Ricominciamo le nostre ricerche sull’eredità ancestrale alla fine di novembre 2020, anche se a questo punto è assai arduo fare previsioni sul momento in cui esso arriverà sulle pagine di “Ereticamente”, di sicuro nel corso dell’anno nuovo.
Iniziamo questa volta con due notizie tratte da “The Archaeology News Network” del 21 e del 22 novembre, la prima riguarda l’Italia, anche se non ci spingiamo a un’antichità molto antica. In Sardegna, nel corso della campagna di scavi 2020 condotta dai ricercatori dell’Università di Sassari nell’area archeologica di Santa Barbara De Turre, è stata individuata una necropoli di età tardo-antica/alto medioevale. Anche l’archeologia italiana, che sembrerebbe conosciutissima, non cessa di rivelarci sorprese.
L’altra notizia riguarda la Germania, precisamente l’area archeologica di Heuneburg vicina ai confini con l’Austria e la Svizzera. Qui si trovano i resti di un grande insediamento, una “città” celtica. Se ricordate, ne avevamo parlato tempo addietro, nei pressi di essa è stata ritrovata la sepoltura di una donna di rango, a giudicare dal ricco corredo funebre con cui è stata sepolta, che è stata subito battezzata “La principessa celtica”. Bene, constatata l’impossibilità di procedere a uno scavo convenzionale senza compromettere lo stato di conservazione dei reperti, in particolare le pareti lignee della “tomba a camera”, si è deciso di procedere con una tecnica innovativa, rimuovendo l’intero blocco di terreno in cui la tomba è conservata, un blocco della bellezza di 80 tonnellate.
Incrociamo le dita e speriamo che questa metodologia non risulti più invasiva di uno scavo convenzionale.
Proseguiamo con una notizia del 26 novembre. In questa data, su “Ancient Origins” un articolo di Ashley Cowie riferisce che “Il ghiaccio norvegese che si scioglie lascia scoperti terreni disseminati di antiche frecce”. In particolare, si parla del ghiacciaio norvegese di Langfanne, il cui scioglimento già nel 2014 e nel 2016 avrebbe portato alla luce ossa, corna di renne, conchiglie, punte di ferro e punte di freccia. Ora, il ritiro del ghiaccio avrebbe lasciato scoperto un campionario di 68 frecce e cinque punte (non ci dobbiamo stupire perché le temperature gelide hanno permesso la conservazione anche delle aste lignee).
Queste frecce debbono essere state usate per la caccia alla renna, visto che si è trovata una gran quantità di ossa di renna insieme a esse.
Questi reperti non appartengono tutti alla stessa epoca, ma coprono un arco di tempo che va dal neolitico all’età vichinga, a testimonianza di quanto sia antica e sia stata continuativa la presenza umana a queste latitudini.
Il giorno 27 un comunicato di Felice Vinci ci informa della pubblicazione del suo secondo libro, Il mistero della civiltà megalitica, pubblicato dalla LEG edizioni nella collana La clessidra di Clio.
Felice Vinci è noto per la tesi interessante e controversa presentata nel suo primo libro, Omero nel Baltico, secondo la quale le vicende raccontate nei poemi omerici sarebbero l’eco di fatti avvenuti nel lontano Nord di cui gli Achei erano originari, anche se poi sarebbero state “riambientate” nel Mediterraneo.
Tuttavia Stonehenge e il Wessex sarebbero potuti essere una tappa della migrazione degli Achei verso sud, verso la Penisola ellenica dove sarebbero diventati i Micenei.
Tuttavia, il testo di Vinci, che reca come sottotitolo Storie della preistoria del mondo, presenta anche molto altro, esattamente come in Omero nel Baltico, considera le fonti mitologiche come quelle archeologiche, e ci pone davanti a enigmi come il nome segreto di Roma, il perché la Città Eterna sia stata fondata su sette colli come Gerusalemme e La Mecca, come mai il simbolo dell’aquila che lotta col serpente si ritrova identico fra i Fenici e nell’antico Messico, qual’è il vero significato del mito della Fenice, dove si trovano realmente le Colonne d’Ercole, e molto altro ancora.
