Come è consuetudine da tre quarti di secolo, l’Italia si appresta anche quest’anno, il 25 aprile, a festeggiare la sua sconfitta nella seconda guerra mondiale.
Senza girarci intorno, se continua a esserci imposta questa festività grottesca, è perché, in buona sostanza, essa è la festa della sinistra, della parte “rossa”, dei “vincitori” che continuano a dominare l’Italia a dispetto di qualsiasi risultato elettorale.
Basta guardare i simboli che vediamo nei cortei che accompagnano questa “celebrazione”, la profusione di bandiere rosse e qualche tricolore deturpato dalla stella rossa, e non si possono nutrire dubbi sul fatto che la sinistra celebra la vittoria nella guerra civile. C’è per la verità qualche nicchia di ‘resistenza’. Se si va nei paesi del Carso dove è principalmente arroccata la minoranza slovena, potremo vedere un gran numero di tricolori a strisce orizzontali bianco-blu-rosse a ricordarci che l’esito di quell’infelice conflitto fu anche la sopraffazione slava contro gli Italiani, che qui sul confine orientale pagarono un prezzo pesantissimo di eccidi nelle foibe, un genocidio, una “pulizia etnica” che l’Italia “ufficiale” preferisce sminuire.
La storia che ci viene raccontata è ancora più falsa di quel che si potrebbe immaginare. In effetti i partigiani non vinsero e non liberarono un bel nulla, si limitarono a nascondersi in montagna, a compiere attentati, a colpire alle spalle, salvo “insorgere” quando i tedeschi se ne stavano andando, e il “lavoro grosso” lo fecero con la conclusione del conflitto, quando i vinti, deposte le armi, non potevano più difendersi, e fu mattanza di inermi, che si prolungò fino al 1948, massacro di “fascisti” o presunti tali, di chiunque pensavano potesse essere di ostacolo alla loro fantasticata “rivoluzione socialista”, con un notevole contorno di vendette personali e ruberie.
Un corollario, insieme altrettanto grottesco e tragico di questa vicenda, è stato una generazione dopo, il tentativo delle Brigate Rosse, di sovvertire lo stato italiano con gli stessi metodi dei partigiani, andando incontro a un totale fallimento, non prima però di aver sparso un bel po’ di sangue. I brigatisti credevano nella leggenda che i partigiani avessero vinto coi loro metodi per vedersi poi strappare la vittoria dagli angloamericani, erano i figli ideologici e spesso carnali dei partigiani.
Bene, l’intuizione che ho avuto riflettendo sulla storia del movimento “rosso”, dal golpe leninista in Russia falsamente noto come “rivoluzione d’ottobre” alla caduta dell’Unione Sovietica, è precisamente questa: non hanno mai vinto se non quando hanno potuto ricorrere all’inganno o quando hanno avuto una superiorità numerica e di mezzi tale che era impossibile perdere, si tratta, in altre parole, di sciacalli che hanno sempre cercato di indossare vanamente la pelle del leone.
Subito dopo la presunta rivoluzione d’ottobre, un golpe non diretto a rovesciare l’impero zarista che era già scomparso, ma la fragile democrazia che ne aveva preso il posto sotto la guida di Alexander Kerenskij, la prima azione militare importante dell’autocrazia sovietica, fu nel 1920 il tentativo di ri-annettere la Polonia, risoltosi in un bruciante insuccesso, ma bisogna dire che l’uomo allora alla guida dell’Armata Rossa, Josef Stalin, divenuto in seguito padrone della Russia, compensò l’inettitudine allora dimostrata con una ferocia inaudita nel perseguitare chiunque potesse dare sia vagamente ombra al suo potere, e scalando in assoluto la classifica dei pazzi più sanguinari della storia.
Gli anni ’20, il periodo successivo alla prima guerra mondiale, approfittando della miseria, del caos, dell’instabilità politica, della disperazione che un conflitto di questa portata aveva causato in tutta Europa, portò alla nascita dei movimenti comunisti per imitazione di quella cosiddetta rivoluzione russa su cui si avevano idee poche e confuse, e a una serie di insurrezioni comuniste tutte regolarmente fallite, possiamo ricordare quella di Bela Kun in Ungheria, quella spartachista in Germania, il “biennio rosso” (1919-20) in Italia.
