veneti in senso stretto poiché proprio loro per primi si sarebbero fregiati di questo nome (che significa probabilmente «i vincitori»), ha lasciato numerose e rilevanti tracce di un alto livello artistico e tecnologico: elaborate ceramiche, situle, vasi, figurine votive scolpite in metallo o bronzo offerte presso importanti santuari sono stati ritrovati nelle aree di Vicenza, Abano, Lagole nel Cadore, fino a certe zone dell’attuale Friuli (come provano reperti rinvenuti nell’area di San Vito al Tagliamento). Tra le sedi urbane più importanti della civiltà paleoveneta c’è Este, ovvero l’antica Ateste, seguita dagli antichi nuclei di Vicenza, Treviso, Asolo, Oderzo e Altino, e naturalmente Padova, fondata da Antenore transfuga da Troia secondo una tradizione riportata dal patavino Tito Livio (la leggenda si ricollegherebbe alla teoria della provenienza dei Veneti dall’Est, forse dall’Illiria o più probabilmente dalla Paflagonia).
La cultura paleoveneta fiorisce anche attraverso le vive attività commerciali intraprese con gli abitanti dei territori confinanti, come i Reti a nord, gli Euganei diffusi dall’Istria al Garda e le varie popolazioni germaniche d’oltralpe, fino alle comunità etrusche stanziate nella Pianura Padana presso il Po e perfino con la Grecia arcaica e la civiltà cipriota (attraverso la laguna e le principali vie fluviali come l’Adige, il Brenta, il Sile e il Livenza). Tra il VI e il III secolo si verificano progressivamente contatti commerciali, nonché scontri, tra i Paleoveneti e i popoli di cultura celtica diffusi tra la Pianura Padana, il Friuli e le Alpi orientali. Nel corso del I secolo a.C., la forte pressione dei Celti nel territorio determinerà l’alleanza e l’amicizia tra Paleoveneti e Romani, che dopo le vittorie sulle popolazioni galliche locali (Insubri, Gesati, Carni, Boi), estenderanno ai nuovi alleati i benefici della cittadinanza romana con la Lex Roscia del 49 a.C. Pochi decenni dopo, il Veneto diviene ufficialmente la X Regio augustea, in seguito Venetia et Histria, entrando definitivamente nell’orbita di Roma.
La centralità culturale delle motte nel Veneto antico: dimore funerarie,
osservatori-santuari e altro ancora
Il senso del Sacro degli antichi Veneti non si esprime in vere e proprie costruzioni templari, ma all’aperto, in ambienti naturali come boschi, campi e le varie zone legate alla presenza dell’acqua (fiumi, laghi, sorgenti). Il culto autoctono più importante e diffuso è quello della dea Reitia, multiforme principio femminile di fecondità e salute legata alle acque e agli animali, ma anche alla rigenerazione e quindi alla morte. Ad essa si usava consacrare offerte come piccoli ex voto bronzei raffiguranti parti del corpo risanate o da guarire, oppure un particolare tipo di tavolette votive. Molto sentito era il culto dei defunti, ai quali veniva riservata la pratica tipicamente indoeuropea della cremazione seguita dal seppellimento delle urne cinerarie in apposite tumulazioni, per l’appunto quelle che in seguito verranno denominate motte, accompagnate da monili e oggetti personali.
L’erezione dei tumuli artificiali era infatti volta anche e soprattutto a questa funzione funeraria, ed è interessante notare come la tradizione delle motte venete e friulane dimostri una evidente analogia con svariate culture del mondo antico. Molto più a nord, infatti, le società norrene praticarono la medesima tradizione nell’ambito delle ritualità funebri, come prova ad esempio il sito archeologico di Gamla Uppsala, in Svezia, caratterizzato dalla presenza di grandi tumuli funerari contenenti ceneri inumate, risalenti all’epoca di Vendel (VI secolo d.C. – fine dell’VIII). Allo stesso modo, il ruolo di ultime dimore era attribuito ai tumuli eretti dalla preistoria fino all’Età del Ferro in varie zone dell’area mongola e siberiana (espressione delle cosiddette culture Kurgan), proprio come avveniva fino a pochi secoli fa presso vari popoli nativi del Nord America; è significativo, inoltre, che nell’antichissimo massiccio montuoso di Snowdonia, nel Galles nordoccidentale, la vetta del monte sacro delle tradizioni locali porti il nome di Yr Widdfa, che significa nientemeno che «tumulo sepolcrale».
