10 Ottobre 2024
Società

L’Impero della paura: la fine della risata tra Soggetto Flebile e censura fai da te – Romina Barbarino

Nota: questo articolo nasce da un comune episodio di cronaca urbana, avvenuto in una città di provincia come tante altre. A seguito di un progetto denominato “Un Natale al Cubo”, concernente l’installazione a scopo decorativo di una serie di vignette a tema natalizio, realizzate dalle migliori firme italiane, una di esse è stata fatta oggetto di efferate polemiche e controversie, che hanno mosso le opinioni di politici e gente comune.

Difficile est saturam non scribere”. Così scrive il poeta Decimo Giunio Giovenale (Acquino 55-60 d.C. – Roma 127 d.C.) nella prima delle sue 16 Satire, raccolte in 5 Libri e verosimilmente scritte tra il 100 d.C. e l’anno di morte. Della vita di Giovenale non abbiamo che rade notizie: ricevette un’educazione pervasa dallo studio della retorica, fu soldato e maestro, intraprese anche la carriera di avvocato ma con poco interesse, preferendo alla parola parlata quella scritta, e, in particolare, quella vergata dall’affilato stiletto della satira. Un genere, quello satirico, ormai ben affermato a quell’epoca, che si prestava ottimamente ad evidenziare il dilagante malcostume morale e culturale di una grandiosa civiltà, che, raggiunto l’acme del suo splendore, cedeva il passo ad un periodo di profondo e grave declino. Almeno agli occhi del nostro al quanto pessimista poeta, il quale leggeva nella libertà dei costumi, nei vizi, nella corruzione diffusa, tutta la debolezza della Roma del suo tempo.

Del resto il livello di complessità raggiunto dalla civiltà romana è degno di una società moderna, dove il benessere, innalzato a nuovo Dio e, almeno apparentemente, assicurato a tutti i gruppi sociali, esonda in un surplus tale da consentire tempo libero, svago e noia, che inevitabilmente degenerano in condotte stra-ordinarie. La satira, così, a differenza di altri generi quali l’epica o la tragedia, si offre quale strumento più adeguato a far emergere il turpe, lo sconveniente, l’abiezione quello che altri componimenti letterari dal piglio più aulico lasciano tra le pieghe. La satira, rinunciando alle precostituite aspettative del codice sociale, sgradevolmente dispiega il lenzuolo, esibisce quanto di più sconveniente appartenga alla natura umana. Ecco perché Giovenale dichiarava che non se ne potesse fare a meno. Seguendo l’ipotetico parallelismo tra società complesse, facciamo un balzo in avanti nel tempo, catapultandoci nella nostra società odierna: la satira è un genere necessario oggi? Prima di rispondere è doveroso definire la “satira”, partendo, aristotelicamente parlando, dalla sua “funzione”: la derisione di personaggi pubblici e atteggiamenti umani comuni, secondo una gradazione che oscilla dal comico allo sprezzante, destando a volte un riso leggero, altre, uno più amaro, confluendo in ultimo anche in intenti di spiccata forma di denunzia. Forse, proprio i pungenti toni accusatori sono quelli che assai spesso l’hanno tacciata di insolenza e di lesività della sensibilità di quanti hanno sperimentato le strette maglie del suo setaccio, provocandone lo sdegno e un’aspra reazione di avversione. Del resto, oltre alla scevra notizia di cronaca (se, ahimè, ancora ve n’è traccia) siamo avvezzi ad un sistema di informazione che “dice senza dire”, ossia indirettamente e/o velatamente offre abbozzi di notizia, senza tuttavia “dirla tutta”, in maniera tale da non offendere sconvenientemente nessuno, che in una società sì complessa quale la nostra “sicuramente avrà qualche aggancio al posto giusto”. Forse che la satira, in un sistema di paura reciproca e capillarmente diffusa, sia la mano che strappa il velo, dietro il quale si nasconde la verità? La poesia ad esempio offre verità e lo fa edulcorandone i termini, con uno stile aggraziato e garbato. La Bibbia offre verità, anzi addirittura la Verità, e si serve di narrazioni favolose. Il mito offre verità attraverso leggendarie gesta di eroi. La satira, no. Essa è sgarbata, a tratti sgradevole, un po’ ruvida. Ci sbatte in faccia la verità come uno schiaffo sonoro. Non ingentilisce i termini, ma piuttosto li dileggia, acutizzandoli, inasprendoli sino al riso più genuino, poiché di fronte alla nudità dell’uomo, non si può che ridere.