Come sapete, una cosa a cui tengo molto, è tenere un dialogo costante con voi lettori, e spesso i vostri contributi sono stati importanti per lo sviluppo di questa rubrica. Il 30 novembre, un lettore, R. M., in risposta alla trentottesima parte, dove ho riportato uno stralcio del libro di Gianfranco Drioli Iperborea, la ricerca senza fine delle patria perduta, dove l’autore fa notare che, contrariamente a quanto affermano gli antropologi ufficiali che la considerano una lingua totalmente isolata, la lingua degli Ainu, la popolazione “bianca”, europide che un tempo popolava il Giappone (periodo Jomon) e oggi è ridotta alla sola isola settentrionale di Hokaido presenta affinità con l’indoeuropeo, mi ha fatto pervenire il seguente commento:
“Nel Ramo d’oro, quando viene descritta la venerazione e cannibalizzazione dell’orso (animale totemico per gli Ainu), mi aveva sempre lasciato perplesso quel tipo di rito, attuato da una popolazione nipponica… effettivamente, alla luce di certi discorsi (ainu come ceppo europeo e quindi con ancestrali legami Neanderthal), sia l’orso come totem animista, sia la sua “gestione” e ruolo, sia la caccia rituale, ricordano molto le modalità neolitiche europee”.
Certamente gli Ainu sono una popolazione che possiamo definire caucasica e paleo-europide, testimonianza residua di una presenza “bianca” nell’area asiatica orientale di gran lunga più estesa rispetto a oggi, non stupisce che presentino affinità linguistiche e culturali con gli Indoeuropei. L’idea che ciò possa risalire all’uomo di Neanderthal che praticava analogamente il culto dell’orso e ha lasciato nel DNA delle popolazioni europidi una traccia pari al 3/4% del patrimonio genetico, è suggestiva ma non può essere provata, è probabile che la presenza nell’ambiente del grande plantigrado abbia indotto comportamenti magico-rituali simili.
“L’arazzo del tempo” del 30 novembre riporta una notizia singolare: un gruppo di turisti russi nella regione degli Urali avrebbe individuato nella zona di Yugra una “strana” cresta rocciosa, troppo regolare per non essere un manufatto prodotto dall’uomo, una piramide che, come hanno oltre tutto confermato le foto satellitari, ha i quattro vertici della base perfettamente orientati in direzione dei punti cardinali.
Per il momento non se ne sa molto, ma quello che è certo, è che la Russia è uno scrigno di testimonianze del nostro remoto passato che sono state deliberatamente ignorate durante l’epoca sovietica, e da lì potrebbero venire in futuro le maggiori sorprese archeologiche.
Sempre il 30 novembre su “Ancient Origins” Aleksa Vuckovic ci porta a visitare le grotte di Wemyss. Si tratta di un complesso di caverne scozzesi che si trovano sulla costa meridionale del Fife che sbocca direttamente sul Firth of Forth. Il nome stesso deriverebbe dal gaelico Uaimheis che significa letteralmente “luogo delle caverne”.
Suppongo abbiate tutti sentito parlare dei Pitti, questa popolazione di antichi scozzesi, differenti per lingua e per costumi dalle popolazioni vicine, temutissimi guerrieri che misero più di una volta in difficoltà i Romani, che eressero il Vallo di Adriano per difendersi dalle loro incursioni. Tuttavia, a parte questo, quello che sappiamo dei Pitti è veramente poco, restano sostanzialmente un mistero.
