7 Ottobre 2024
Appunti di Storia Controstoria

Torino, 25 aprile: mamma vado forse a morire (seconda parte) – Giacinto Reale

“Vado forse a morire. Non piangere, ma sii orgogliosa di tuo figlio. Viva il fascismo, viva l’Italia. Tuo figlio. 25 notte”.

La sera del 25 aprile Cesare Odone, operaio alla ditta Giachero, mutilato di guerra e fascista, si reca, accompagnato da due colleghi di lavoro, a casa di Giovanni Galbiati, comunista, membro della Commissione interna dello stabilimento, per cercare di ottenere, con un colloquio a quattr’occhi, un allentamento del clima persecutorio che contro di lui si è creato sul lavoro, con vessazioni e aggressioni continue.

È disarmato e animato dalle migliori intenzioni. Non si è fatto accompagnare, infatti da qualcuno di quegli squadristi che già sono temuti dagli avversari, e che possono” risolvere” per le spicce la questione, ma da due elementi “neutri” che, però, conoscono i fatti e, in nome del comune rapporto di lavoro, possono anche mettere una buona parola.

Uno di essi, infatti, chiama il Galbiati e lo invita a scendere. Questi, però, quando vede Odone, probabilmente temendo un agguato, non esita. Apre il fuoco e lo fulmina con due colpi, senza dire nemmeno una parola.

Gli accompagnatori fuggono, e forse sono proprio loro ad avvisare i camerati del morto, così che scatta subito l’allarme:

Sono passate da poco le ventuno. Eugenio Racca, della “Disperata” è al caffè Ambrosio, che è uno dei locali – con l’Alfieri e il Ligure – dove gli squadristi convengono.

Arrivano fascisti angosciati e annunciano che Cesare Odone, mutilato di guerra e fascista, è stato ammazzato come un cane, a Corso Principe Oddone, sull’angolo di via Santa Chiara

Bisogna avvertire il Comandante delle squadre, cercarlo nella sua casa di Corso Cairoli o alla caserma dei Bersaglieri. Rocca corre alla sede del Fascio e dà l’allarme. Due fascisti corrono a Corso Cairoli. Brandimarte è in casa.

Brandimarte agisce con quella prontezza trincerista che è un segno particolare dello squadrismo. Sa dove istantaneamente mobilitare tre o quattro decine di animosi. Manda qualcuno al caffè Ambrosio, al caffè Alfieri, al Ligure: sono i luoghi dove gli squadristi aspettano gli appelli…(1)

La risposta, nelle intenzioni fasciste, deve essere ferma e decisa, perché la sensazione diffusa è che si sia arrivati ad un punto di non ritorno, che sia cioè giunto il momento di infliggere un colpo mortale al sovversivismo cittadino, per affermare il proprio diritto ad esistere e agire sulla scena politica.

L’obiettivo non può che essere la Camera del Lavoro, vista come il centro propulsore di tutte le attività antinazionali e sovversive. La sede è in un palazzo di Corso Siccardi che ospita l’Associazione Generale Operaia, e che è stato trasformato in una vera fortezza, con uomini armati di guardia ventiquattr’ore su ventiquattro, e armi (qualcuno assicura di aver visto anche una mitragliatrice) in grande quantità.

Brandimarte decide di effettuare, prima dell’azione, un sopralluogo, per rendersi conto della situazione. in borghese e approfittando del buio.

Un’amara sorpresa lo attende. Il caffè, sito al piano terreno dell’edificio, è affollato anche di donne e fanciulli, che inevitabilmente sarebbero coinvolti in un attacco. Non resta che aspettare che sfollino.

Tornato al Fascio, mette perciò in libertà gli uomini (sono circa un centinaio) che vi si sono radunati, in attesa di ordini, e decide per un’azione di sorpresa, poco prima dell’alba, quando la vigilanza all’interno sarà allentata e le strade deserte.

Ciò che è singolare è che il Comandante delle squadre non si ritiene in dovere di informare dell’accaduto e della reazione che sta organizzando, né Gioda né Devecchi. Lo fa, quasi certamente, perché sa che da loro verrà imposto un freno (siamo in piena campagna elettorale, alla vigilia delle elezioni politiche) che lui per primo, e la base squadrista tutta non può accettare.