La storiografia di sinistra ha dipinto queste insurrezioni di un alone romantico, soprattutto quella spartachista in Germania guidata da Rosa Luxenburg. In realtà si trattò di esplosioni di violenza che di romantico non avevano nulla. Gli spartachisti, per fare un esempio, a Monaco nel 1919 massacrarono gli esponenti della Società Thule su cui riuscirono a mettere le mani, benché quest’ultima fosse un’associazione più culturale che politica, dedita alle ricerche sull’eredità ancestrale dei germani e degli indoeuropei.
In Italia, durante il “biennio rosso”, un episodio di particolare brutalità ed efferatezza fu l’assassinio di Giovanni Berta, un giovane fiorentino figlio di un noto esponente fascista, che fu aggredito mentre passava in bicicletta per il lungarno, e scaraventato nel fiume. Poiché si era aggrappato alla spalletta, gli furono tagliate le mani per farlo precipitare.
Non contenti, o fieri della loro azione, i comunisti ci fecero sopra anche una canzoncina:
“Hanno ammazzato Berta, figlio di pescicani, evviva il comunismo che gli tagliò le mani”.
Un punto riguardo al quale sarà il caso di dire una parola di chiarimento: la “classica” tesi marxista secondo la quale il fascismo nasce come reazione borghese alla “rivoluzione proletaria” contiene una mezza verità, nel senso che è vero che il fascismo si sviluppò come reazione alle violenze “rosse”, ma è assolutamente falso che nelle sue fila non vi fossero migliaia di lavoratori “proletari” “figli del popolo” che si rendevano conto che ciò a cui i bolscevichi avevano dato vita in Russia e che i “compagni” intendevano esportare, non era “il paradiso dei lavoratori” ma un’atroce tirannide.
D’altra parte non è nemmeno vero che il fascismo nacque unicamente come moto di reazione perché esistevano, al di là dell’avversione per il “pericolo rosso” componenti nella cultura europea che l’avevano preparato. Per quanto riguarda la Germania senza dubbio la filosofia di Nietzsche ma anche il grande lavoro compiuto dai filologi del XIX secolo che li aveva portati a riscoprire l’unità originaria delle lingue e del mondo indoeuropeo, per quanto riguarda l’Italia perlomeno il forte spirito nazionale lasciato dall’esperienza risorgimentale.
Se si va a vedere quello che è stato scritto dalla storiografia antifascista, si ha l’impressione che i fascisti fossero una specie di alieni sbucati non si sa bene da dove, per sbarrare la strada alla “rivoluzione popolare”, erano invece una parte genuina della società italiana, stufa della classe dirigente liberale che si era dimostrata incapace sia di arginare la violenza “rossa” sia di far fruttare gli enormi sacrifici e il tributo di sangue comportati dalla prima guerra mondiale.
Sergio Zavoli in Nascita di una dittatura come più tardi in La notte della repubblica ha fatto un ottimo lavoro giornalistico, citando onestamente i fatti che contraddicono le sue idee, che poi non sono che un riflesso dell’interpretazione “ufficiale” antifascista. In particolare nell’intervista con Ezio Maria Gray si evidenzia che dietro la violenza “rossa” c’era un innegabile fondo di stupidità. I comunisti, spiega Gray, fecero l’errore di prendersela con gli ex combattenti come se questi fossero stati i responsabili della guerra, anziché coloro che avevano dovuto sopportarne maggiormente il peso, col risultato che essi transitarono in massa nelle file del fascismo.
In tutta Europa, si può dire, lo scontro politico degli anni ’20 e ’30 registrò l’ascesa vittoriosa dei fascismi e la disfatta dei “socialismi”.
Il successivo terreno di scontro fu rappresentato dalla guerra civile spagnola che di nuovo si risolse con la disfatta della parte “rossa”, tuttavia ci sono un paio di cose che occorre osservare: prima di tutto, questo conflitto assunse subito una dimensione internazionale, e mentre gli aiuti italiani e tedeschi andarono al generalissimo Franco, le potenze borghesi: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, non mancarono di aiutare la parte “repubblicana” cioè rossa, come se trovarsi con due regimi comunisti, due stalinismi, convergenti ai due estremi, orientale ed occidentale, del continente europeo fosse una prospettiva da prendere sottogamba o accettare tranquillamente. Vediamo in sostanza gli stessi schieramenti che si sarebbero riproposti durante il secondo conflitto mondiale, e questo ci dimostra che questi ultimi non furono affatto il prodotto del meccanismo relativamente casuale delle alleanze.
