9 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, quarantaduesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro discorso da ottobre. È probabile che leggerete questo articolo molto più tardi, con tutta probabilità non prima della fine dell’anno. Cosa volete farci? I tempi tecnici delle pubblicazioni sono quelli che sono, e nel 2020 abbiamo avuto un vero diluvio di notizie riguardanti i nostri antenati, la nostra eredità ancestrale. Peggio sarebbe se ci trovassimo con una mancanza di informazioni che ci rendesse impossibile proseguire il nostro discorso.

Il 28 di settembre su “Le scienze” on line, un articolo firmato Anna Meldolesi ha davvero il potere di sorprenderci. Si tratta dei risultati di una ricerca di paleogenetica condotta da Martin Petr dell’Istituto Max Planck di Lipsia. Il titolo dell’articolo dice già tutto: Nel DNA dei Neanderthal c’è il cromosoma Y dei sapiens. In sostanza, l’analisi del DNA dimostra che tra 300.000 e 200.000 anni fa nel patrimonio genetico degli uomini di Neanderthal, senza dubbio in seguito a ripetuti incroci con gli uomini anatomicamente moderni di tipo Cro Magnon, il cromosoma Y, quello che determina il sesso maschile, è stato interamente sostituito dalla sua versione “moderna”, sapiens.

A questo riguardo, bisogna dire che ciò costituisce una prova indiretta ma molto convincente del fatto che popolazioni sapiens di tipo Cro Magnon dovevano essere presenti in Eurasia già 2/300.000 anni fa, poiché in Africa di Neanderthal non è mai stata trovata la minima traccia. I neanderthaliani poi, anche su questo non dovrebbero ormai sussistere dubbi, non erano un’altra specie umana, ma membri della nostra stessa specie, usando una parola politicamente scorretta, potremmo dire una razza. Se due individui incrociandosi possono dare luogo a una discendenza fertile, appartengono alla medesima specie, ed è quanto è successo, infatti noi portiamo nel nostro patrimonio genetico, sia pure per una piccola frazione, i segni di un’ascendenza neanderthaliana.

Il secondo punto da evidenziare, è chiaro che una roccaforte dell’ortodossia “scientifica” politicamente corretta cercherà sempre di salvare la capra delle nuove informazioni sui nostri remoti antenati e i cavoli della vulgata che ci viene imposta sulle nostre origini semplicemente retrodatando la presunta e fantomatica “uscita dall’Africa”, ma non può impedire il fatto che a ogni nuova scoperta essa diventi sempre meno credibile.

E’ da rimarcare il fatto che per arrivare a una sostituzione così completa del cromosoma Y neanderthaliano, gli incroci con i sapiens di tipo Cro Magnon devono essere stati ripetuti e frequenti, il che fa supporre una loro presenza in Eurasia numerosa e verosimilmente più antica dei 300.000 anni a partire dai quali il fenomeno genetico si riscontra. Cosa rimane in piedi dopo una simile scoperta, della favola out of africana? Se non continuasse a essere sostenuta dai media e dal sistema a dispetto di ogni evidenza scientifica, assolutamente nulla!

Sempre rimanendo in argomento sul DNA neanderthaliano, c’è da segnalare un articolo pubblicato in data 30 settembre su un sito tedesco, “T-on line.de”, secondo il quale la presenza di questo antico DNA nel nostro patrimonio genetico, ci renderebbe più vulnerabili al coronavirus. Visto che al momento non disponiamo di nessun neanderthaliano vivente su cui condurre osservazioni, mi sembra un’illazione che lascia il tempo che trova.

E’ ancora “Le scienze” del 30 settembre a darci la notizia (che a questo punto aggiunge ben poco all’articolo pubblicato il 28), del ritrovamento nella grotta portoghese di Lapa do Picareiro, di una serie di utensili litici attribuiti a Homo sapiens anatomicamente moderno, e datati fra 41.000 e 38.000 anni fa, 5000 anni prima di quando si pensava gli uomini di Cro Magnon avessero popolato la regione, e un’epoca in cui i neanderthaliani erano sicuramente presenti, e con cui gli uomini “anatomicamente moderni” avranno sicuramente avuto modo di stabilire contatti (ma i 38-41.000 anni sono comunque poca cosa rispetto ai 2-300.000 che la presenza del cromosoma Y Cro Magnon nei neanderthaliani lascia intravedere). Quanto meno, l’Out of Africa diventa sempre più fragile, anche se si cerca di salvarla retrodatando “l’uscita dall’Africa” all’infinito.

