Da tempo l’uomo sente incombere su di sé la minaccia di una vita innaturale; i presagi di un futuro disumanizzato lo incalzano. Avverte confusamente la necessità di tornare a stili di vita più naturali, quasi come un far ritorno a casa, ma ancora non riesce a vedere una via. Di fatto, non sa neppure cosa sia realmente la natura. È solo una parola logora e abusata, sulla quale si addensano luoghi comuni, astrazioni, fantasie.
Per altro, più che un significato, ‘natura’ sembra oggi evocare un valore positivo. Basta dichiarare le virtù naturali di un prodotto per evocare magiche associazioni con la purezza, la salute o la bontà. Solo qualche anacronistico asceta potrebbe vedere ancora nella natura un nemico, un ostacolo a realtà sovrannaturali. Nell’immaginario comune la natura pare contenere una promessa salvifica, essere antidoto a un eccesso di tecnologismi e artifici.
Per alcuni il ritorno alla natura sembra implicare una rinuncia alla tecnica, alla cultura o alla spiritualità; o che l’uomo debba comportarsi come un bruto invece che da essere civilizzato.
Chiaramente inadeguate sono anche quelle metafore che fanno della Natura una madre premurosa o una matrigna spietata. In questi rigidi giorni d’inverno, Madre Natura mi lascerebbe morire di freddo o di fame se non potessi godere di quelle comodità – abiti, casa riscaldata, scorte di cibo – che dipendono da un’organizzazione sociale. D’altro canto, è la Natura che offre alla società le risorse di cui abbisogna per il suo sostentamento. La natura ci appare allora come un potere che insieme crea, conserva e distrugge. Cambiando di prospettiva, la natura può dunque apparire come una Provvidenza che si cura di ogni essere, dando a ognuno la possibilità di vivere e crescere, o come una Legge indifferente al dolore e alla morte.
È assurdo conferire alla natura caratteri umani, da mammifero o da vegetale. V’è in lei qualcosa che sempre trascende il dato naturale. L’errore sta nel riferirsi alla natura come a un complesso di fatti esterni e oggettivi: l’ambiente, le leggi biologiche, fisiche ecc. Questa natura esteriorizzata, con la quale possiamo stabilire secondo le nostre inclinazioni una relazione di amore o di ostilità, è un’entità puramente immaginaria. Di solito è il surrogato di un’idea di Dio altrettanto fantasiosa. In fondo, la Natura è solo un idolo e un mito del nostro tempo.
Per farci un’idea più realistica della natura dobbiamo a mio parere rifarci all’ideogramma cinese Te, convenzionalmente tradotto con Virtù. Non si tratta di una qualità morale ma di una forza, come quando parliamo di «virtù curativa» di una pianta, o quando definiamo ‘virtuoso’ un musicista di grande maestria. Non è quindi un’entità ma un processo. Lo stesso suono – te – diviene suffisso di parole europee che indicano l’attuarsi di una qualità. Prendete ‘umanità’ e traducetela in varie lingue: humanitas, ανθρωπότητα, humanity, humanité, humanidad, umanitate. Quella desinenza finale: tà, tas, ty, te, dad ecc. rappresenta l’azione della natura. In bon-tà è ciò che fa essere buono qualcosa, in veri-tà è ciò che lo rende vero e così via. È la forza che porta un’idea astratta, potenziale, a incarnarsi nella realtà concreta. Questa Virtù fa di ogni essere ciò che è; nell’universo regge le orbite dei pianeti, nell’orto fa crescere le rape, in noi è la nostra umani-tà, il nostro daimon e il nostro destino.
La natura umana non è univoca ma accoglie una pluralità di nature. Tutte le ‘tà’ che troviamo intrecciate in una persona, spesso in coppie di opposti complementari – animalità/spiritualità, socialità/individualità, intellettualità/emotività, singolarità/universalità, transitorietà/eternità e così via – confluiscono sinteticamente nella sua identità o ipseità. Questa variegata compresenza di forze genera inevitabili conflitti. Le nostre ‘tà’ interagiscono come linee di contrappunti in cui consonanze e dissonanze si alternano, senza poter raggiungere un accordo perfetto.