Vediamo dunque una chiara smentita della tesi comunista del fascismo come “cane da guardia della borghesia”, in questo caso bisognerebbe spiegare come mai al “cane” non si riservano che calci, mentre il lupo viene accolto nell’ovile con tutti gli onori.
La guerra civile spagnola ci mostra anche un altro aspetto che anticipa il secondo conflitto mondiale: senza dubbio imbeccati da Stalin, i comunisti spagnoli condussero una guerra civile parallela contro le altre formazioni repubblicane. Non a caso, George Orwell, uno dei maggiori scrittori del XX secolo che partecipò come volontario a questo conflitto dalla parte repubblicana, uscì da questa esperienza con un forte sentimento anticomunista che espresse poi facendo del comunismo le feroci caricature che vediamo nei romanzi 1984 e La fattoria degli animali, che hanno il potere di mandare in convulsione la sinistra radical-chic ogni volta che se ne accenna.
Si arriva allo snodo storico fondamentale rappresentato dalla seconda guerra mondiale, e anche qui la realtà dei fatti differisce molto dalla versione ufficiale, dall’ortodossia, potremmo dire, consacrata dall’ideologia di regime e, vediamo di parlare di come si è arrivati alla sfortunata partecipazione italiana a questo conflitto.
Sarebbe quasi inutile precisare che le “mire imperialistiche” del fascismo: la Corsica, Nizza, la Savoia, Malta, la Dalmazia, non rappresentavano altro che il completamento dell’unità nazionale avviata dal movimento risorgimentale. Se si condanna il fascismo per questo, bisogna condannare anche il risorgimento e l’esistenza stessa dello stato italiano.
Nello specifico, però, fu la situazione determinatasi con la guerra di Etiopia. All’epoca si riteneva necessario il possesso di colonie per garantire lo sviluppo industriale di un Paese, e con l’Etiopia avevamo un lungo contenzioso risalente a ben prima del fascismo, al tardo ottocento, ma soprattutto occorre non dimenticare che Francia e Inghilterra possedevano imperi coloniali estremamente vasti, da solo quello britannico si estendeva a un terzo delle terre emerse del pianeta, e la condanna anglofrancese dell’impresa etiopica somigliava molto alla storia del bue che dà del cornuto all’asino.
Ma c’è un particolare a cui non si è prestata sufficiente attenzione: tutti i rifornimenti alle nostre truppe in Etiopia dovevano necessariamente passare per Suez, che allora era in mani britanniche; se gli inglesi avessero voluto impedirci di prendere l’Etiopia, sarebbe stato per loro facilissimo bloccarli. In realtà si voleva che prendessimo l’Etiopia, per poterci condannare, isolarci internazionalmente e buttarci nelle braccia della Germania e distruggerci insieme a essa nella nuova guerra mondiale che la parte poi risultata vincitrice del conflitto andava preparando.
Proprio all’inizio di Navi e poltrone di Antonino Trizzino è citato un documento, una richiesta dell’ammiragliato britannico per un’ingente fornitura di siluri aerei in vista di un conflitto, che sarebbe stato soprattutto aeronavale, con l’Italia che (parole testuali del documento), l’ammiragliato considera “ormai inevitabile”, ma quel che davvero sorprende, al punto che Trizzino pensa a un errore di datazione, è la data del documento: 1938, vale a dire un momento in cui la Gran Bretagna ostentava la massima cordialità verso l’Italia e Inglesi e Francesi pietivano Mussolini perché facesse da mediatore con Hitler per la crisi aperta dalla vicenda dei Sudeti, mediazione che Mussolini si accollò e portò all’accordo di Monaco.