Da segnalare in data 1 ottobre l’uscita in edizione italiana per le edizioni L’età dell’acquario, del libro Gli indoeuropei di Bernard Marillier. Vi do un piccolo stralcio della presentazione:

“I popoli indoeuropei furono portatori di un patrimonio materiale e spirituale di primaria importanza nella storia dell’umanità. Alla fine dell’Età del Bronzo costituivano un insieme composito di civiltà, capaci di raggiungere un alto livello di sviluppo culturale. Tra il V e il II millennio a.C. si dispersero in più ondate sulla quasi totalità del continente eurasiatico, spingendosi fino all’India e alla Cina.”.

Come si vede, nulla che non sapessimo già, un lavoro essenzialmente riassuntivo-divulgativo, però diciamolo, ad affrontare certe tematiche ci vuole coraggio, specialmente oggi che i segni della civiltà indoeuropea, caucasica, “bianca” sono sotto un massiccio attacco da parte di “colorati” che vorrebbero assurdamente negare la storia, con “la benedizione” di una sinistra internazionale sempre più lontana da quel popolo (o quei popoli) che pretende di rappresentare.

Il 5 ottobre un articolo di Ed Whelan su “Ancient Origins” ci dà un’altra di quelle notizie che, oltre a sorprenderci, dovrebbero indurci a rivedere l’immagine che abbiamo della preistoria. La grotta di Qesam in Palestina è nota per essere uno dei più ricchi giacimenti conosciuti di strumenti litici di selce risalenti a 300.000 anni fa. Esperti israeliani hanno sottoposto alcuni strumenti all’esame mediante termoluminescenza, giungendo alla conclusione che essi sono stati sottoposti all’azione del fuoco, operazione assolutamente non casuale, ma che serve a rendere la selce più malleabile.

Poiché non sono stati ritrovati fossili umani, non si può dire chi fossero questi misteriosi uomini che lavoravano la selce 300.000 anni fa, ma ci sono solo due possibilità, o si trattava di erectus o si trattava di sapiens. In quest’ultimo caso, uomini “moderni” in Palestina già 300.000 anni fa rappresentano una bella batosta per l’Out of Africa. Nell’altro, erectus tecnicamente avanzati che scaldano la selce per lavorarla, contraddicono l’immagine che ci hanno sempre dato di queste creature come bruti scimmieschi.

Ma che quest’ultima fosse ben lontana dalla realtà, a dire il vero lo sospettavamo già, a partire dal ritrovamento di Dmanisi in Georgia, dove uno dei resti più interessanti è il cranio di un uomo anziano completamente edentulo, che cioè aveva perduto tutti i denti già in vita. Quest’uomo non sarebbe potuto sopravvivere senza l’aiuto degli altri, probabilmente i membri del suo gruppo familiare. Questi erectus si prendevano cura dei loro genitori anziani. Alla luce del fatto che oggi molti sembra che non vedano l’ora di scaricare i genitori anziani come sacchi d’immondizia in qualche casa di riposo non dissimile da un lager, chi sono i bruti degenerati, loro o noi?

Il sospetto che viene sempre più forte, è che si sia voluto dare di questi nostri lontani precursori, così come dell’uomo di Neanderthal, un’immagine marcatamente scimmiesca, e nello stesso tempo umanizzare creature chiaramente scimmiesche come gli australopitechi, per farne i gradini di una scala che porterebbe dalla scimmia all’uomo come prescrive il dogma evoluzionista, ma è proprio su questo dogma che oggi si addensano dubbi sempre più fitti.

Veniamo a qualcosa di temporalmente più vicino a noi, passiamo dalla scala delle centinaia di migliaia a quella delle migliaia di anni fa. Se ve ne ricordate, la volta scorsa vi ho parlato della Società Storica e Antropologica di Valle Camonica, che recentemente ha creato una app gratuita che consente un tour virtuale attraverso le incisioni rupestri camune.