Quindi, va avanti “in autonomia”, e ordina a Cesare Revel e ad Eugenio Racca di pensare alle armi e alla benzina. Il primo, in particolare, sarà poi uno dei protagonisti principali dell’azione successiva, almeno nella versione di Devecchi:

Partiti senza un capo, lo trovarono durante l’assalto, o, quanto meno, lo elessero sul momento a causa della sua audacia. Si trattava del giovane Tenente di complemento di Artiglieria Cesarino Revel, già volontario di guerra.

Revel, piccolo di statura, era di una bellezza quasi femminea; aveva il viso appena velato da una leggera peluria, e le sue mosse erano scattanti e feline, come quelle di un animale da preda. Portava il monocolo, dal quale non si separava nemmeno, credo, quando dormiva. (2)

Nel suo destino ci sarà una tragica fine. A settembre del 1935, mentre sta preparando il bagaglio per l’Africa, dove è destinato a comandare la Prima Legione CC NN “Sabauda”, si ferirà a morte, lui che con le armi aveva dimestichezza ed era scampato tante volte all’appuntamento fatale in guerra e nelle azioni squadriste, con una vecchia pistola arrugginita che cerca di pulire.

Chissà, forse è proprio una di quelle che la notte del 25 si è affrettato a trovare, con una rapida ricerca, in vista dell’assalto, e che ha conservato come un cimelio, trascurandone la manutenzione. Ora, mentre gli sembra torni l’ora dell’azione, sia pure nella lontana Africa, desidera averla con sé.

È probabile perciò che, quella notte, anche tale pistola venga portata al Fascio, per essere distribuita, con le altre armi, agli uomini che parteciperanno all’azione, mentre le latte di liquido infiammabile sono nascoste sotto le panchine del Corso, antistanti la sede sindacale, dove infatti saranno trovate quando comincerà l’attacco.

Intorno alle tre, trentasei uomini (ché tanti ne sono rimasti) si avviano, divisi in gruppetti di sei-sette. Giunti a destinazione trovano il fortilizio avversario sbarrato per ogni dove, porte e finestre sprangate, preclusa ogni via di accesso, meno un muretto che chiude l’edificio sulla via Papacino, e che pare si possa scavalcare senza eccessiva difficoltà.

Mentre quindi la maggior parte degli squadristi attacca l’ingresso principale con gran fragore di scoppi, urla e comandi per far credere di essere in maggior numero di quanti effettivamente sono, in pochi si recano sul retro, e provano a scavalcare il muretto, per penetrare così nel cortile interno.

Abbattono poi una piccola porta, e filtrano all’interno dal caffè-birreria posto a piano terra, finché la loro manovra viene scoperta e tutto l’edificio si trasforma in un campo di battaglia, con alcuni degli squadristi che erano sul davanti che raggiungono i loro camerati che hanno “sfondato”, per dare più vigore all’azione.

Niente possono le poche Guardie Regie che, a quell’ora di notte, sono rimaste di sorveglianza, e non arrivano nemmeno i rinforzi che si sono affrettate a chiedere

All’interno, frattanto, le Guardie Rosse della vigilanza, sorprese ed impaurite dall’impeto degli assalitori, arretrano e, senza che ci sia alcuna vittima, nonostante gli scambi a fuoco, risalgono per le scale, nel tentativo di raggiungere la torretta in alto, dove, infatti, i nove che non sono riusciti a fuggire per altra via, si barricheranno finché sopraggiungeranno i pompieri a liberarli.

Nel contempo, nel resto dell’edificio comincia a divampare, con imprevista rapidità, l’incendio appiccato a mobili e carte.

Brandimarte ha le mani ustionate, Revel il viso e le mani, a Racca sono andati a fuoco i capelli, ma la battaglia è vinta, e da vincitori gli squadristi lasciano il fumante campo di battaglia.

Gli stessi pompieri, quando sopraggiungono, si muovono con grande prudenza, probabilmente nel timore che all’interno possano verificarsi – come è successo in una situazione analoga al Balkan di Trieste un annetto prima– esplosioni di ordigni, armi e munizioni stivate “per ogni evenienza”.

E infatti, nella testimonianza di Giorgio Alberto Chiurco, all’interno dello stabile vengono ritrovate “delle pistole di ordinanza Glisenti, rivoltelle Browning, bombe, moschetti con centinaia di proiettili”.

