9 Ottobre 2024
Controstoria

ITALIA 1921: Grosseto 27 giugno – seconda parte – Giacinto Reale

 

Ma che è tutto questo fottio, tutta questa gente inutile? Ma le spedizioni sono cose di molto serie e non un Carnevale di Viareggio.

 

Il risultato elettorale, l’inerzia delle Forse dell’Ordine, una qualche ritrovata animosità sovversiva rendono, nei primi mesi del 1921, la vita dei pochi fascisti presenti a Grosseto particolarmente difficile.

Per rendersi conto di una situazione così sfavorevole, e studiare eventuali iniziative, il 20 giugno arriva nel capoluogo maremmano, inviato da Firenze, anche il noto e “accreditato” capo-squadrista Dino Castellani, che però riceve, come prevedibile, una brusca accoglienza, sì da essere costretto a lasciare la città in tutta fretta, senza aver concluso nulla.

Prende allora corpo l’idea di una spedizione, da realizzare, e questa è una novità, come una vera azione di guerra. Prima un nucleo sceltissimo raggiungerà Grosseto per saggiare – ed eventualmente reprimere la resistenza avversaria, poi confluiranno squadre da tutta la Regione, per definitivamente debellare ogni ostacolo alla affermazione fascista.

Inutile dire che il compito di quelli che potremmo definire “Arditi” dello squadrismo, (perchè mai come in questo caso dagli Arditi di guerra mutuano i principi ispiratori della loro azione: piccolo numero, intervento deciso, rientro al termine per lasciare il posto alla “Fanteria”) è affidato ai migliori squadristi della Disperata, temporaneamente messi sotto il comando dello stesso Castellani, che è un’autentica “pellaccia”, ex Tenente degli Arditi, e si sta mettendo in luce per determinazione e spregiudicatezza sul campo.

Per la prima fase, che è più di una semplice esplorazione, vengono selezionati tredici elementi che, come allora si diceva, “non avevano paura né del Paradiso né dell’Inferno”.

Sono sei ex Ufficiali, due ex Sergenti degli Arditi e cinque “nuove leve”, che si trovano, la sera del 27 giugno, al treno per Grosseto. Il mezzo scelto per lo spostamento, al posto del più consueto camion, comporta che essi abbiano con sé revolver (due a testa) e una scorta di bombe (nove SIPE me una lenticolare), niente moschetti, e la cosa avrà poi la sua rilevanza.

Prima, come in una vera azione militare, viene studiato il terreno e la pianta della città, che ha solo due Porte di ingresso-uscita, e quindi presenta un forte rischio di “ingabbiamento” per i forestieri, in avanscoperta, prima che arrivi “il grosso” . Lo intuisce anche Pollione, che certo non è un fulmine di guerra:

 

Tu vedrai che va a finire che si farà da baco, tu vedrai e che si deve portare i’ pescio all’amo, i’ pescio sono loro, i’ baco e siamo noi, no?

E quando i’pescio avrà abboccato e addio noi, e i nostri e tireranno su la canna, eh? Ma quando Dio…e piglieranno i’ luccio, noi e ci avranno bell’e ingoiati. (1)

 

Partono “a coda dritta” consapevoli della delicatezza e importanza dell’incarico ricevuto da Dino Perrone Compagni in persona, che intende risolvere il problema, troppo a lungo rinviato per le più urgenti azioni su Foiano, Perugia e Livorno. All’arrivo, alle sei di mattina, in stazione, ad attenderli, c’è una cattiva notizia ed una buona.

Non può fare loro piacere apprendere che, nel pomeriggio, un piccolo gruppo di camerati, Fiorentini anch’essi, transitati nella cittadina di ritorno da Foiano e diretti al Capoluogo di Regione, sono venuti alle mani con i sovversivi locali, avendo la peggio, con un ferito abbastanza grave, al quale il locale ospedale ha rifiutato il ricovero, costringendolo a riparare in albergo.

Di migliore auspicio sembra, invece, il fatto che il Tenente dei Carabinieri che gli si fa incontro sui binari, che già conosce Castellani, non si dimostra ostile come in altri casi, se non altro perchè dichiara di aver avuto, un paio di giorni prima, due suoi uomini uccisi dai social-comunisti sotto le mura di Porta Vecchia.