Ogni natura tende infatti alla piena espressione di sé e per farlo deve lottare contro ostacoli interni ed esterni, ossia contro altre nature. Senza queste prove e iniziazioni resterebbe in un limbo di potenzialità inespresse. Un bambino, per esempio dovrà contrastare la forza di gravità imparando a camminare eretto, sviluppando i propri muscoli e il senso dell’equilibrio. Questo contraddice la sua comodi-tà ma stimola la sua liber-tà. Da questi intimi dissidi dipende che molte delle nostre qualità potenziali si atrofizzino, o vengano eliminate dalla competizione con altre.
Questo processo di auto-manifestazione si esplica su livelli diversi e comunicanti tra loro. Dapprima c’è una natura atomica, un’idea semplice. Varie idee semplici si aggregano e creano una natura più complessa, ovvero co-implicante molteplici nature. Queste nature complesse possono unirsi tra loro e formare un insieme coerente, ovvero un organismo naturale. Tutte le entità naturali così create formano a loro volta una natura universale che rappresenta il Tutto, che le contiene e le coordina. È quindi evidente che l’umani-tà, ossia la natura umana, non è un’entità autonoma e autosufficiente. Per esistere dipende da una rete di interdipendenze con ogni altra natura creata.
Ogni natura si manifesta secondo uno schema triplice: il poter essere, un essere e un essere stato. Ovvero un poter fare, un fare e un fatto. Si crea così una relazione dinamica tra ciò che è e non è, tra futuro e passato, e tale tensione genera il tempo. La nostra natura è una possibilità che crea eternamente sé stessa; va dal seme alla pianta, al frutto e di nuovo al seme, in moti circolari. Natura è ciò che si rivela nella paziente attesa, e che non si può forzare senza tradirne l’essenza.
È come un artista che lavora senza fine al perfezionamento di sé, senza mai raggiungere una meta, restando eternamente immaturo, conservando la virtù intatta del principiante. Questo non perché la Natura sia in sé imperfetta e abbia bisogno di correzioni. È solo che vuol manifestarsi in forme sempre nuove, di più matura coerenza e bellezza. La perfezione è latente nella potenzialità della Natura, ma sul piano delle realizzazioni concrete resta sempre un orizzonte irraggiungibile, un abisso incolmabile. Tipico dell’arte è proprio questo tendere all’assoluto attraverso un’eterna incompiutezza. Esprimere la propria natura è un po’ come spremere da un frutto un succo infinito
Una splendida frase di Burke – «l’arte è la natura dell’uomo» – abolisce ogni contraddizione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale. L’artefatto, la macchina, lo strumento musicale, l’utensile, sono un riflesso della natura umana. Perché dunque sentiamo nel progresso tecnologico una minaccia per la nostra natura? Forse perché tale crescita appare inarrestabile, e nel suo sviluppo si mostra non solo sempre più indipendente dai nostri reali bisogni ma anche causa di nuovi problemi. Allora, il male non è nella natura della tecnologia ma nell’arroganza di chi non sa porsi un limite. Questo riporta il problema nel classico ambito della hybris e delle sue conseguenze. Se, come dice Pitagora, “misura è ciò che non nuoce”, è salutare intuire la giusta ratio, ossia capire quando è il momento di fermarsi.
Il senso della misura è però privilegio dell’arte e dell’intuizione, prima che della razionalità. È quella sensibilità misteriosa che coglie la necessaria dose delle cose, si tratti di un pittore che mescola i colori, di un musicista che esplora nuove modulazioni o di un cuoco che deve dosare il sale. Il ragionamento tende invece a perdersi in astrazioni e congetture. Immagina possibile un infinito progresso tecnologico, un aumento illimitato di denaro, di potere o di sapere, un’evoluzione indefinita dell’uomo verso forme di vita superiori e, incapace di porsi limiti, si allontana sempre più dalla reale natura delle cose.
L’arte è funzione demonica e il ritorno alla natura è quindi un ritorno a sé stessi, alla nostra coscienza demonica. I nostri sensi, i nostri sentimenti, le nostre ispirazioni intellettuali e spirituali, sono energie demoniche. La ragione ordina e classifica ma la creatività ha oscure radici mistiche e poetiche. Se vediamo il demonico esprimersi con maggior forza nei bambini è perché la nostra educazione contiene forze profondamente anti-demoniche, dispositivi di sicurezza sociale che tendono a indebolire e inibire la natura mistica dell’individuo. Le pulsioni creative restano vive solo nei pochi che sanno conservare lo stupore, la naturalezza e l’anticonformismo dell’infanzia.
