Quando Pilato chiese a Cristo “che è la verità?” non attese risposta. Questo sembra far di lui uno scettico. O forse Cristo preferì tacere. Rispondere “Io sono la Verità” non poteva certo soddisfare un funzionario romano. E se Pilato avesse chiesto: “com’è possibile conoscere la verità?”, “Io sono la Via” l’avrebbe sicuramente deluso. Nell’opinione comune la verità è l’accertamento di un fatto, cui si arriva per prove e deduzioni. Come in un procedimento giudiziario, c’è l’escussione dei testimoni, la ricostruzione dei fatti, si chiariscono le circostanze, si cercano i moventi. Così noi celebriamo un ininterrotto processo alla realtà; ma tutte le informazioni raccolte si avvicinano come curve asintotiche alla verità, senza toccarla mai. Metto sotto processo la realtà e vorrei farla confessare. La torturo con lunghe analisi, con estenuanti interrogatori, senza accumulare altro che indizi inconcludenti.
La verità resta un orizzonte ideale verso il quale mi muovo. Ciò dipende dal limite intrinseco delle mie conoscenze. Devo accontentarmi di scegliere tra le molte ipotesi quelle che mi sembrano più coerenti e credibili. Il mio pensiero sembra affetto da una congenita impotenza a cogliere una indubitabile verità. Come Montaigne, potrei chiedermi: que sçay-ie?’ (cosa so?), secondo la classica fede pirroniana nel valore del dubbio, se mi si passa il paradosso. Ma io son troppo scettico per credere nello scetticismo. Mi avvalgo sovente della facoltà di dubitare, ma qualcosa mi impedisce di cedere alla tentazione del dubbio sistematico. Il punto è che i dubbi paralizzano, e la vita ama fluire, detesta le paralisi.
Prendo dunque in mano gli atti del mio processo e, bene o male, mi sforzo di giungere a una conclusione. Innanzi tutto, valuto i testimoni e la loro credibilità. Diranno di aver visto e sentito, ma possiamo fidarci di occhi e orecchi? Alcuni credono che i sensi ci possano ingannare. Tuttavia, la loro sincerità mi sembra fuori questione. Se poggio la mano sulla stufa rovente, non mi parrà fresca. Quando le nostre idee non li confondono, i sensi ci offrono un sapere chiaro e affidabile. “Quella stella è spenta da anni ma i sensi la vedono ancora, quindi ci ingannano”. Ma il tuo occhio ti dice solo “c’è una luce”, è la tua ragione che ti inganna. La realtà ci giunge attraverso i sensi in modo incorrotto. Ma quando una sensazione sfiora la nostra coscienza, come un vento sull’acqua, ne increspa la superficie con i concetti, le emozioni e i loro qui pro quo.
Più ambiguo è il secondo testimone, la memoria. Il sapere ‘storico’ è spesso fallace. Anche quando possediamo una vasta mole di documenti e testimonianze, niente ci può garantire che corrispondano alla realtà. Manipolazioni intenzionali o involontarie, punti di vista parziali, ricordi o impressioni erronee, interpretazioni arbitrarie, tutto ciò si mescola nella ricostruzione del passato. Gli stessi soldati che combattono una battaglia non sanno dire alla fine cosa sia veramente successo. La storia è sempre frutto di una elaborazione che rimedia come può all’impossibilità di tramandare un’immagine integra e imparziale degli eventi.
Noi stessi abbiamo reminiscenze vaghe della nostra vita. Spesso le arricchiamo di fatti inesistenti e ne cancelliamo altri, confondendo realtà e immaginazione. Senza contare quelle vaste lande del passato sepolte dall’oblio. I ricordi sono piccole isole in un mare di dimenticanza. Eppure, crediamo di conoscere perfettamente fatti avvenuti a persone sconosciute in tempi lontanissimi da noi. Naturalmente questa conoscenza si regge in gran parte su congetture e fantasie. Ma a forza di leggere libri di storia si finisce col crederli specchi del reale. Occorre quindi, di fronte alle pretese dello storicismo, essere cautamente scettici.