Ora la stessa Società ha emesso un comunicato in cui ci spiega che la giornata del 9 ottobre è stata riconosciuta come Giornata Europea dell’Arte Rupestre. Ve ne riporto uno stralcio:

“Il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea hanno scelto il 9 ottobre come Giornata Europea dell’Arte Rupestre perché è una data strettamente legata alla storia di questo tipo di arte.

In quel giorno, 118 anni fa, è datata la lettera di Émile Carthailac – una delle massime autorità della comunità scientifica internazionale nello studio dell’arte preistorica – che esprime per la prima volta l’accettazione ufficiale delle date paleolitiche che Marcelino Sanz de Sautuola fece nel 1880 alla scoperta della Grotta di Altamira.

Questo riconoscimento ha mostrato le capacità intellettuali degli esseri umani preistorici e l’esistenza dell’arte rupestre dei primi europei. Nella missiva Cartailhac definisce la grotta di Altamira “la più bella, la più strana, la più interessante di tutte le grotte con dipinti”.

Citiamo adesso una fonte alquanto insolita, un sito di fotografia “Bored Panda”, che ha una storia davvero strana da raccontare in un articolo del 7 ottobre. Korchnoy Pasaribu, un geologo indonesiano con l’hobby della fotografia, ha documentato la presenza sull’isola di Buton, una piccola isola dell’arcipelago indonesiano che, ricordiamolo, costituisce il più vasto stato insulare al mondo, di una popolazione indigena in cui sono frequenti gli occhi azzurri, non solo, ma di un azzurro metallico intenso fortemente ipnotico che ricorda i Fremen del film fantascientifico Dune.

Quello che più ci interessa, è che questi nativi ricordano da vicino l’immagine che ci viene spesso proposta degli europei di 8/10.000 anni fa, ed è molto probabile che qualcuno cercherà di sfruttare la cosa in questo senso, sempre per persuaderci di una nostra provenienza dal sud del mondo, e allora è meglio mettere le mani avanti constatando che questo paragone non regge: per prima cosa, quella che colpisce i nativi di Buton è una sindrome, nota come sindrome di Waardenburg che causa svariati problemi e spesso cecità. Gli isolani di Buton ne sono spesso colpiti da un solo occhio.

Gli occhi azzurri delle popolazioni europee settentrionali sono un fenomeno del tutto diverso e si associano a un generale fenomeno di depigmentazione (pelle chiara, capelli biondi) che è un adattamento alle latitudini nordiche, verosimilmente molto antico. Gli abbronzati ochicerulei di certe raffigurazioni non sono verosimilmente mai esistiti. I ricercatori russi, che non sono come gli occidentali obbligati a distorcere i fatti dall’ideologia “politicamente corretta”, hanno individuato geni per la depigmentazione, cioè il colorito chiaro, nel DNA di cacciatori siberiani di 45.000 anni fa.

Ma soprattutto occorre non rimanere fissati al punto di vista dei nostri avversari, che riducono la questione razziale a un semplice discorso di pigmenti della pelle, che non ne è che l’aspetto più banale ed esteriore: Gli Europei erigevano statue, dolmen, templi migliaia di anni fa, mentre altri non andavano oltre la costruzione di capanne di frasche, e sono rimasti a questo livello fino all’arrivo degli europei stessi. E’ questo il punto che fa la differenza.

Ogni tanto, in base a una logica non sempre molto chiara, “Ancient Origins” “ripesca”, rimette in prima pagina qualche articolo pubblicato in precedenza, e questo può talvolta essere molto utile quando si tratta di pezzi un po’ sfuggiti in quel gran mare magnum rappresentato dalle ricerche sulle nostre origini. In questo caso si tratta di un articolo di John Black di quasi un anno fa, 25 ottobre 2019, di cui vi do il titolo in italiano: La scoperta che ha rivelato che gli antichi esseri umani navigavano nei mari 130.000 anni fa. In sostanza, si tratta di questo: in una zona dell’isola di Creta chiamata Plakia, in un canyon denominato Preveli, un team di ricercatori greco-americano ha scoperto un sito paleolitico in cui sono state rinvenute non meno di una trentina di asce a mano e un centinaio di altri strumenti litici come mannaie e raschiatoi risalenti a non meno di 130.000 e forse addirittura 190.000 anni fa.