La storia e la religiosità delle genti venete sono quindi rappresentate anche dalla vasta diffusione di questi manufatti, testimonianza plurimillenaria di una usanza atavica (di cui rimane traccia anche nel toponimo della località di Motta di Livenza, in provincia di Treviso, il cui riferimento sarebbe da ricercare proprio nell’esistenza di una antica fortificazione militare romana e preromana posizionata su uno dei suddetti tumuli). Di grande interesse sono le possibili etimologie di questo nome tradizionale: «mutera» e «motta» risalirebbero probabilmente all’antica forma indoeuropea *mut, indicante appunto un rilievo del terreno (ed è notevole come il termine sembri ricollegarsi al latino mater e al tedesco mutter, forse per un sottile ma preciso riferimento alla terra come principio di fecondità e maternità, e quindi di rinascita dopo la morte). Del resto, si ritrova lo stesso significato in termini antico-germanici come il frisone mot, il bavarese mott e lo svizzero motte. Altre suggestive e particolari analogie linguistiche riportano al sostrato culturale indoeuropeo: mentre in gaelico troviamo l’espressione pressoché identica mota, ovvero «collina», si nota una certa assonanza con il nome di Mide (e soprattutto Meath, l’attuale forma anglicizzata con cui esso è tramandato), ovvero l’antico regno situato nella regione centrale dell’Irlanda celtica. René Guénon, in Il Re del Mondo, sottolinea inoltre come, oltre a significare letteralmente «nel mezzo di» denotando una somiglianza con il latino medium, il nome della contea irlandese indicherebbe l’esistenza di una pietra di grandi dimensioni eretta a Ushnagh, località che, evidentemente non a caso, occupa il centro della regione.
Tornando a noi, la presenza delle antiche motte è ampiamente distribuita nelle zone di pianura del Veneto centrale, orientale e nordorientale, grosso modo corrispondenti all’area dell’attuale provincia di Treviso (la medievale Marca Trevigiana, comprendente importanti centri dalle antiche origini come Montebelluna, Conegliano, Vittorio Veneto) e dell’entroterra rurale tra Venezia e Padova (ad esempio nelle località di Scorzè, Martellago, Massanzago, Noale, San Pietro in Gu’), senza dimenticare importanti esemplari nell’area del Vicentino e del Veronese, fino a sconfinare in Trentino-Alto Adige e in Friuli dove sono particolarmente numerose le motte e i castellieri di datazione preistorica.
Le rispettive edificazioni dei numerosissimi siti risalgono, come si è accennato, ad epoche molto diverse e a motivazioni altrettanto varie: tumuli funerari (secondo le ricerche dello studioso e speleologo friulano Lodovico Quarina, vissuto tra XIX e XX secolo, le motte diffuse tra Veneto orientale e Friuli adibite alla funzione tombale assommerebbero a ben 314), osservatori astronomici volti alla contemplazione dei movimenti celesti in momenti topici dell’anno come i solstizi e gli equinozi, nonché postazioni difensive, specialmente se circondate da strutture apposite come aggeri o terrazzamenti. Alcune di esse sono di datazione preistorica, altre protostoriche e ricollegabili soprattutto alla cultura atestina poi assimilata dalla romanizzazione, mentre altre ancora sono di molto successive risalendo all’epoca medioevale o addirittura moderna, essendo state realizzate soltanto qualche secolo fa. Le motte di età più recente, infatti, sono spesso resti di quelle tipiche “ricostruzioni del paesaggio” volte ad arricchire i giardini di certe ville venete, progettate da architetti del XVII e XVIII secolo (come nel caso della mutera sita in Villa Toderini a Codogné, presso Conegliano), mentre altre fungevano da ghiacciaia naturale per conservare le provviste di carne isolate termicamente in una cavità scavata all’interno della collinetta.
I primi studi storico-scientifici sulle motte e i castellieri più antichi conosciuti in Veneto e Friuli risalirebbero già al XVIII secolo, grazie all’opera dell’archeologo Gian Domenico Bertoli, in seguito proseguiti da studiosi come Carlo De Marchesetti (1850-1926), il già citato Quarina, il cui pionieristico lavoro ha portato inoltre alla suddivisione in tipologie di “tombe coniche” e “tombe mammellonari”, e altri ancora. Ma è soprattutto dalla seconda metà del Novecento, grazie a discipline specialistiche e relativamente nuove come l’archeoastronomia (fondata dall’astronomo inglese Norman Lockyer a inizio XX secolo) e l’archeologia del paesaggio (sviluppata soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta), che è proseguita una nutrita e autorevole serie di ricerche sugli antichi tumuli veneti.