Per converso, il culto della razionalità e l’intimità con le macchine rapidamente meccanicizza l’uomo. Gli schemi logici e mnemonici cui si affida la ragione possono infatti venir surrogati da una macchina. Un calcolatore elettronico può sconfiggere il campione del mondo di scacchi, in una sfida in cui si tratti solo di ricordare ed elaborare. Ma nessuna macchina può comporre un Quartetto di Beethoven, scrivere “Il Paradiso perduto” di Milton o scoprire da sé le equazioni di Maxwell. Né tanto meno può amare o sorridere di una battuta di spirito. Questo accade perché ogni meccanismo razionale, per quanto complesso, rimane freddo e sterile, se si allontana dal calore demonico dell’esperienza.
Non bisogna credere che la natura razionale e la natura intuitiva siano facoltà separate e ostili l’un l’altra. L’arte per esprimersi ha bisogno di tecnica e di automatismi consolidati. La natura stessa poggia la sua creatività su modelli logici e ripetitivi. Così, ogni individuo e ogni società combinano, nelle loro attività e nelle loro interpretazioni del mondo, il meccanico e il demonico. Non troviamo mai una delle due tendenze espressa in forma pura e antitetica all’altra. Vi sono solo mescolanze diverse, e anche quando una prevale sull’altra non la annulla mai completamente.
È tuttavia innegabile che la nostra civiltà celebri il trionfo del meccanicismo sull’intuizione, della rigidità dei fatti e dei concetti sulla libertà dei valori e delle idee. Il nostro tempo accusa così un progressivo e rapido atrofizzarsi dell’elemento poetico. Privilegia un inquadramento logico e sistematico delle esperienze, un apprendimento tecnico a discapito della visione intuitiva della realtà. Ha smarrito quella saggezza demonica che dà conto dell’immensità del reale e della sua inaccessibilità alla riflessione intellettuale. Ha ridotto la natura a una serie di fatti incatenati tra loro da leggi meccaniche. In questa prospettiva acquistano importanza preponderante le concezioni scientifiche e la loro utilità pratica. La vita, nella sua enormità ineffabile, si contrae nella banalità di dati oggettivi. L’uomo perde quel senso profondo e misterioso della propria soggettività che non è riconducibile ad alcun elemento noto ma è un eterno e inconoscibile poter essere. L’Essere è ridotto a ‘stato’ e a ‘dato’, oggetto d’analisi scientifiche.
La nostra civiltà ha sacrificato sull’altare della scienza il sentimento del destino e dell’eterno. Ha cristallizzato il flusso vivo della natura nei meccanismi di un orologio. Si è allontanata sempre più dalla vibrante natura poetica per calarsi nell’immobilità cadaverica del conosciuto. Anche il lavoro dell’uomo non è più opus, espressione di una natura che si purifica e perfeziona, ma mero travaglio, necessità di produrre fatti utili. Eppure, in tutto questo, nella sua apparente innaturalità, si manifesta un avvicendarsi ciclico e naturale. La nostra civiltà rappresenta lo stadio della decrepitezza, l’agonia. E io che ne parlo cos’altro potrei essere se non “un morente che predica ad altri morenti”?
Noi crediamo che la nostra società sia artefice di un progresso continuo. Scambiamo la sua crescente complessità per un’evoluzione. In realtà, ogni vero artista tende col tempo alla semplicità, all’economia dei mezzi che usa. In lui la profondità del reale si esprime con la massima parsimonia di segni. Tende così a esprimere quell’idea di assoluta spontaneità che è la radice di ogni nostra natura. La nostra civiltà è dunque un cattivo artista. Vi è in essa un proliferare incontrollato di segni, una ridondanza di messaggi, un accumulo di dati superflui. È un’immensa discarica dove si ammassano montagne sempre più alte di concetti, di fatti e dati, come ossa rinsecchite e continuamente rimasticate. Incapaci di essere creativi e saggi, non sappiamo esprimere la nostra natura reale con ricchezza e semplicità.