L’aspetto più importante della scoperta è però il fatto che Creta, che è un’isola separata dal continente da almeno 5 milioni di anni, non può essere stata raggiunta e colonizzata altro che da qualcuno che conosceva l’arte della navigazione (en passant le famose impronte di almeno due milioni di anni più antiche di quelle africane di Laetoli, potrebbero essere state lasciate da una creatura simile al Graecopithecus Freibergi, il nostro “El Greco” quando Creta era ancora unita al continente, ma questi strumenti certamente no). Black si spinge a ipotizzare navi o zattere mosse da vele fatte con pelli di animali cucite, anche se la cosa per ora rimane un mistero.

Gli attrezzi ritrovati sono di tipo acheuleano, e questa è per così dire la “firma” dell’Homo erectus, sarebbero dunque stati questi antichi uomini, che ci appaiono sempre più lontani dalle brutali creature scimmiesche che ci hanno a lungo descritto, a scoprire per primi l’arte della navigazione.

Giustamente, Black si chiede come mai a una scoperta di questa importanza, che risale al 2010, sia stata data così poca attenzione, considerando che finora si riteneva che l’arte della navigazione fosse stata scoperta non prima di 12.000 anni fa. Una risposta gliela avremmo potuta dare noi: non è la prima volta che vediamo una cosa simile, tutte le volte che una scoperta importante contraddice la vulgata, l’interpretazione ortodossa che ci hanno raccontato delle nostre origini, scatta il muro di gomma, dopo un po’, cade nel dimenticatoio.

Penso che mai come questa volta abbiamo toccato con mano il fatto che la versione ufficiale che ci viene raccontata sulle nostre origini è una favola, di certo non più scientifica, ma di gran lunga meno interessante di quelle di Biancaneve e di Cappuccetto Rosso. Non solo l’Out of Africa, ma in generale la stessa teoria evoluzionista va rimessa in dubbio. Così come l’uomo di Neanderthal, anche l’Homo erectus era un uomo forse diverso da noi ma non meno uomo, in grado di prendersi cura dei parenti anziani, di scaldare la selce per renderla più facilmente lavorabile, di affrontare almeno le acque del Mediterraneo con una qualche forma di navigazione, non troviamo mai uomini-scimmia, scimmie che presentino una tendenza umana o uomini scimmieschi, ma solo scimmie con nessuna tendenza verso l’umanità (e gli australopitechi lo erano), o uomini compiutamente umani.

Chi ha costruito il suo potere sulla menzogna deve stare attento. Prima di noi, i fatti sono lì a smentirlo.

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra Gli indoeuropei di Bernard Marillier. Al centro, ragazzo indonesiano dell’isola di Buton, l’occhio azzurro è dovuto alla sindrome di Waardenburg. A destra, così si ipotizza siano state le prime imbarcazioni preistoriche, zattere mosse da vele di pelli di animale (da “Ancient Origins”).

1 Comment

  • Michele Ruzzai 28 Dicembre 2020

    In merito ai ritrovamenti palestinesi di Qesem, e anche a proposito del “dimenticatoio” nel quale vengono lasciate le notizie scomode per la teoria “Out of Africa”, segnalo l’articolo “Scoperte da prendere con le pinze” di Tiziana Moriconi, pubblicato sul numero di aprile 2011 della rivista “Sapere” (di impostazione scientifica e non certo sensazionalistica) che riferiva, in quel sito, essere stati rinvenuti anche otto denti databili a 400.000 anni fa e le cui caratteristiche morfologiche ricadevano pienamente nel campo di variabilità di Homo Sapiens Sapiens. Un colpo mortale per l’OOA dal momento che il ritrovamento africano più antico, peraltro connotato da alcuni segni di arcaicità e situato in un’area praticamente mediterranea, è quello marocchino di Jebel Irhoud che si aggira attorno ai 300.000 anni fa. Ma ovviamente, a meno che non mi sia sfuggito, di quei denti non si è più sentito parlare… Strano, no?
    Un caro saluto.

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