Anche la ragione, che coordina i dati dei sensi e della memoria, ha un curriculum che la rende inaffidabile. Cambia spesso parere, e quello che ora le appare una certezza, lo giudica poi un’ipotesi superata. Si limita a spiegare fatti mediante altri fatti, e a cambiare la sua spiegazione quando viene a conoscenza di fatti nuovi. I suoi stessi fondamenti logici appaiono in certi casi inadeguati. Lei stessa inclina talvolta allo scetticismo e preferisce sospendere il giudizio.
Sembra così che nessuno dei nostri testimoni offra garanzie di verità. Alla fine, ci affidiamo a loro solo per orientarci praticamente ed emotivamente nella vita. Qualcuno mostra una fede ingenua nei loro precari saperi, altri sono più dubbiosi. Ma tutti, indipendentemente dalla nostra cultura o educazione, ci atteniamo a quel senso comune che poggia sulle loro deposizioni. Ne ricaviamo quella familiare, istintiva Weltanschauung che, a guardarla più da vicino, può sembrare una somma di superstizioni.
Il punto è che per formulare un qualsiasi giudizio sulla realtà devo fidarmi delle mie facoltà di giudicare. Questa fiducia è il substrato di ogni mia esperienza e conoscenza. Sensi, memoria e ragione sono i navigatori da cui mi lascio fiduciosamente guidare. Ma come posso fidarmi della mia fiducia? Qui tocco il fondo. Non si tratta infatti di verificare un fatto ma gli strumenti con cui lo verifico. Ma gli strumenti con cui procedo a tale verifica sono gli stessi che devo verificare. Non posso uscire dal circolo vizioso di una coscienza che dubita di sé stessa senza un’intuizione che la trascende.
Alcuni chiamano questa intuizione fede. E non avrei nulla in contrario, se liberassimo tale parola dalle incrostazioni della credenza e della superstizione. Occorre liberarsi dei luoghi comuni e degli automatismi intellettuali che questa parola evoca. È necessario anche distinguerla da altre modalità di pensiero che le sono più o meno vagamente imparentate. V’è per esempio la fiducia che concediamo ad altri, ovvero l’assenso che diamo loro per amore o rispetto. I bambini ne sono l’esempio più convincente: privi di senso critico, si fidano ciecamente di genitori o insegnanti. Sono ben note le patologie di questo sentimento. Vi sono alcuni che per tutta la vita cercano autorità, esperti, maestri, guru, che li guidino e forse li castighino, come eterni scolaretti. Nascono così quei pomposi ipse dixit e quella saccenteria in cui si arena la libertà dello spirito. Ci si aggrappa a quei saperi che non si conquistano con le proprie forze ma si acquistano per pochi soldi in libreria.
La fiducia è comunque essenziale per la sopravvivenza di una società basata sugli scambi personali. Quando in una città sconosciuta chiediamo a un estraneo di indicarci la via non pensiamo che ci mentirà. Crediamo istintivamente negli altri, anche quando l’esperienza ci ha disilluso e reso più guardinghi. Spesso la fiducia si corrompe e diventa una sciocca credulità. L’informazione, la pubblicità, la propaganda politica, sfruttano quotidianamente questa interiore debolezza. Normalmente, si dovrebbe procedere alla verifica di asserzioni accettate sulla fiducia. Ma la gente preferisce credere e risparmiarsi la fatica di riflettere. Così, viene continuamente ingannata col suo consenso: vulgus vult decipi, ergo decipiatur.