Si tratta di armi provenienti dai “trasferimenti” fatti, al momento dell’abbandono, dalle fabbriche occupate, che hanno disperso in mille rivoli ingenti quantitativi, soprattutto a Torino e provincia.

Un recente studio basato su documenti archivistici, ha in parte quantificato tali “trasferimenti” e individuato le località di destinazione. L’elenco è lungo e dettagliato, tale da non poter essere riportato qui. Un solo esempio:

Negli stessi giorni (siamo a gennaio del 1922 ndr), a Grugliasco i Carabinieri avevano perquisito anche l’abitazione ed un magazzino di proprietà di Giovanni Demarta, un capomastro muratore di origine biellese, noto ed apprezzato amministratore della “Alleanza Cooperativa Torinese”. Demolendo un muro, avevano scoperto una grotta dove erano occultate una ventina di casse contenenti un vero e proprio arsenale che comprendeva una mitragliatrice FIAT, un treppiede per mitragliatrice, una mitragliatrice d’assalto, una mitragliatrice antiaerea, due supporti per mitragliatrici, ventinove fucili modello 91, tre fucili modello 91 non regolamentari, quindici sciabole, una culatta mobile per armi modello 91, un congegno a ripetizione per armi modello 91, cinghie di tessuto per armi modello 91, due giberne di cuoio grigio, quattro cinghie reggigiberne, tre fucili austriaci, quattro sciabole austriache, e più di un centinaio di bombe di vario tipo, esplosivo, tritolo, dinamite congelata, solenite, balistite, 15.600 munizioni per armi modello 91, 2.500 per mitragliatrice St Etienne e 40.000 per pistola mitragliatrice. (3)

 

Le armi, come si vede, non mancano ai sovversivi piemontesi. Fa un po’ difetto, invece, la determinazione ad usarle, rischiando anche la vita.

Determinazione della quale sono abbondantemente dotati i loro avversari, i quali vanno sviluppando una ritualità conforme in tutta Italia, che prevede l’incendio della sede “rossa”, come momento finale dell’azione squadrista. A Torino esso assume qui una speciale rilevanza perché arrossa il cielo di una città che era considerata culla del sovversivismo e distrugge un santuario dell’azione social-comunista.

Nel contempo, la pubblica opinione non può non essere impressionata dalla capacità fascista di portare a compimento, in piccolo numero, e contando sulla sorpresa e l’ardimento, un’azione che appariva impensabile.

Vi è però, per i fascisti, un prezzo da pagare, con una giovane vita stroncata, quella di Amos Maramotti, diciannovenne studente di Ingegneria, originario di Guastalla, che si trova a Torino per studiare al Politecnico.

Egli, Presidente dell’Associazione studentesca e iscritto al Partito Repubblicano, è stato tra i fondatori del Fascio Reggiano, ed ha ritenuto di riprendere, una volta giunto a Torino, il suo posto di combattimento tra i mussoliniani.

Quella maledetta sera è tra coloro che si attardano alla sede del Fascio, in attesa si faccia un’ora più favorevole all’azione. Quando essa inizia, è in prima fila, a fianco di Revel, e scavalca il muro di cinta di via Papacino, mentre dall’interno si spara all’impazzata.

Scampa ai proiettili, ma non ad una bomba, che lo dilania orribilmente. Il racconto de “La Gazzetta del Popolo” del 28 aprile è raccapricciante:

Sembra che una bomba sia stata lanciata dall’interno contro il gruppo degli assalitori che si slanciava per la breccia fatta. Certo è che, colpito alla testa da una scheggia di bomba, cadeva mortalmente ferito lo studente d’Ingegneria Amos Maramotti, abitante in corso Cairoli 8. Lo sventurato si abbatteva al suolo contorcendosi.

Ancora il giorno dopo, nel luogo ove egli è caduto, si vedeva una larga chiazza di sangue, e, sulla parete, pezzi di cervello schizzati dalla testa del Maramotti, erano orribilmente appiccicati al muro! (4)

Il corpo viene portato dai suoi camerati nell’androne dello studio di Devecchi, in via Amedeo Avogadro 24, dove è allestita una specie di camera ardente.

Nelle tasche del Caduto è trovato un bigliettino per la madre, che egli, consapevole, come tutti, del rischio che correrà, ha trovato il tempo di scrivere, ma non di spedire: “Vado forse a morire. Non piangere, ma sii orgogliosa di tuo figlio. Viva il fascismo. Viva l’Italia. tuo figlio. 25 notte”.