E’ innegabile tuttavia che vi furono spinte interne alla nostra partecipazione al conflitto, ma probabilmente più dalla parte dell’antifascismo che del fascismo, in particolare i gradi più elevati delle gerarchie militari legati alla Corona, che contavano sulla sconfitta per sbarazzarsi di Mussolini e del fascismo e, Trizzino lo ha ben documentato in Navi e poltrone e negli altri suoi libri, cominciarono da subito a passare sottobanco informazioni agli Inglesi, oltre, s’intende a tenere Mussolini ben all’oscuro dello stato critico in cui versavano le nostre forze armate in conseguenza del logorio imposto da ben due conflitti successivi, quello etiope e quello spagnolo. Uno sporco gioco, un tradimento di cui i nostri soldati, e poi la popolazione civile avrebbero pagato un prezzo altissimo.
Mi ricordo tanti anni fa, nella cosiddetta prima repubblica, i partiti che dominavano il quadro politico si chiamavano Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Movimento Sociale, eccetera…
Il meccanismo delle tribune politiche pre-elettorali prevedeva il confronto fra rappresentanti di due partiti politici scelti casualmente per sorteggio.
Quella volta il sorteggio determinò il confronto fra PCI e MSI.
Furono i comunisti a rifiutare un confronto coi rappresentanti del partito considerato ‘neofascista’, che si sarebbe potuto rivelare assai acceso e ricco d’interesse. Dissero e scrissero su “L’unità”, “Noi il confronto con i fascisti l’abbiamo chiuso a piazzale Loreto”.
A prescindere della caduta di stile occorreva davvero un’enorme insensibilità morale per vantarsi di piazzale Loreto, che fu uno degli spettacoli più atroci e bestiali di tutta la guerra, dove i cadaveri di Mussolini, dei gerarchi fascisti assassinati, di Claretta Petacci (che responsabilità avesse quella donna, a parte il suo rapporto con Mussolini, non è dato di sapere) appesi come carne da macello a un distributore di benzina e lasciati al linciaggio di una folla aizzata e assatanata, non prima però che gli Americani avessero posizionato le loro cineprese in modo da poter presentare al mondo intero il volto osceno e bestiale della “nuova” Italia antifascista che andava nascendo.
Ma il punto è: gli eredi della Luxemburg di Stalin e di Lenin, dopo aver fatto “la resistenza”, cioè una guerra priva di grossi rischi rintanati in montagna, attentati, sparato nella schiena a coloro che ancora resistevano all’invasore, stuprato, torturato e compiuto stragi ad armi deposte, pensavano e pensano di aver vinto il fascismo, ma è proprio così?
Per rispondere a questa domanda occorre riconsiderare il significato della seconda guerra mondiale, tenendo presente che i comunisti nostrani, appunto, non erano che un’emanazione ideologica dell’Unione Sovietica.
Contrariamente alla narrazione più diffusa (che è ciò che i vincitori del conflitto vollero, e i loro eredi vogliono farci credere), le cause e le responsabilità della seconda guerra mondiale non sono quelle che generalmente si pensa, ma sono addebitabili alla parte vincitrice.
La Germania impegnata da appena sei anni nell’edificazione di un modello sociale del tutto nuovo, era probabilmente la nazione europea meno interessata a un nuovo conflitto europeo di vasta portata. Probabilmente fu attirata in una trappola con le persecuzioni estremamente dure che Polonia e Cecoslovacchia riservarono ai tedeschi capitati in loro potere a causa degli innaturali confini tracciati a Versailles nel 1919.
Mettendoci per un momento nei panni di Stalin, non facciamo fatica a capire che il momento più adatto per attaccare la Germania e rimuovere l’ostacolo maggiore al trionfo del bolscevismo in tutta Europa, era precisamente quello in cui la Germania era impegnata con gli anglofrancesi in un conflitto che non aveva voluto.
Ricordiamo l’episodio di Dunkerque, quando Hitler interruppe la marcia delle Panzerdivisionen per permettere al contingente britannico di mettersi in salvo. In seguito, nelle Conversazioni a tavola lo ammise apertamente: quello di Dunkerque fu il suo errore più grave, si era illuso che i dirigenti britannici avessero a cuore la sorte del popolo inglese come lui aveva a cuore quella del popolo tedesco, invece per essi l’annientamento della Germania era un obiettivo al disopra di qualsiasi conseguenza per l’Inghilterra, erano parte di un piano per dare al conflitto iniziato a Danzica una dimensione mondiale.