Diverso è il caso in cui diamo il nostro assenso ad affermazioni che non sono verificabili né dai sensi né dalla ragione: “uccidere è male”, “esiste un aldilà”, “Maria è una bella ragazza”. Gran parte delle nostre convinzioni è di questo tipo, cioè presuppone postulati etici, estetici o metafisici. Tali credenze son parte integrante della vita, a prescindere dalla loro verificabilità. Dovessimo limitarci alla ragione, passeremmo tutto il nostro tempo a dilettarci di teoremi geometrici. Ma quando ci si apre alla vita, entra in noi un potente flusso di esperienze affettive. È da loro che dipende il valore della nostra esistenza. Non è l’esprit de géométrie ma l’esprit de finesse che dona alla vita la sua poesia e il suo misticismo, fa da contrappeso alla prosa delle nostre faticose esistenze.
Ma la fede ha radici ben più profonde della fiducia. È l’intuizione di una realtà concreta e autonoma fuori di noi, e di una corrispondenza tra la nostra coscienza e il mondo dei fatti. Questa certezza è in noi tanto ovvia e naturale che raramente ci pensiamo. Sempre distratti dalla superficie delle cose, non ne vediamo il fondo. Ma se non credessimo in un rispecchiamento tra percezioni e mondo esterno, tra le idee e le cose, non si creerebbe in noi alcuna immagine della realtà. E se non fosse per la fede in un ordine naturale, sarebbe impossibile comprendere la realtà e organizzarla in schemi sensati. La ragione in sé non potrebbe cogliere ritmi e regolarità dei fenomeni e dedurne delle leggi senza una sua fiduciosa assonanza con gli schemi della natura. Per questo interpretiamo il mondo non come un’aleatoria fantasmagoria, un caos puntiforme, ma come un discorso coerente in sé stesso. Crediamo che la natura governi tutto con leggi uguali, logiche, e che una stessa realtà sia comune a tutti.
Se fossi privo di questa fondamentale intuizione, non potrei sapere che altre persone percepiscono un fiore giallo dove io vedo un fiore giallo, un abbaiare di cane dove io sento un cane abbaiare. Non posso dedurlo per analogia, dalle somiglianze dei nostri organi percettivi. Infatti, come potrei sapere che questa somiglianza è reale e non apparente? Qualcuno direbbe che mi baso sul buon senso. Questa formula banale nasconde in realtà una metafisica assai complessa, una philosophia perennis comune a ogni uomo in ogni tempo. Attraverso una sorta di intuizione trascendentale so che esiste fuori di me un mondo fatto di alberi, fiumi, montagne, e che queste cose sono reali quanto me.
È vero che le moderne teorie hanno in gran parte distrutto quel mondo codificato dalla fisica classica in cui tutti intuitivamente credevano. Infatti si parla oggi di una scienza contro-intuitiva. Un mondo solido sembra dissolversi come un fantasma, lasciando al suo posto interazioni, processi, attività, mutamenti sconcertanti e paradossali, sospesi tra aleatorietà e indeterminismo. Per osservarlo il fisico moderno indossa occhiali speciali, fatti di equazioni matematiche e laboriose speculazioni. Ma quando risale nel mondo abituale, dove scorre la vita umana, anche il fisico si rimette gli occhiali del senso comune e torna a vedere il mondo di sempre. Non può rinunciare alla sua fede nella realtà delle cose. Sa che in circa mezz’ora, percorrendo la solita strada, ritroverà casa sua dove l’ha lasciata, dove lo attendono non aggregati stocastici di particelle ma una moglie e dei figli.
Anche il mistico, dopo esser risalito alla Fonte dell’essere ed essersi sciolto nelle sue correnti come una bambola di sale, magicamente ritrova la sua solidità umana e indossa i panni di Tizio o Caio. Come il fisico, può dubitare del mondo dei sensi e dell’intelletto, e credere che spazio, tempo e causalità siano solo illusioni dure a morire. Entrambi si trovano a vivere ora in un mondo ora in un altro. Di fatto, ogni mondo ha bisogno per esistere di un atto di fede. Il mondo dei sogni è reale finché ci crediamo, ma quando siamo svegli lo classifichiamo come pura fantasia. Solo il sonno profondo, il Nulla, ci strappa a ogni illusione. Non vorrei però che questa parola – illusione – creasse un malinteso. È importante capire che l’illusione non può entrare in conflitto con la realtà ma solo con un’altra illusione.