Prendiamo ora in considerazione, per una breve panoramica su alcuni dei casi più importanti e rappresentativi, alcune delle più celebri motte distribuite nella provincia di Treviso.
La caratteristica di questi siti, che certifica con evidenza la loro grande antichità, è quella di dimostrare delle connotazioni sacrali legate tanto alla ritualità funeraria quanto all’orientamento astronomico e alle osservazioni celesti. Tra gli esemplari più interessanti ve ne sono di situati nelle zone rurali presso frazioni del comune di Oderzo (centro urbano molto antico il cui territorio ha restituito numerosissime vestigia romane e preromane), come la motta di Colfrancui, quella di Prà dei Gai e quella di Campomolino.
La mutera di Colfrancui, come è appunto chiamata secondo l’espressione locale, è una delle più importanti della zona dell’Opitergino per la particolarità della sua disposizione e per le numerose funzioni che ha assunto nel corso dell’antichità. L’edificazione del tumulo, in terra battuta e di forma tipicamente conica, risale all’epoca paleoveneta e allo stato attuale raggiunge l’altezza di circa 5 metri. Nei primi anni Ottanta, una campagna di scavo riportò alla luce dei frammenti di vasellame e lo scheletro di un cavallo in buono stato (oltre a stabilire che la collinetta venne riutilizzata in epoca romana come fornace): reperti che indicherebbero quindi la funzione tombale della struttura, forse riservata a persone di alto lignaggio. Inoltre, l’area che circonda la motta è delimitata da due lunghi e bassi terrapieni rettilinei oltre i quali due canali di scolo convogliano le acque piovane, ciò evidentemente per finalità volte a qualche rito propiziatorio (il quale ci rimane totalmente ignoto) basato sui due elementi principalmente legati alla fertilità, l’acqua e la terra. Alla fine degli anni Settanta, uno dei maggiori studiosi italiani e internazionali di archeoastronomia, il professor Giuliano Romano (1923-2013), svolse una ricerca sulla struttura dell’area della motta che ha confermato le particolari misure astronomiche secondo le quali essa è orientata. I due terrapieni sono disposti, rispettivamente, uno proprio verso la levata del Sole nel solstizio d’inverno da una parte, e sul solstizio estivo dall’altra; l’altro rilievo, invece, è diretto sulla levata della Luna in corrispondenza della sua periodica massima distanza dall’eclittica, ovvero ogni 18,6 anni (periodo legato al fenomeno detto retrogradazione dei nodi lunari, la cui manifestazione è un percorso più ampio del solito e un culmine molto alto sull’orizzonte da parte del satellite).
La stessa programmatica posizione per osservare questa congiunzione lunare si è riscontrata presso una delle quattro piccole motte site in località Colbertaldo (le quali sono peraltro chiaramente edificate secondo l’orientamento solare nei giorni dei Solstizi e degli Equinozi), nel comune di Vidor presso il Montello, a nord di Treviso: si tratta di un orientamento alquanto particolare ed interessante, volto all’osservazione di questa singolare congiunzione lunare durante la quale, probabilmente, si riteneva maggiore la potenza magica dell’astro notturno.
Nei pressi di Ponte di Piave è invece raggiungibile la mutera in località Campomolino (frazione di Gaiarine), che “svetta” tra le vigne dei campi di una proprietà privata. Documenti locali datati 1464 e 1533 confermano all’epoca la presenza della collinetta artificiale, così come le mappe topografiche del Catasto Napoleonico-Austriaco risalenti al 1830, ma non si è ancora giunti a stabilire se essa fungesse da fortino difensivo o da strumento di osservazione astronomica, né tantomeno a dedurre un’età approssimativa per la sua origine. Alcuni scavi nei pressi della collinetta diretti nei primi anni Ottanta dal professor Marco Tonon (in seguito divenuto direttore del Museo di Scienze Naturali di Brescia), coadiuvato dal già citato professor Romano, hanno permesso il ritrovamento di alcuni cocci e frammenti risalenti all’Alto Medioevo, forse di epoca longobarda, che non dimostrano un utilizzo funerario della struttura precedente a tale periodo.