Tuttavia il futuro non sarà, come i più credono, un viluppo sempre più intricato di congegni tecnologici e di meccanismi sociali disumanizzanti. Sarà al contrario la concezione poetica del mondo a prevalere. Si riaffermeranno i valori della verità e della bellezza, a scapito degli elementi più fattuali e utilitaristici. Sarà una nuova primavera dell’anima, ogni gesto rivelerà un senso spirituale. La natura demonica dell’uomo tornerà a respirare liberamente attraverso l’arte, la musica, la poesia, ma anche nei manufatti artigianali, nelle case, nei vestiti. Le catene della massificazione, delle abitudini seriali e impersonali, delle iperattività commerciali, delle imprese multinazionali, saranno spezzate.
Si fuggirà dalle grandi città, questi aberranti agglomerati di bruttezze, dove tutto può essere gigantesco senza cessare d’essere angusto, dove anche il tempo è compresso, soffocato da inflessibili cronometri, ingabbiato in orari artificiali. La globalizzazione, la velocità, i mezzi di comunicazione, hanno ristretto il mondo, lo hanno reso uno spazio sempre più limitato e chiuso. E se potessimo raggiungere velocemente anche le stelle più lontane, conoscere ogni angolo dell’universo, questo lo renderebbe solo un luogo disperatamente claustrofobico, in cui è penoso vivere.
La modernità è un dedalo chiuso e soffocante, dove tutto è vicino. Perciò l’uomo ha bisogno di sentire ancora la lontananza e la vastità della natura. Per questo sente il richiamo della campagna, del mare e dei monti, dove può recuperare la naturale percezione dello spazio e del tempo. Lo ristora provare un antico sentimento di ampiezza e libertà dell’anima, forse anche di incertezza. Cerca quei luoghi dove il mondo si apre, e vibra sconfinato, inesplorato, il mistero della natura. In quel mistero ama rispecchiarsi, libero dai lacci del conosciuto e delle sicurezze razionali. Lì dove nulla è prodotto ma tutto è divinamente creato.
Quando il demonico riprenderà i suoi naturali diritti, la fredda analisi razionale si unirà alla calda realtà sensoriale e ideale. Il ragionamento astratto confluirà in un sapere organico, che fonde il piano della rappresentazione intellettuale con quello della consapevolezza corporea e sentimentale. Il sapere diverrà inseparabile dall’esperienza concreta. Sparirà questo grigio apparato che alleva anime notarili, che premia l’erudizione professorale, la conoscenza inorganica, l’autopsia delle idee, l’igienica risciacquatura dei concetti; che mette regole a tutto, soffocando la Vita, che è regola a sé stessa.
Perciò la nostra società teme l’irruzione del demonico. È la tigre nascosta nella boscaglia che all’improvviso può balzare su di noi e ghermirci; col suo corpo potente e flessuoso, con le sue zanne, distruggere le fragili gabbie dell’utile e del ragionevole nelle quali ci sentiamo protetti. Il demonico non si sfama con la sobria e oggettiva coscienza dei fatti ma con la trascendenza di un eterno oltre. È il genio che ci trascina nei deserti del nulla o in freddi vuoti siderali. È l’amore che abbaglia e brucia. È l’inaspettato, la crisi, la nudità della nostra natura.
Se lo combatteremo ancora, il demonico assumerà le sue forme distruttive e feroci. Se lo ascolteremo diventerà la nostra guida fidata. Ci condurrà verso una nuova mistica della realtà. Lo spirito riprenderà a soffiare in modo incomprensibile, e l’uomo in modo incomprensibile ne comprenderà il messaggio. Passata la notte di questa moribonda civiltà tecnico-scientifica, si diffonderà la luce aurorale della natura e dell’arte. L’uomo ritroverà la sua libertà nel poter essere quello che deve essere, nel poter fare quello che deve fare, e le cose riprenderanno la giusta misura. Ci disseteremo ancora ad acque sorgive, torneremo alla fresca giovinezza della natura, e un nuovo ciclo comincerà. Non saranno scienziati a indicarci la strada di casa ma mistici e poeti. Sarà un lungo viaggio di ritorno, sul dorso di una tigre.