Secondo la versione ufficiale, quella riportata nei libri di storia, fra le democrazie borghesi e l’Unione Sovietica si sarebbe instaurata una coalizione momentanea, necessitata dalla “minaccia fascista”, il che è assolutamente falso, perché questa coalizione con i medesimi schieramenti si era già concretizzata in quella “prova generale” che fu il conflitto spagnolo, e soprattutto perché gli Stati Uniti iniziarono fino dal 1938 ad armare l’Unione Sovietica in vista della guerra contro la Germania.
La verità sulla seconda guerra mondiale è rimasta celata per molti anni negli archivi del Cremlino, a svelarla, alla fine degli anni ’90 del XX secolo, è stato un ex agente del KGB, Vladimir Rezun, che ha pubblicato una serie di libri con lo pseudonimo di Viktor Suvorov. Di essi non esistono traduzioni italiane, ma esiste una recensione dello storico Daniel W. Michaels pubblicata su The Journal of Historical Review, nel numero di Luglio-Agosto 1998.
Scrive Michaels:
“Suvorov fa notare che gli Stati Uniti hanno rifornito la Russia sovietica di armamenti pesanti sin dalla fine degli anni 30. Cita lo studio di Antony C. Sutton, “National Suicide” (suicidio nazionale), Arlington House, 1973, il quale racconta che nel 1938 il Presidente Roosevelt concluse un accordo segreto con l’URSS per lo scambio di informazioni militari”.
Appare dunque chiaro il piano dietro lo scoppio del conflitto: prima attirare la Germania in una trappola sulla questione di Danzica, poi l’attacco sovietico prevenuto dall’Operazione Barbarossa.
Gli Stati Uniti per conto loro, già molto prima di Pearl Harbor si impegnarono a colmare le lacune della produzione bellica sovietica, peraltro enorme in alcuni settori, ad esempio l’aereo da caccia Bell P 39 Airacobra la cui produzione fu destinata quasi interamente all’aviazione sovietica, stante il fatto che i caccia di produzione russa non erano in grado di competere qualitativamente con i modelli tedeschi.
La guerra, lo sappiamo, si concluse in Europa nel maggio del 1945 con l’arrivo dei sovietici a Berlino e l’annientamento del Terzo Reich, ma per Stalin, per il quale schiacciare la Germania doveva essere la premessa per estendere “la rivoluzione” a tutta Europa, cioè schiacciare il nostro continente sotto il tallone sovietico, non fu che una vittoria a metà.
Come scrive Michaels sulla scorta di Rezun-Suvorov:
“Nella primavera del 1945, truppe dell’Armata Rossa riuscirono ad issare la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag a Berlino. Lo dobbiamo agli immensi sacrifici delle forze tedesche e dell’Asse se le truppe sovietiche non sono riuscite ad issare la bandiera rossa a Parigi, Amsterdam, Copenhagen, Roma, Stoccolma e, forse, Londra”.
Se per l’Armata Rossa fu mezza vittoria, per i partigiani nostrani che avevano “combattuto” nascondendosi in montagna e sparando alla schiena contro chi resisteva all’invasore, non fu vittoria affatto, quella vittoria che pretesero gli alleati gli avessero strappato dalle mani, non esistette mai, vi fu invece la mattanza fratricida sui vinti ad armi deposte.
I comunisti, va detto, non persero il “vizietto” che avevano già manifestato nella guerra di Spagna, vale a dire la “guerra parallela” con le altre formazioni partigiane. L’esempio più “luminoso” avvenne in Friuli dove i comunisti della brigata Garibaldi, dopo aver attirato in una trappola con l’inganno i membri della brigata non comunista Osoppo, li disarmarono e li massacrarono. La motivazione di questo eccidio di cui i cantori della finta “resistenza” preferiscono non parlare, fu il rifiuto della brigata Osoppo di mettersi agli ordini del IX Corpus Jugoslavo, cosa che prefigurava l’annessione del Friuli alla Jugoslavia. Pare che da accordi intervenuti fra Togliatti e Tito, la Venezia Giulia e il Friuli dovessero passare sotto la Jugoslavia in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia. Ai comunisti nostrani sfuggiva completamente il carattere etnico della guerra di cui Russi e Jugoslavi erano pienamente consapevoli, un’occasione di far avanzare il mondo slavo ai danni di quelli latino e germanico. Il marxismo non è, come diceva Croce, “un paio d’occhiali sociologico”, ma un paraocchi che acceca.