Tornando nel comune di Oderzo, a non molti chilometri di distanza, troviamo la mutera presso il fiume Rasego, in località Prà dei Gai. Il piccolo tumulo (di poco più di un metro di altezza) è circondata da un terrapieno, denominato castelir nel dialetto locale, presso il quale scavi archeologici hanno restituito reperti in ceramica risalenti all’Età del Bronzo. Come nel caso della motta di Colfrancui siamo di fronte a un tipo di “santuario astronomico”, e specificamente volto all’osservazione solstiziale: sulla parte meridionale del rialzamento circostante la motta, è possibile ammirare la levata del Sole la mattina del solstizio invernale. È curioso e interessante notare come la chiesetta bassomedievale di Borgo Servi, ubicata a circa un chilometro di distanza da Prà dei Gai in prossimità di Portobuffolè, denoti a sua volta un orientamento dell’abside proprio in direzione della levata eliaca del solstizio d’Inverno, a dimostrazione di come questa antichissima tradizione fosse mantenuta nell’architettura sacra delle campagne venete ancora nel XIV secolo dopo Cristo.
Notevole in questo senso è anche il sito delle cosiddette Motte di Sotto, situate tra la località di Castello di Godego (TV) e quella di San Martino di Lupari (PD), raggiungibili sulla Treviso-Vicenza pochi chilometri dopo Castelfranco Veneto. Il luogo è stato oggetto nel corso del Novecento degli studi di Alessio de Bon, di Ludovico Quarina e del celebre ricercatore Cino Boccazzi, che in una campagna di scavo nel 1953 ritrovò dei cocci risalenti probabilmente all’Età del Ferro. In realtà il nucleo più antico della costruzione risale all’incirca al XIV secolo a.C. e si tratta perlopiù di un antico castelliere della tarda e media Età del Bronzo, ovvero ciò che rimane di un vero e proprio villaggio arginato a forma di grande parallelogramma i cui lati misurano una lunghezza superiore a circa 200 metri. Fatto singolare e significativo, il castelliere è disposto in modo asimmetrico rispetto al tracciato della centuriazione romana che appare ancora oggi evidente nella topografia delle strade e dei campi della zona. Ciò dimostra, probabilmente, un evidente rispetto dei Romani nei confronti delle antiche strutture civili, già vetuste di secoli ai tempi della romanizzazione del territorio veneto. Non è tutto: anche in questo caso, dall’analisi dei resti dell’antico villaggio arginato delle Motte di Sotto ritornano gli orientamenti astronomici solstiziali.
È stato dimostrato che i due aggeri circostanti, posti ad Est e ad Ovest, puntano quasi esattamente da una parte ove leva il Sole al giorno del solstizio invernale, dall’altra dove tramonta in occasione di quello estivo. Nonostante le non buone condizioni della struttura, sono tuttavia ancora evidenti la precisione e la preparazione nell’ambito dell’osservazione celeste da parte di coloro che abitarono il Veneto dell’Età del Bronzo: l’elevazione dell’aggere era infatti strategica per individuare le date fondamentali dell’anno agricolo, tramite l’osservazione delle levate e dei tramonti solstiziali all’orizzonte.
Per comprendere questo concetto molto diffuso, quasi sistematico nell’edificazione delle motte antiche e preistoriche concentrate nelle aree rurali del Nordest, è il caso di ricordare quanto l’evento del solstizio invernale, con la sua apparente e temporanea morte del Sole seguita dalla lunga rinascita verso l’equinozio di Primavera, fosse profondamente atteso e magnificato dalle varie tradizioni dei popoli europei (e non solo, come si è accennato per quanto riguarda le civiltà mesoamericane). Ad esempio presso i Celti era indicato come «Alban Arthuan» (la rinascita del dio Sole), per i Germani era «Yule» e in Scandinavia «Jul» (la Ruota dell’anno o Ruota solare), senza ovviamente tralasciare il Dies Natalis Solis Invicti romano (apice del periodo festivo dei Saturnalia nella seconda metà di dicembre) e la nascita di Mithra, importante divinità della Tradizione Indo-iranica assimilata e “naturalizzata” in quella di Roma imperiale.