 

A Devecchi, che ha scritto loro dando la ferale notizia e formulando le condoglianze a nome del fascismo tutto, i genitori, firmandosi “il babbo e la mamma di Amos Maramotti”, risponderanno con una nobile lettera:

Cadono i giovinetti eroi, ma l’Italia si rialza con fiammeggiante sguardo, con fremiti di gloria e risorge, grande, divina, splendida.

Sian dunque benedetti in eterno i figli nostri caduti, ed ogni goccia del giovane, ardente sangue sia un lembo di Patria che si riscuote dal giogo.

E così sia! (5)

A Torino, frattanto, viene proclamato lo sciopero generale di protesta, con il consueto contorno di violenze. Un episodio particolarmente grave si verifica alle Officine Savigliano, dove Domenico Bagnasco, Ufficiale in congedo e noto dirigente fascista, viene preso per alcune ore in ostaggio dai comunisti. Per il resto, l’impressione è che ormai la popolazione sia stanca del clima di mobilitazione permanente imposto dai sovversivi, da quando è finita la guerra.

C’è anche da dire che le parole del giovane Amos colpiscono l’intera comunità nazionale e quella squadrista in particolare. Mussolini ne farà esplicito cenno nel suo articolo del 28 aprile, intitolato “Il senso del limite”, che richiamerà tutti al dovere della disciplina, proprio nel nome dei Caduti:

Non si può leggere senza un brivido di commozione il testamento del giovane fascista caduto l’altro giorno a Torino nella sacrosanta rappresaglia contro la Camera del Lavoro. Solo quando l’animo è scaldato da un profondo ideale, si può andare con tanto stoicismo incontro alla morte.

I nostri martiri si contano a decine e a centinaia. Questo sangue è la migliore smentita alla turpe calunnia dei nemici larvati o palesi del fascismo. (6)

Il nome di Maramotti è destinato a diventare simbolo del martirologio squadrista di Torino, il suo ricordo, nella ricorrenza annuale, sarà sempre celebrato e gli saranno intestati edifici pubblici e organizzazioni giovanili di Partito.

Nel periodo della vigilia, “Amos Maramotti” si chiamerà una delle più importanti squadre cittadine, il cui comando sarà affidato – e non poteva essere diversamente– a Cesarino Revel, che gli fu più vicino in quella notte sfortunata.

 

FOTO NR. 3: il biglietto di Maramotti

FOTO NR. 4: i locali della Camera del Lavoro dopo la distruzione

 

NOTE

  1. Guerrando Bianchi di Vigny, Storia del fascismo torinese, Torino 1939, pag. 443
  2. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo, Milano 1983, pag. 40
  3. Roberto Gremmo, Guardie rosse sotto la mole, Biella 2020, pag. 5062
  4. Panorami di realizzazione del fascismo, Roma 1942, vol. IV, pag. 369
  5. (compilata da) Manfredo De Simone, Pagine eroiche della rivoluzione fascista, Milano 1935, pag. 18
  6. (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera omnia di Benito Mussolini, Firenze 1955, vol. XVI, pag. 288

 

 

1 Comment

  • stelvio dal piaz 18 Aprile 2021

    IL 1921 FU L’ANNO DEL MARTIROLOGIO FASCISTA. IL 17 APRILE, DURANTE LA CAMPAGNA ELETTORALE, NELL’ARETINO AVVENNE UNO DEGLI EPISODI FIU’ FEROCI PASSATO ALLA STORIA COME L’IMBOSCATA DI RENZINO – FOIANO DELLA CHIANA. TRE CADUTI FASCISTI E TUTTI GLI ALTRI FERITI E STRAZIATI CON CONCOLE E FORCONI. IO SONO IL FIGLIO DI BRUNO DAL PIAZ RIMASTO INVALIDO PER TUTTA LA VITA A SEGUITO DI PALLOTTOLA DUM DUM ESSPLOSA SULLA SPALLA DESTRA E QUANDO ERA A TERRA VENNE COLPITO AL CRANIO CON IL CALCIO DI FUCILE. MEMORABILE QUANTO PUBBLICO’ MUSSOLINI IL GIORNO SUCCESSIVO SUL POPOLO D’ITALIA, INTITOLATO LA MORALE.

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