Alcuni ritengono, a torto, che un uomo serio non debba occuparsi di commedie, satire e parodie, ed anzi, suppongono che il ridicolo non si addica alla figura di un filosofo ed in genere alla filosofia. Presumono, ingenuamente, che la figura di un filosofo o comunque di un pensatore, debba essere sobria, adorna di serietà, di compostezza e pacata, e, pertanto, che mal si concilia un uomo colto con la pantomima onde fugare il rischio ch’egli appaia come un pagliaccio, come un buffone, come un giullare. Malgrado ciò occorre constatare un tal livello di ignoranza della filosofia, in coloro che così parlano, da far rabbrividire. La storia della filosofia è, difatti, la storia del ridere. Sono fondamentalmente convinto che ridere sia una attività spirituale, oserei dire metafisica. Gli animali non ridono, e forse il riso è ciò che più ci accomuna agli Dei. Se un tratto simile a Dio dobbiamo averlo, questo è proprio la capacità di ridere, anzitutto di noi stessi, e questa è l’Arte più difficile in assoluto, un’Arte Iniziatica. Occorre diffidare, sostanzialmente, di due generi di persone: quelli che non ridono e quelli che non bevono, nella misura in cui il vino, come è noto, facilita il riso e il buonumore ma anche la verità. D’altronde il profondo legame fra il ridere, il vino e la verità è attestato già nel Simposio platonico:
“Riderete forse di me perché sono ubriaco?
Eppure io, anche se voi ridete, so bene di dire la verità…” (Platone, Simposio (212 c, d, e), traduzione di Giorgio Colli).
Chi ritiene che la filosofia non implichi il ridere è in errore, perlomeno storico e letterario, tuttavia nel medesimo errore cade anche colui che ritiene che il ridere non implichi la filosofia, dal momento che da Socrate ed Aristofane in poi infatti la filosofia è satira e commedia, nonché, nel suo senso più ampio, teatro. Ne Le Nuvole di Aristofane (423 a.C), l’oggetto della satira è il più grande e stimato sapiente dell’epoca, ovvero Socrate. Vi è una scena dell’Opera di Aristofane in cui Socrate deve risolvere il problema se le zanzare cantino con la bocca o con il deretano…ridicolizzando così la sapienza di Socrate al sommo grado. Da notare che Socrate partecipava alle rappresentazioni teatrali di buon grado e, anziché lamentarsi delle caricature a lui dedicate, le plaudiva volentieri anzi cercando lui stesso, in molte occasioni pubbliche, di apparire ridicolo e oggetto di scherno, quasi che il pensare fosse profondamente legato al comico. Per ciò non si potrà mai smettere di amare i Greci, poiché essi disquisivano delle cose più nobili e celesti, degli Dei, delle stelle, della matematica, ma al tempo stesso sapevano ridere, e prendere in giro i loro stessi sapienti. Per questo i Greci erano superiori, perché ridevano della loro grandezza.