La preistoria e la protostoria europea hanno lasciato numerosissime testimonianze di luoghi adibiti a templi astronomici che, da quanto si è riscostruito, erano dedicati proprio all’osservazione dello spettacolo offerto dal tramonto o dalla levata del Sole in questo particolare momento cosmico, la cui importanza simbolica e rituale era assolutamente centrale nella visione dell’uomo. L’esempio più arcinoto rimane il complesso megalitico di Stonehenge, in Gran Bretagna (che dimostra ben 24 orientamenti astronomicamente significativi), ma si possono citare luoghi affini e altrettanto importanti come il sito di Newgrange in Irlanda e Kermario in Francia, oppure il complesso megalitico del monte Croccia, in Basilicata, frequentato dalle popolazioni locali dal Neolitico fino ai primi secoli avanti Cristo. Si attribuisce un impiego magico-rituale legato al giorno del solstizio anche alle numerose incisioni preistoriche a carattere esplicitamente solare, come quelle che caratterizzano i siti paleolitici di Bohuslän e Nämforsen in Svezia, o il Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri sito a Capo di Ponte in Valcamonica (Lombardia), i cui reperti datano dal Neolitico all’Età del Bronzo.
Gli stessi Reti, antica popolazione preindoeuropea diffusa tra l’attuale Trentino Alto-Adige, la Svizzera e l’Austria, che come si è detto entrarono in contatto con i Veneti, praticavano riti propiziatori a base di roghi di sterpi per aiutare il percorso della rinascita solare in occasione del solstizio. Si tratta chiaramente della stessa usanza tramandata nella cerimonia del Panevìn veneto e del Pignarûl friulano, ovvero l’accensione, in periodo solitamente post-natalizio, dei falò notturni a scopo scaramantico e divinatorio (attraverso le ceneri o la direzione del fumo), diffusa nel Nordest italiano fino all’Emilia occidentale. Da ciò che si è ricostruito, come nel caso delle Motte di Sotto di Oderzo o quella sita a Colfrancui, numerose mutere paleovenete e gli annessi “castellieri”, spesso ad esse precedenti di secoli, rientrano in questa tipologia di osservatori solstiziali. Potremmo citare anche il caso del cosiddetto castelar di Volpago, purtroppo in parte demolito, che ci riporta sulle pendici del Montello. Dalla chiesa parrocchiale di Giavera del Montello (probabilmente costruita anch’essa su un antico castelliere), posta a poca distanza, si può ancora oggi osservare il tramonto del Sole nel solstizio d’Inverno, proprio in coincidenza del castelliere di Volpago.
Concludiamo questa breve rassegna di alcune tra le più importanti mutere della campagna trevigiana (oltre a rimandare ovviamente alla corposa e documentata bibliografia relativa, di cui indichiamo più in basso qualche titolo significativo), rimarcando che questi importanti monumenti dell’antichità veneta non possono che essere rispettati e salvaguardati: di tante motte e castellieri, oggi, rimangono infatti ben poche tracce non tanto a causa dell’incuria e del passare dei secoli, ma soprattutto per un apposito sventramento a causa dei lavori legati alla nuova edilizia e alle modifiche della viabilità. È il caso ad esempio del grande aggere di Veronella Alta, località tra Vicenza e Verona in cui è ubicato il suddetto tracciato dell’Età del Bronzo Antico (ciò che rimane del solco primigenio circostante un antico villaggio), la cui originaria forma perfettamente ovale è sfigurata ormai da vari decenni, ma si potrebbero indicare altri esempi nel territorio trevigiano, come il citato castelliere di Volpago, e oltre.
Oltre a essere parte della deturpazione (ma si dice “rimodernamento!”) di una delle campagne più splendide d’Italia, che nell’ultimo mezzo secolo è stata ampiamente ricoperta di asfalto e cemento in vilipendio alla salute dei cittadini e alla bellezza estetica del paesaggio naturale, la demolizione degli antichi monumenti veneti denuncerebbe né più né meno che uno sradicamento della nostra più antica cultura autoctona, un’offesa alla meraviglia e al rispetto che i nostri avi nutrivano verso la natura e l’universo, stabilendo un ideale punto di contatto fra la terra e il cielo. Non certo una novità, in un’epoca in cui si tende troppo spesso a dimenticare che, da che mondo è mondo, un albero non può crescere e mantenersi saldo senza le proprie radici.
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