Bene, proprio le caverne di Wemyss potrebbero darci almeno in parte la soluzione, le loro pareti sono infatti ricche di graffiti e di pitture di età pittica, erano con ogni probabilità un luogo cerimoniale dei Pitti, ma non è solo questo, perché nei secoli queste grotte hanno ospitato eremiti, laird, rifugiati. In una di esse, ancora oggi nota come Grotta della Corte, teneva appunto corte un laird giacobita in barba agli occupanti inglesi. Altre sono state usate come chiese ipogee e luoghi di sepoltura, hanno insomma una storia ricchissima e poco nota che solo adesso si comincia a ricostruire.
Come vi ho detto più volte, noi eviteremo di seguire l’attività dei gruppi facebook a meno che in essi non compaia qualche cosa realmente di interesse, e stavolta pare che sia veramente il caso, infatti, in questo intensissimo 30 novembre il professor Leonardo Melis, il noto studioso dei Popoli del Mare ha postato nel gruppo “Il pianeta delle scimmie: archeologia, storia ed enigmi irrisolti” un articolo che ci parla del ritrovamento di North Ferriby nello Yorkshire. Dai fondali antistanti questa località inglese sono emersi nel 1937 i relitti di ben tre navi, che data la forma lunga e stretta simile a quella dei drakkar e la prua rialzata, furono identificate come navi vichinghe, ma le successive analisi condotte con il radiocarbonio hanno rivelato un’età sbalorditiva di questi reperti: dal 1350 al 1600 avanti Cristo.
Melis pensa si trattasse di navi dei Popoli del Mare, il che è quasi ovvio data la sua specializzazione, ma si tratta di un’identificazione sulla quale è lecito nutrire dubbi, innanzi tutto, perché non abbiamo tracce dei Popoli del Mare al di fuori del Mediterraneo, e perché ci appare ormai chiaro che in epoca preistorica le acque intorno alle Isole Britanniche erano molto più trafficate di quanto avremmo pensato in un recente passato. Ricorderete che alcuni articoli fa vi ho raccontato che qualcuno identificherebbe con l’Irlanda nientemeno che l’Atlantide platonica. Ci sarebbero poi i superstiti di Doggerland, e i Beakers, gli uomini della cultura del Bicchiere Campaniforme, che avrebbero raggiunto le Isole Britanniche provenienti dalla Penisola iberica, insomma un bel viavai. Per il momento mi pare che l’unica cosa sensata che si possa dire, è che conosciamo la storia remota del nostro continente molto meno rispetto a quanto ci sarebbe da conoscere.
E veniamo finalmente all’ultimo mese di questo 2020 straordinariamente ricco di novità sulle nostre lontane origini. Un articolo di Alicia McDermott del 1 dicembre su “Ancient Origins” ci parla nuovamente di Doggerland. Come abbiamo visto altre volte, durante l’età glaciale, nel tratto di mare poco profondo tra l’Europa continentale e la Gran Bretagna, esisteva una notevole estensione di terra emersa e verosimilmente abitata che gli archeologi hanno chiamato Doggerland. Essa sarebbe sparita sotto le acque sia in seguito all’innalzamento del livello del mare dovuto alla deglaciazione, sia in seguito allo tsunami causato 8.150 anni fa da una gigantesca frana o una serie di frane sottomarine noto come frana di Storegga. Ora, ci informa la McDermott, sembra che, in base alle ultime ricerche geologiche fatte, la cosa sembra essere stata più complicata. Parte di Doggerland sembra essere sopravvissuta a questo terrificante cataclisma, le cime più alte che avrebbero formato quello che è stato chiamato Arcipelago di Dogger, fino a quando 7.000 anni fa, l’innalzamento del livello del mare avrebbe portato alla sua totale sommersione. Gli abitanti di questo arcipelago, i superstiti di Doggerland, si ipotizza, costretti a trasferirsi sul continente o sull’Isola britannica man mano che la loro terra spariva sotto le onde, potrebbero aver avuto un ruolo chiave nella diffusione dell’agricoltura in Europa.