Non da meno nell’età medioevale la figura del giullare, come anche quella del buffone, del menestrello, del giocoliere, del nano, del cantastorie, del trovatore e chierico vagante si è caricata di un’aura mistica e legata a una figura che faceva da medium fra l’alto e il basso, come, d’altronde, lo fu Ermete, che, ambiguo, era psicopompo fra gli Dei e gli uomini. Il giullare e il buffone furono coloro che realmente conservarono perpetrarono e divulgarono una conoscenza letteraria, religiosa e mistica altrimenti irrecuperabile. Furono custodi, fra il 1200 e il 1300, di conoscenze, saperi e tradizioni altrimenti bandite o guardate con sospetto dalle autorità, come quelle magiche, alchemiche o pagane, ma anche rituali e simboliche. Erano loro, con le pantomime e le mimiche, a inscenare testi e simboli che arrivavano al popolo analfabeta. Furono loro, i buffoni, i pagliacci, il vero e l’autentico sapere del popolo in un’epoca in cui altrimenti tutto sarebbe stato oscuro e quindi a loro dobbiamo ciò che siamo come uomini e come civiltà. Il giullare prese su di sé la parte del soggetto controcorrente, la sua figura era quella del pazzo, dell’anormale: colui che operava un rovesciamento del senso comune, ma pienamente accettato. Si pensi che il buffone di corte era l’unico e il solo a poter prendere in giro i nobili rimanendo impunito. Era una figura catartica che poneva un rovesciamento, uno sfogo, una fuga in una dimensione carnevalesca, forse irreale, ma più carnalmente intrisa di verità. La figura del matto, del buffone, in inglese fool, è diventata poi quella del matto dei tarocchi, il vero sigillo dell’iniziazione e del mistero, colui che rovescia tutto, sé stesso e il mondo, e, attraverso il riso, penetra i misteri più profondi. Come scrisse una volta Roger W. Oliver, il buffone, comunque lo si guardi, con rispetto, ammirazione, o con scherno e diffidenza, è sempre specchio degli altri:
“Quando la gente ride del buffone, ride di sé stessa; quando piange il buffone, piange sé stessa; e quando odia il buffone, odia se stessa”.
Molti sono stati nella storia i pensatori che hanno cercato di stabilire una sorta di regola della comicità. Per Ralph Emerson “la rottura della continuità nell’intelletto, è commedia”. Indubbiamente uno degli elementi essenziali della comicità è quella sorta di incongruenza, quel fenomeno che determina uno scarto, uno iato fra l’attesa e l’epifania, fra ciò che ci si aspetta e ciò che effettivamente accade, generando quindi una sorpresa che spesso si configura come amena, buffa. Ciò che appare ordinario, correlato, ordito in una serie di nessi e rapporti conosciuti e previsti è abituale e sicuro, ma ecco che quando una variabile improvvisa s’insinua in questo ordito appare lo straordinario, e ad esso si accompagna il riso. Il riso è dunque il nunzio di ciò che è oltre l’ordinario e, in un certo senso, oltre l’uomo. Quando si ride si intravede che il mondo è ben più di quello che la nostra aspettativa può supporre, ben oltre a ciò che la nostra conoscenza può abbracciare. Ridere è andare oltre al visibile, ridere è toccare, pure per un solo istante, un più alto ordine di connessione. D’altronde il genio, ovvero la mente estatica e intuitiva, pure nell’immaginario comune, è sempre figurato come un uomo bizzarro, che con i suoi atteggiamenti provocanti suscita il riso. Note al riguardo sono le scene di Einstein trasandato con la lingua di fuori, con i pantaloni aperti e i vestiti stropicciati, o che cammina in malo modo; ma anche un Arthur Schopenhauer che, immerso nei suoi pensieri, si perde nel suo giardino di casa e ferma il postino per chiedergli dove si trovasse; o ancora un Ludwig van Beethoven, così disinteressato al suo aspetto esteriore, che viene finanche arrestato per vagabondaggio e i poliziotti non gli credono quando dice loro di essere Beethoven. E gli esempi sono moltissimi altri, che fanno del genio, dell’artista, del filosofo, uno Spirito che ride, e non solo che ride, ma che fa ridere gli altri.
Lo studioso Dominique Arnould identifica, fra i fattori alla base del comico, tra gli altri, i travestimenti, infine le incongruenze e le contraddizioni logiche. Il filosofo Henri Bergson nel suo saggio Il riso. Saggio sul significato del comico, definisce il riso come qualcosa di vivente che nasce ogni qual volta l’intuito percepisce un contrasto. Il comico viene a porsi in essere quando un elemento, propriamente collocato in un contesto, ed associato pertanto a tutta una serie di altri elementi che questo stesso contesto chiama seco, viene improvvisamente posto fuori, e ri-associato ad altri elementi non propri per sua natura. Si tratta pertanto di una de-associazione e ri-associazione e quando il contesto, dal quale appunto un elemento viene sradicato, per essere re-inserito altrove, è quello umano, e la destinazione finale è l’oltre-umano, abbiamo il riso degli Dei. La comicità è la porta verso il divino in quanto medium fra ordinario e straordinario. Ebbene sì, anche gli Dei ridono. Il riso viene da Dio ed è con Dio, e questo è attestato fin dalla Bibbia:
“Dio mi ha dato di che ridere; chiunque l’udrà riderà con me” (Genesi 21,6).
