L’idea della morte è stata allontanata dalle nostre vite. L’uomo contemporaneo, produttore-consumatore, ha ben altro a cui pensare e a cui dedicarsi, quello della morte è pensiero ozioso, improduttivo. Ad esso può dedicarsi, al massimo, qualche «residuale» filosofo, incapace di comprendere il clima spirituale del tempo presente.
Dal volume si evince l’esistenza di due diverse medicine: la medicina epidaurica, che nell’antichità era riservata agli ierofanti, e la medicina empirica: «di limitata competenza del volgo» (p. 8). La prima è da ritenersi scienza in senso proprio, la seconda mera opinione. Tanto Catalano, quanto Kremmerz ritengono necessario tornare alla pratica della medicina epidaurica. I due, in particolare, sostengono che il dolore prodotto dalla malattia, deve essere, innanzitutto, considerato come una possibilità, atta: «ad una trasmutazione verso l’Alto, […] possibilità di risveglio interiore» (p. 11). Ovviamente, ciò può accadere a quanti si pongano, come ricorda Valentini nello scritto introduttivo, lungo la via di una effettiva realizzazione. Per gli altri, al contrario, l’incontro del dolore ha tratto negativo: conduce o all’affidamento ad un dio inteso in termini fideistici, o ad un depotenziamento delle componenti animiche e vitali. Medico epidaurico o ermetico è colui che fa del dolore un solvente capace di illuminare la sua interiorità, affinché essa possa essere spesa a vantaggio dei sofferenti, nella messa in atto di un riequilibrio delle loro componenti psichiche e corporee. Ad essi il terapeuta si sente legato, non nei termini di un riduttivo e moralistico «amore del prossimo», ma per la simpatia universale che discende, come ben specifica nel proprio saggio il Catalano, dal Principio primo del cosmo.
L’Amore simpatetico offre all’operatore la: «capacità alchimica di liquefare le componenti saturnine che lo separano dal tesoro» (p.13), affinché possa: «arricchirsi della massima energia della fonte del principio-vita universale, fino a poterne disporre e nutrirsene e nutrire gli organismi che ne difettano» (p. 13). Questa esperienza è retaggio di una predisposizione naturale, atavica: essa ci pone innanzi, rileva Kremmerz, a ciò che l’ermetismo definisce il Solvente Universale, alla dissoluzione della corporeità. Ecco, allora, che la coscienza: «deve maturare un potere di centralità, di presenza» (p. 15). Esso si mostra sostanzialmente nella capacità di trasformare il veleno-dolore in farmaco riequilibratore. I terapeuti epidaurici, secondo Kremmerz, concedono: «agli infermi una forza interiore […] che il medico profano non può dare; noi possiamo dare alla vita indebolita […] un principio vitale che tutti quanti noi […] possediamo» (p. 16). Anziché la trasfusione di sangue, di elementi materiali: «una trasfusione di fluido della vita animale e psichica» (p. 16).
Tali pratiche mediche sono afferenti alle potestates del dio greco Asclepio e della dea romana Minerva. Asclepio, affidato da Apollo a Chirone, dopo che il dio della Luce aveva ucciso sua madre, l’amatissima ma fedifraga Coronide, apprese dal Centauro i segreti dei medicamenti. Fu ucciso da Zeus, in quanto Ade aveva compreso che la sua azione terapeutica sovvertiva le leggi di natura. Dopo la morte, a lui fu attribuita la costellazione detta del Serpentario. Il suo bastone, il caduceo, simbolizza il suo intersecarsi con il potere di Hermes: «essendo il messaggero degli Dei principio cangiante che trasmuta la Forza […] che il Dio Guaritore attuerà e manifesterà come potere d’Amore e terapeutico» (p. 19). Tale potere di guarigione, in alchimia corrisponde alla «fissazione del volatile», che dona al malato la Salus. Nella verga di Asclepio, simbolo del suo ambito d’azione, compare la serpe retta, personificazione del potere terapeutico: essa si attua per ispirazione di Minerva, potenza dell’Intelletto. La salute ritrovata è armonia micro e macrocosmica, è riacquisizione, da parte del paziente, della dimensione del vigore e della forza, da intendersi in senso spirituale prima che fisico. Dell’Amore terapeutico può essere latore soltanto un Io che si sia realmente lasciato alle spalle la dimensione egotica, la brama e il desiderio e che abbia compreso le verità dell’Uno-Tutto. Per questo: «il fondamento di tale pratica ermetica è la fraternità […] riscoperta della Forza Uranica che pervade il Tutto e su cui il Mago aristocraticamente domina» (p. 27).
Quel che, a chi scrive, interessa davvero della medicina ermetica, la quale ha avuto anche altre declinazioni oltre quella kremmerziana, è proprio il riferimento ad un Io attivo anche nella malattia, il cui iter è un cammino di autoliberazione dalla dimensione puramente biologica, cosale. Quest’ultima, per la maggior parte degli uomini del nostro tempo, risulta esclusiva ed invalicabile. Hans Jonas, con la sua filosofia della biologia, ha mostrato, al contrario, che persino nell’atto del nutrirci, e nei successivi processi metabolici, incontriamo la Libertà. E’ nel suo regno che dobbiamo insediare le nostre vite.
Giovanni Sessa
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