Prendiamo ad esempio la profondissima la fede che ognuno di noi ha nella propria esistenza personale. Dati anagrafici, stato di salute, relazioni familiari, tutto questo appare illusorio se emerge in noi l’intuizione di un’anima che esiste senza vincoli di tempo e di spazio. Per converso, quest’anima libera e non causata ci sembrerà un semplice miraggio se la nostra intuizione cambia la sua messa a fuoco. Chi ha maturato questa consapevolezza concilia la fede nell’eternità con quella nel transitorio, la fede nel perché delle cose col senza-perché. In lui, quando una è in primo piano l’altra fa da sfondo e il suo io le abbraccia entrambe con un unico sguardo.
Questa fede nel proprio io, qualunque cosa si intenda con questa parola, è lo zoccolo duro di ogni nostra esperienza. Cartesio si illuse di dedurre l’essere dal pensiero. Ma nessun ergo può collegare il pensiero all’esistenza di un io. Se vi sono dei pensieri, questo dimostra solo che vi sono dei pensieri. Non giungiamo alla certezza di essere mediante un processo di inferenze. L’io è un’intuizione immediata, sostenuta da una fede inconscia e inamovibile. Non sapremo mai cosa siamo, ma sappiamo di essere. Ho fede nel mio essere, dunque sono. Questa fede precede la mia nascita e la determina. Sant’Anselmo dice “credo per capire”. Ma ancor prima io credo per essere.
In questa intuizione fondamentale colgo il mio essere nudo, senza nome e senza nascita, come centro e perno di tutto. Ogni sensazione, idea, ricordo, gravita attorno a un nucleo interiore che ne unifica il moto e lo riferisce a un io. Sarebbe assurdo esigerne la dimostrazione. È un assioma esistenziale, una forma di assenso metacosciente che concediamo senza bisogno di verifiche. Per questo è assurdo rifiutare la fede nell’anima o in Dio adducendo il fatto che sono realtà indimostrabili. Il nostro io è altrettanto misterioso ed elusivo, non è in alcun luogo, non ha dimensioni, eppure nessuno di noi dubita di esistere.
Tuttavia, se osserviamo la fredda immagine della natura offerta dalla scienza, potremmo pensare che questo nostro io, con la sua fede in scopi, significati e valori, sia un’anomalia nell’universo. Si crea così una frattura tra il mondo e la mente. Da una parte una natura senza finalità, senz’anima, composta di processi ciechi e meccanici, dall’altra una vita fatta di obiettivi, affetti, slanci creativi, protesa verso un’evoluzione personale. Due mondi opposti e inconciliabili, la cui coesistenza pare assurda. Per guarire questa ferita bisogna riportare la coscienza alla sua Fonte, dove ancora il sé e il mondo esterno non eran divisi. In quella originaria armonia si saldano natura e vita, mondo fisico e mondo spirituale, e l’universo appare pieno di significato.
La scissione tra spirito e natura ha invece scavato un abisso di estraneità tra noi e il cosmo in cui viviamo. Questo spiega la violenza o l’indifferenza che regola i nostri rapporti con la natura. La consideriamo un’entità priva di sentimenti e di coscienza. Ma come potrebbe l’uomo sviluppare il sentimento della propria responsabilità morale se non lo ricevesse dalla natura? L’emergere di una dimensione etica, come il concepimento di un corpo fisico, non dipende da un’autosufficienza dell’uomo ma da principi universali. Questo senso di responsabilità implica l’intuizione di un bene e di un male, di un dovere e di una colpa. Non come norme di un codice convenzionale, ma espressioni di un universo organico, cosciente e solidale, la cui giurisdizione abbraccia Dei, microbi e pietre.