È così che i nuovi arrivati possono raggiungere, sia pure con ogni circospezione, i camerati (che non hanno armi, e si beccano, per questo, una serie di improperi) che da ore sono asserragliati nell’hotel Bastiani, per decidere insieme cosa fare.

I fatti decidono per loro.

Non appena, infatti, un’oretta dopo, si affacciano in strada, divisi in gruppetti di due-tre, che si coprono reciprocamente le spalle, sono accolti dal fuoco avversario. La zona del Mercato e di Porta Vecchia è così teatro di una serie di sparatorie, nelle quali viene fuori la maggiore perizia che deriva ai “Disperati” dall’esperienza. Al termine, sul terreno ci sono tre morti sovversivi e un paio di feriti fascisti, ma il campo è sgombro, tal che Castellani dà ordine di inoltrarsi in città, e di aprire il fuoco contro chiunque si mostri per strada, “perché quelli che si presentassero all’aperto, ora, sono dei rossi, non c’è da sbagliare”.

Seguono altri scontri per ogni dove, finché giunge notizia che un centinaio di operai della San Giorgio-Ansaldo si sono asserragliati all’interno delle Scuole Normali.

La notizia preoccupa gli squadristi, che sono rimasti in undici, più che per il numero, per la possibilità che essi siano armati di fucili, contro le loro sole pistole. Si tratta, fortunatamente, di un falso allarme. Se pur accolti da un fitto fuoco, al loro arrivo alle Scuole, i Fiorentini, dal rumore, capiscono subito che si tratta di revolver, e che anche i loro avversari non hanno fucili.

L’edificio è presto conquistato. Gli occupanti fuggono, lasciando un altro morto sul terreno, e verso le 13 gli squadristi tornano all’albergo e si apprestano a ripartire:

 

Decidemmo di andarcene, ormai il compito era stato assolto e ci sembrava anche brillantemente. Il “pescio” era venuto fuori, ma non ci aveva “ringoiati”.

Ce ne andammo portandoci dietro i nostri quattro feriti. Per Vincenzo (era lo squadrista trovato in albergo ndr) il proprietario dell’albergo, il bravo sor Antonio ci prestò due materassi che stendemmo sul fondo del camion. Solo a Montepescali potemmo calmare la fame con del perfido prosciutto, che sarà stato di cinghiale della Maremma, ma che era immangiabile, pane duro e molto vino.

….

Il conto di oltre trecento lire venne fatto rimettere per il saldo al Prefetto, con un gentile biglietto di saluto. (2)

 

Si può veramente dire che l’azione “arditesca” ha scompaginato la resistenza degli avversari, incrinato la loro sicurezza in se stessi, posto le premesse per il successo fascista.

A Grosseto, comunque, non è finita. In poche ore alcune centinaia di squadristi, provenienti da tutta la Regione convergono sulla città per un’azione di massa, di quelle che, in realtà, non piacciono alla crema dello squadrismo riunita nella migliore squadra dell’intera Toscana (e forse dell’intera Italia):

 

Ma noi a questa seconda fase non partecipammo.

“Ormai le cose sono da lasciar fare ai ragazzi!” diceva il capo con aria paterna, nella gran sala del Bastiani ai capi delle altre squadre che lo stavano a sentire attenti, e spiegava come si fa in pochi a sistemare una piazza “ma a patto… – e qui li guardava da sotto in su – che sia gente con i …blindati, inteso?

E in pochi, inteso? Ma che è tutto questo fottio, tutta questa gente inutile? Ma le spedizioni sono cose di molto serie e non un Carnevale di Viareggio. Dio ci guardi di trovarci in una azione con questi ragazzetti senza disciplina e male armati. Guardateli lì. E ce li ammezzerebbero come beccafichi. Ma che vi girano…” (3)

 

E infatti, il morto che non c’è stato mentre le pallottole fischiavano e le bombe esplodevano, arriva, all’improvviso, in un agguato, grazie ad un vile trucco.