Ma è soprattutto nel Mito Greco che il riso appare nella sua veste splendente e divina ed è qui che si hanno le maggiori testimonianze del ridere, d’altronde, è il popolo che ha inventato la commedia. Il Dio che ride manifesta il suo distacco dal mondo perché lo guarda dall’alto e ne percepisce la sua pochezza, ovvero la sua dimensione esiziale. Ridere significa ridimensionare, portare cioè a un’altra dimensione. Dobbiamo l’espressione “riso sardonico” ai greci, del termine greco sardónios con il significato di “risata amara” a partire da Omero (Odissea XX, 302). Gli Dei omerici ridono, e forte. Zeus ride di Epimeteo, fratello di Prometeo, che stoltamente riceve e accoglie il vaso di Pandora. Ride Demetra, fin troppo triste dalla perdita di sua figlia Core, quando lo scherzo ravviva il suo cuore:
“finché con i suoi motteggi l’operosa Iambe,/ scherzando continuamente, indusse la Dea veneranda/ a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo cuore” (Inno a Demetra, vv. 197-205).
Sempre in Omero, VIII dell’Odissea, al v. 326, il termine ἄσβεστος qualifica il riso inestinguibile degli Dei quando sanno che Ares viene colto in fragrante adulterio con Afrodite da Efesto e di quest’ultimo l’astuta vendetta:
“inestinguibile riso scoppiò fra i numi beati a vedere la trappola dell’abilissimo Efesto”.
Ma prima ancora di questo episodio sempre Efesto, il Dio zoppo, al banchetto degli Dei, suscita l’ilarità scomposta dei commensali: “inestinguibile riso nacque allora fra i numi beati quando videro Efesto per la sala affannarsi” (Iliade, I, 599-600). Non è certamente casuale che proprio Efesto, il fabbro divino, sia autore del riso e della comicità che lo riguarda, non solo perché è Dio alchimista per definizione, ma è un Dio doppio, celeste e terreste, padrone del Fuoco, quindi della conoscenza. Atena induce il riso nei Proci alla corte di Ulisse (XX dell’Odissea, al v. 346) ulteriore esempio di come sia il Dio a mandare il riso agli uomini. Il Dio Mercurio, il greco Ermete, è un Dio briccone, che ama riassumere in sé connotati contrapposti, maschili e femminili, che equivoca, rovescia, scambia le parti, in altre parole, che suscita il riso, infantile e provocatorio, fa adirare il Dio Apollo rubandogli le vacche, per poi placarlo e farlo sorridere con il suo atteggiamento bizzarro. Il riso è risanatore, monda le colpe, solleva lo spirito, deterge dalla graveolente serietà degli umani. Il comico, e il ridere, sgorgano spesso, se non sempre, da un rovesciamento delle parti, perché è inaspettato e fuori contesto. Nel capolavoro di Euripide Le baccanti Dioniso si presenta alla corte di Penteo in fattezze femminili tanto che Penteo non lo riconosce come il Dio al quale dà la caccia per i disordini provocati alle donne della sua città:
“Lo straniero dall’aspetto femmineo…La sua testa è tutta riccioli d’oro e profumato, lui stesso è rubicondo dal suo viso, e la beatitudine di Afrodite è nei suoi occhi”.