Sempre il 1 dicembre su “Ancient Origins”, E Whelan ci porta a visitare Runriket, il “regno delle rune” dell’età vichinga, si tratta di un’area archeologica della Svezia che si trova nel distretto lacustre di Vallentuna, e contiene più di cento pietre megalitiche finemente istoriate di rune vichinghe risalenti ai secoli VIII e IX dopo Cristo. La maggior parte di esse è stata commissionata da un sovrano locale di nome Jarlbanke, e racconta la storia della sua famiglia, fatta di continue lotte per mantenere il potere nella zona, quasi una versione nordica de I Medici.
Vi ho parlato poco fa delle incisioni che coprirebbero i sarsen di Stonehenge, oggi erose e rese invisibili dal logorio subito dalla pietra con il trascorrere del tempo, esse possono tornare visibili se fotografate con luce radente, che sfrutta l’ombra proiettata dalle piccole irregolarità della superficie. La stessa tecnica, ci racconta Ashley Cowie in un articolo, sempre su “Ancient Origins” del 2 dicembre, è stata impiegata per rendere nuovamente visibili le incisioni rupestri che si trovano sulle pareti delle tombe a kurgan nella valle di Pazyryk nell’Altai. Un lavoro complesso e minuzioso che ha richiesto una trentina d’anni per essere portato a termine. Si tratta di sepolture scitiche che risalgono all’Età del Ferro.
Quella che è riemersa è una vivace testimonianza della vita di questi antichi nomadi: abitazioni simili alle yurte tuttora usate dai Mongoli, scene di caccia con archi e frecce, animali che dovevano essere le prede, armi, scene belliche, l’immagine di una società di cacciatori e di guerrieri. Il paragone che balza agli occhi, è quello con le incisioni rupestri della Val Camonica.
Vorrei concludere anche stavolta con un paio di considerazioni che non sono del tutto nuove, vi ho già esposto altre volte, ma sono concetti che è bene tenere sempre presenti: dell’Italia ho parlato poco, perché poche novità sono emerse in questo periodo: il ritrovamento della necropoli di Santa Barbara di Turre in Sardegna (e la Sardegna sembra oggi essere il terreno più foriero di nuove informazioni riguardanti il nostro remoto passato, e non principalmente riguardo alla tarda antichità come in questo caso, ma l’epoca nuragica e pre-nuragica), e poi il nuovo libro di Felice Vinci, che anche se si occupa prevalentemente delle terre del nord, è pur sempre un nostro connazionale, del cui acume e dell’innovatività nell’affrontare le questioni relative al nostro passato più remoto, possiamo andare fieri.
Io nutro comunque il sospetto che la scarsezza di informazioni recenti circa il passato della nostra Penisola non dipenda dal fatto che essa sia uno scrigno di tesori archeologici meno importante di altre parti d’Europa, soprattutto le Isole Britanniche e il nord scandinavo, ma dal fatto che da noi c’è un interesse per la nostra storia remota decisamente minore, quindi le ricerche a questo riguardo non sono adeguatamente incentivate.
L’altro punto che vorrei tornare a evidenziarvi, è questo: come avete visto, a parte la menzione del libro di Vinci e la risposta data alla questione sollevata da un lettore circa lo stralcio che ho citato del libro di Drioli, anche stavolta mi sono avvalso prevalentemente di fonti “ufficiali” come “The Archaeology News Network” e “Ancient Origins”, ma questo non vuole dire che il significato di questo lavoro sia anodino e compilativo, poiché quello che mi preme, quello che ho cercato di fare anche stavolta, è mettere in luce la grandezza e l’antichità della civiltà europea, il che non è disgiunto da un significato anche politico, soprattutto oggi che questa grandezza e questa antichità si tendono a negare con un’opera orwelliana di falsificazione.
NOTA: Nell’illustrazione, la copertina de Il mistero della civiltà megalitica, il nuovo libro di Felice Vinci.
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