Il ventunenne Rino Daus, delle squadre d’azione senesi, che pur dopo la perdita di un occhio in uno scontro a fuoco nei pressi di Montalcino, qualche giorno prima, non si è ritirato dalla lotta, viene colpito a morte, il giorno 29, nei pressi della ferrovia. Ecco la ricostruzione de “La Scure”, organo della Federazione fascista senese:

 

L’imboscata tesa a Rino Daus per il carattere della vigliaccheria è la più infame, e non si riscontra nemmeno in nessuna cronaca di selvaggiume abissino.

Rino Daus si trovava nel pomeriggio del giorno 29 con altri compagni. presso la ferrovia del paese, per vigilanza.

Scorti degli individui armati, fu dato il segnale d’allarme. Questi hanno gridato in direzione dei fascisti il grido nostro: “Eja Eja, Eja Alalà”, avanzandosi. Il povero Rino andava loro incontro. Ad un certo momento una scarica di schioppettate lo colpiva al cuore, fulminandolo. E cadeva così, nel tradimento più vile che si possa immaginare e che caratterizza ormai in modo indiscutibile, l’attività del Partito della delinquenza italiana, formato da disertori, da ladri, da spie e da briganti.

E, come tali, subiranno la nostra legge. (4)

 

Vittima, è il caso di dire, del volontarismo fascista, che fa sì che, quando la tromba dell’adunata chiama, tutti sentano come un dovere il fatto di esserci.

Il ricordo delle giornate di Grosseto resterà ben impresso nella memoria di chi vi ha partecipato, fino a diventare quasi termine di paragone per ciò che verrà. A Roma, nelle pur tumultuose giornate del Congresso, a fine anno, gli uomini della Disperata che si recano in San Lorenzo per “regolare i conti” con quelli del Circolo Bebel, di fronte alla strana tecnica dei loro avversari, che si sottraggono alla scontro diretto, sparano da finestre che si aprono un attimo per poi richiudersi, e, infine, si danno alla fuga, ricordano con nostalgia i bei giorni di giugno:

 

Però i rossi si aggiornarono in breve della loro inesperienza, e, dopo una serie di piccoli, slegati conflitti, se ne andarono di trotto allungato verso la periferia, verso il Verano, salutati dai Thevenot di Solino e del Gri, che fecero volare in pezzi i vetri delle case popolari.

Ma eravamo piuttosto delusi, e Pollione, al solito, cominciò a borbottare che, se per il vero si erano fatte le cose per bene, non erano state certamente delle belle azioni:

“Ma che la puoi paragonare a un San Frediano o a un Grosseto?… E’ un ci san far… ma sicchè, e te lo dico io, e un ci sanno fare…ma che ti girano…costa più uno dei nostri rossi che dieci di questi polli”.

Parve anche a noi, e fu solennemente decretato che, in fatto di nemici, la roba di casa nostra rimaneva ancora la migliore (5)

 

Anche Umberto Banchelli, che conserva le regole cavalleresche del vecchio combattente di prima linea, darà, due anni dopo, il giusto riconoscimento ai suoi avversari di allora:

 

La spedizione nel Grossetano può considerarsi un episodio di importanza quasi nazionale. Quelle terre erano state fino ad allora quasi inaccessibili all’idea fascista, perché paurose leggende circolavano. Ma la verità è una sola: quei comunisti furono vinti in aperta battaglia durata quasi un giorno. Fu combattuto nelle case in costruzione, nelle vie e nei campi; ultima fase della battaglia prima della loro fuga poco onorevole.

È d’uopo riconoscere che fra i gregari comunisti molti si batterono da forti e a viso aperto, mentre i capi furono, come sempre, vilissimi, e fuggirono per primi, compreso il loro ex Onorevole. (6)

 

Questo nel 1923. Però ora, nell’infuocata estate del 1921, sarà proprio in un paese della Provincia di Grosseto, Roccastrada, che si verificherà un episodio drammatico, destinato a restare, per certi aspetti, un unicum nella storia del quadriennio rivoluzionario.

 

FOTO NR. 3: il libro di Mario Piazzesi

FOTO NR. 4: Rino Daus

  

NOTE

  1. Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag 173
  2. Ibidem, pag. 179
  3. Mario Piazzesi, cit., pag. 204
  4. Giorgio Alberto Chiurco, Rino Daus, Roma 1934, pag. 50
  5. Mario Piazzesi cit., pag. 204
  6. Umberto Banchelli, Le memorie di un fascista, Firenze 1923, pag. 50

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