Pure nel Pathos della Tragedia, Euripide non si esime dal determinare scene comiche quando, ad essere parodiato, è lo stesso Re Penteo, che, vuoi con la persuasione, vuoi con l’inganno del Dio, è convinto a vestirsi da donna lui stesso pur con ritrosia e diffidenza:
“Che devo fare? Farmi schiavo delle mie schiave? Da uomo che ero passerò al rango di donna?”.
Dioniso, come recita il meraviglioso passo di Euripide, dice di Penteo che:
“finché sarà in senno, non vorrà indossare un addobbo femminile, se invece esce fuori dal percorso della ragione lo indosserà”.
Ed è proprio questa uscita dalla ragione, ovvero sia l’Ex-Stasi, il fuoriuscire da Sé, che comporta quella Iniziazione, quell’accesso alle cose nascoste, ai segreti del Dio, fino a penetrare “le forme delle cose divine”. Penteo, “lui che femminea veste assunse” che desiderava “vedere le cose proibite”, opera un tale rovesciamento delle cose da indurre lo spettatore al riso, nonché alla partecipazione di un mistero divino. Ma per taluni il riso non solo viene dagli Dei, ma gli Dei stessi vengono dal riso. Secondo il Papiro di Leida, di un anonimo alchimista del III secolo:
“Dal riso di Dio nacquero i sette dèi che governarono il mondo (…) non appena Egli scoppiò a ridere, apparve la luce (…) scoppiò a ridere per la terza volta e fu acqua dappertutto. Alla terza risata apparve Ermes, alla quarta la generazione, alla quinta il destino, alla sesta il tempo”
In sostanza, secondo questa cosmogonia, l’universo intero nasce dal riso. Uno degli elementi più significativi che determinano il comico, e il ridere, è il gioco, attività questa, come è noto, fondamentale nell’infanzia. Il bambino ride tutto il giorno, si meraviglia d’ogni cosa e soprattutto percepisce il mondo come un gioco. Per esso, come per il beato, il mondo viene de-sostanziato, ovvero sgravato del suo peso. Per il bimbo, come per il santo, il mondo non è fatto di cose, ma di avvenimenti, non di oggetti che hanno un peso, ma di apparizioni, ovvero sia è un gioco. Occorre far notare che quando i Veda, e specificatamente le Upanishad vediche, parlano del mondo come illusione non stanno già dicendo che il mondo è falso, bensì che il mondo è un gioco. Illusione infatti è: Ad-Ludum, ciò che è nel gioco. Nelle Upanishad, il Dio Śiva è chiamato il mago e signore dell’illusione. (Svetasvara Upanishad 10) ovvero colui che mette in scena il mondo per poi riassorbirlo. Caratteristiche poi confluite nel Dioniso greco.
Nel Theatron, avveniva la messa in scena dello stesso universo, e quindi l’Essere doveva apparire come una finzione agli occhi del Greco, come una rappresentazione, come uno spettacolo senza una reale e ultima consistenza, perché tutto, come avrebbe detto Esiodo, fu generato dal Χάος (Caos). Ecco che allora il comico non è più una mera attività ricreativa, ma è la messa in scena di un segreto profondissimo, è la riappropriazione di atto metafisico, la rievocazione della leggerezza del mondo. Chi ride, infine, si è affrancato dal peso della materia e dalla gravità delle cose, del suo ruolo, del suo stesso personaggio, per essere multiforme, librato in volo. Chi ride di tutto è simile a un Dio perché tutto, in fondo, è una commedia.
Bibliografia di riferimento:
- Storia del riso e della derisione, di Georges Minois, Editore Dedalo, 2004;
- Gli dèi, il riso e il comico : la rappresentazione del divino nelle fonti litterarie in lingua greca, di Giuliana Ricozzi. Tesi di dottorato, Università degli studi di Pisa, 2019:
- Ridere degli déi, ridere con gli déi – L’umorismo teologico, di Maurizio Bettini, di Massimo Raveri, di Francesco Remotti, Il Mulino, 2000.
Emanuele Franz