Giunti a questo punto del ragionamento, rimane da stabilire se la satira si limiti ad operare su termini pre-esistenti, radicalizzandoli, o se invece essa sia produttrice di qualcosa di nuovo, abbinando alla situazione, al personaggio presi di mira di volta in volta, un valore aggiunto. In quest’ultimo caso, la deliberata variazione dei termini, specificatamente nel loro contenuto semantico, non potrebbe che avvenire per cosciente iniziativa del suo ideatore e l’azione creatrice messa in atto lo esporrebbe automaticamente alla lecita critica valutativa. La satira dunque integra nella sua opera un valore aggiunto? Ebbene, può esser utile tracciare un’analogia con il genere della “caricatura”, il cui termine deriva proprio dal verbo “caricare”, nel senso di “esagerare”, in questo caso, i tratti di un viso, i quali vengono esasperati, variandone forme e proporzioni sino a renderlo ridicolo, senza tuttavia abbandonare la consonanza al termine originale. In questo caso il derisorio disegnatore crea qualcosa di nuovo aggiungendo di propria iniziativa un valore aggiunto? Difficile rispondere. Un accenno di ruga diviene un solco profondo, inciso dall’affilato bisturi della matita, che burla il soggetto esponendolo all’ilarità del mondo. Vero è che quella ruga vi era già, semmai è la sua esasperazione il carattere nuovo che potrebbe modificarne il significato. Paradossalmente, cosa accadrebbe se ad esser preso di mira fosse un volto incarnante la bellezza ideale, i cui tratti corrispondono esattamente ai canoni di bellezza generalmente riconosciuti, come ad esempio la Venere di Milo? Il mordace disegnatore si scoprirebbe disarmato. Come potrebbe esagerare, accentuare, caricare una forma perfetta? Verrebbe meno l’oggetto stesso del suo scherno. La Perfezione è inattaccabile, poiché, non solo qualsiasi distorsione allontanerebbe la copia inesorabilmente dal soggetto originale, ma lo farebbe spingendosi all’atto immotivato, senza scopo, insomma, un vero e proprio sfregio, poiché la bellezza non stimola il riso. Semmai è il piccolo difettuccio, il porro sul naso, che arreca ilarità. Per analogia, al pari di un volto perfetto vi è il modello di società perfetta: Pubblica Amministrazione efficiente, magistratura rigorosa, classe politica retta ed operosa, cittadini civilmente consapevoli. Un organismo funzionale e armonico tale da lasciare ai fortunati partecipanti la pura attività di contemplazione e godimento e che ben poco scarto avrebbe da offrire a qualsivoglia distorsione beffarda. Ma un corpo sociale siffatto è una chimera, un modello platonicamente ideale al quale, possiamo e dobbiamo solo aspirare, approssimandoci quanto più ci sia possibile. L’imperfezione della nostra società invece si palesa nella sua estrema poliedricità, che la rende un’entità frantumata ad un livello tale da risultare assai arduo qualsivoglia tentativo di analisi e successiva definizione di essa in un unico concetto sintetico. Di fronte a tale polimorfismo, apparentemente entropico, l’uomo agito è dimesso, sopraffatto. Fallendo nel tentativo di dare forma definitoria alla sua casa, egli cede il passo, si ritrae, limitandosi al “particolare” immediato, sul quale ancora percepisce di poter ostentare un “diritto di parola”. Il “sé” è in frantumi, riflettendo la morfologia del luogo che lo ospita, e, affievolito, ha difficoltà ad affermarsi sul piano esteriore attraverso quel carattere che lo distingue, il Logos, la comunicazione in tutte le sue forme: la parola scritta, quella parlata, la gestualità, la mimica e la risata.

Il Soggetto Fievole rinuncia all’espressione del Logos che si muove tra il comico e lo sprezzante. La risata diventa impossibile, poiché, non collaudata nella reiterazione della quotidianità, si fa elemento desueto, straniero e pertanto oggetto di diffidenza e paura. È un’epoca decadente e depressa quella che sceglie di non lasciare ridere più, poiché si ride di tutto e di tutti e in tutti gli istanti. Allora si ride troppo. E, come sappiamo, l’eccesso di un’azione, la sua inflazione, ne causa automaticamente la su vanificazione.

L’aspetto più distorto di tutto ciò è il fatto che ad amputare la risata ci pensa lo stesso individuo autocensurandosi, ancor prima che l’autorità censoria, quella qualitativamente deputata in ogni gruppo socialmente strutturato, vi abbia provveduto con il proprio ignis purgatorius. Il Soggetto Fievole, censurato, censura l’Altro: l’amico, il collega, il figlio, il vignettista, etc., secondo un destino unico, che accomuna tutti i sorveglianti sorvegliati, rinunciatari alla risata pubblica. Il suo schema di gioco mira all’autogol, attraverso un’azione (una delle poche residue) autopunitiva, che lo silenzia, tranne ridestarsi sporadicamente per far emergere la condanna censoria del sempre uguale per non sbagliare. Sono lontani i tempi del presenzialismo statale ed oppressivo. Siamo allo stadio successivo: il popolo di Fievoli è rigorosamente educato e sa cosa debba fare per appartenervi. Vige ormai il fai da te. Le teste chine sugli schermi luminosi, intente a comporre purghe pontificatorie, compongono un corpo Unico, che dall’alto di un drone in volo appare quale un prato perfettamente tagliato, del tipo all’inglese (un prato tagliato sotto i 9/10 cm. viene ricondotto alla sua massima resa, consentendogli di allargarsi e addensarsi ulteriormente). Naturalmente l’autorità censoria vera e propria non è scomparsa, ma è solo invisibile e dormiente, salvo riemergere con rinnovata severità laddove un’agente patogeno – ad esempio una vignetta satirica – ne minacci la compattezza. Oggi scrivere di satira e disegnare vignette è un mestiere difficile, poiché difficile è far ridere la gente che vive sotto l’egida della Paura, stimolandone il pensiero, svelandolo a nuove prospettive. La risata è irruenta, fragorosa, sanguigna e soprattutto espressione individuale. La risata è un Effetto di cui l’individuo è la Causa. Censurarla significa alterare l’Uomo e la sua spontanea natura individuale. Essa nasce dal Soggetto Forte, che sa rischiare, che si mette in gioco, che sfida il prossimo con una battuta ben sferrata. La risata non risponde a geometriche logiche di giardino, ma si innalza incontenibile e ritta in mezzo ad un campo di fiori, come un bel girasole estivo che volge il suo meglio al sole.

Romina Barbarino

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