Ogni sistema morale o giuridico, per quanto antico, riconosce colpe personali che determinano conseguenze personali. Non avrebbe alcun senso punire un uomo se i suoi atti fossero il prodotto di ingranaggi meccanici e involontari. Anche una dottrina impersonale come il buddhismo prevede una retribuzione karmica subordinata a una continuità di flussi mentali e desideri soggettivi. Sarebbe assurdo che un essere raccogliesse nella sua vita presente il frutto di vite passate che non ha vissuto.
Così, è difficile credere che esseri viventi dominati da processi finalistici, cioè da scopi e moventi, possano nascere da una natura che ne è totalmente priva. O che individui capaci di amare nascano da una natura che ne è incapace. Dovremmo supporre che esistano due universi paralleli e inconciliabili, uno di fatti fisici, senza scopi e valori, e uno di eventi psichici, e che i due comunichino tra loro in maniera inesplicabile. Tuttavia, la realtà non ci mostra due mondi separati, ma un’unità di natura e mente.
Come percepiamo una profonda integrazione tra le nostre strutture corporee e le nostre esperienze psichiche, così vediamo la nostra soggettività inestricabilmente fusa con l’oggettività dell’universo circostante, tanto che ci è impossibile capire dove l’una comincia una e l’altra finisce. La nostra coscienza contiene il mondo esterno e ne è contenuta. La mia particolarità si fonde con l’universalità di cui sono parte. La Natura mi offre i suoi occhi, mi conserva nella sua illimitata memoria, mi illumina con la sua intelligenza e mi nutre col suo amore. Solo così mi è possibile vedere e ricordare, pensare e amare.
Anche il nostro linguaggio riflette una fede intuitiva nella natura ultra-empirica del mondo. Ma se le parole rimandassero solo ad altre parole non vi sarebbe in loro alcun fondamento di senso. Le parole sono i segni di una Presenza reale che attraverso loro si rivela. È l’universo stesso a rivolgersi a noi mediante simboli. L’astrologia, le arti divinatorie, stabiliscono un dialogo tra noi e un universo simbolico. E quando godiamo della bellezza di una cattedrale romanica o di un corale di Bach è perché, grazie alla mediazione dei simboli, qualcosa in noi vibra in armonia con l’universo. La stessa natura si offre alla contemplazione dell’uomo e sembra iniziarlo al culto del Bello. Qual è il senso dell’arte se non di riflettere un primitivo stupore? È cieco il cuore che di fronte al creato non si meraviglia e non sente nostalgia di cose eterne.
Questo è il motivo della mia fiducia. Se mi fido dei sensi, della memoria e della ragione è perché, pur senza saperlo, ne riconosco il radicamento nella realtà più profonda, ossia nella natura divina dell’universo. Nel fare esperienza del mondo, l’uomo non è un io-soggetto che osserva un mondo-oggetto ma una Realtà che indaga in sé stessa. Per questo ho la certezza che questo fiore o quella stella sono reali quanto me, perché siamo raggi di un’unica Luce. Io e tutte le creature siamo un unico Essere. Insieme partecipiamo di questa unitotalità che ci avvolge.
Questa non è una risposta a Pilato. La Verità non è un’idea da spiegare ma un mistero in cui vivere. È una realtà che trascende ogni sapere, quindi può essere compresa solo dall’ignoranza e dalla fede. Non dalla semplice credenza in qualcosa di ignoto o di ipotizzato, ma da una inconscia evidenza. Se è un sapere, è un sapere senza saperlo. Una Trascendenza silenziosa abita in me e attraverso i miei occhi conosce sé stessa. Non posso dubitare della verità che così mi rivela perché, come dice Eckhart, “l’occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede“. Tutto il resto va preso con sano e disincantato scetticismo.
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