Per gli angloamericani, la spartizione del mondo tra i vincitori avvenuta a Yalta poteva durare per l’eternità, ma per i sovietici era solo una tappa in vista della totale conquista del pianeta. Come fa notare Michaels, “Alla lunga, il comunismo non è compatibile con altri sistemi politici”.
Il primo strascico della seconda guerra mondiale fu la guerra civile greca, in realtà un tentativo di Stalin di annettere la Grecia al blocco comunista attraverso gli “utili idioti” comunisti locali, di realizzare l’eterna aspirazione russa a uno sbocco sul Meditarraneo. Quanto fosse radicata l’aspirazione dei Greci a un regime comunista si vide non appena Tito litigò con Stalin e i rifornimenti ai comunisti che passavano per la Jugoslavia si interruppero: la guerra civile greca cessò di colpo.
Negli anni che vanno dalla conclusione della seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino, l’Unione Sovietica, sia sotto Stalin, sia dopo la morte del dittatore georgiano, ha tentato di espandere il comunismo in tutti i modi, tranne una diretta invasione dell’Europa occidentale, che avrebbe comportato un conflitto nucleare con gli Stati Uniti. I modi adottati furono essenzialmente due: l’infiltrazione nei movimenti “di liberazione” del Terzo Mondo nati dalla decolonizzazione, e la guerra ideologica in Occidente tramite i movimenti contestatori a partire dal ’68.
L’inganno si dimostrò la strategia più adeguata per chi continuava a dimostrarsi costituzionalmente incapace di vincere con altri mezzi: l’esempio classico: gli ex colonizzatori cedevano il potere ai movimenti “di liberazione”, illudendosi in una transizione democratica, dopo di che un golpe spazzava via i non comunisti: uno scenario che si è ripetuto in Angola, in Mozambico, in Namibia, in Etiopia (con la variante in quest’ultimo caso che non c’era un governo coloniale, ma era stato restaurato quello del negus).
Scenario non dissimile a Cuba dove i guerriglieri comunisti presero il potere approfittando del clima rilassato delle festività natalizie.
L’inganno più elaborato fu probabilmente quello che permise ai comunisti di impossessarsi del Vietnam. L’offensiva che portò i comunisti alla presa di Saigon avvenne all’indomani di un cessate il fuoco frutto di elaboratissime trattative in cui i comunisti del nord arrivarono a fare oggetto di discussione perfino la forma del tavolo dei colloqui, e che fruttarono al mediatore americano Henry Kissinger e a quello nordvietnamita Le Duc Tho il più immeritato premio Nobel per la pace prima di quello assegnato a Obama.
Inganno nell’inganno, il movimento Vietcong scomparve come neve al sole il giorno stesso della caduta di Saigon, si rivelò essere stato niente altro che una maschera dietro la quale si erano celate le forze militari di Hanoi.
In Europa si ripeté negli anni ’70 e ’80 del XX secolo lo scenario che si era già visto mezzo secolo prima, nel quale per poter dire la loro, gli anticomunisti erano costretti per prima cosa a difendersi fisicamente con un non indifferente tributo di sangue.
Oggi, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quest’aggressione assume un’altra forma: la sinistra si è messa al servizio del NWO, della cancellazione dei popoli europei attraverso la sostituzione etnica. Resta il fatto che la rivoluzione bolscevica e socialista prima e dei principi del ’68 dopo si sono sempre realizzati a metà perché c’è una stragrande maggioranza della popolazione occidentale e mondiale che non consentirà mai la realizzazione di quel progetto massificatore e tiranno che ha seminato sangue e morte per un secolo intero. Gli sciacalli assetati di sangue danzeranno attorno al Leone in difficoltà ma i leoni restano leoni e gli sciacalli restano sciacalli.
NOTA: Nell’illustrazione 1, occupazione – tutt’altro che pacifica – di una fabbrica durante il “biennio rosso”. Nell’illustrazione 2, soldati della Wehrmacht in azione durante la seconda guerra mondiale.
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