Inizialmente questo avrebbe dovuto essere soltanto un breve commento all’interessantissimo dibattito on line svoltosi tra Michele Leone, Giuliana Poli, Mauro Ruggiero e Luca Valentini avente per tema «Dante e la Commedia: esoterismo, mito e simbolo», andato in onda il 24 maggio 2021 [1]. Ma data la vastità del tema e delle sue implicazioni esoterico-simboliche, non necessariamente tutte attendibili ma certamente tutte interessanti, si è inevitabilmente ampliato.
Dante e la Commedia: esoterismo, mito e simbolo – YouTube
Gli animali reali e allegorici (Michele Leone)
Al contributo di Michele Leone sugli animali reali, mitologici e allegorici nella Divina Commedia, tratti da diverse fonti letterarie della cultura classica e medievale, si può aggiungere una terza fonte che forse Dante non conosceva, ma ebbe anch’essa un ruolo relativamente importante nella diffusione dell’iconografia dei mostri nell’Europa dell’«età di mezzo»: il Liber monstrorum de diversis generibus, scritto probabilmente in un monastero d’Irlanda nel VII-VIII secolo; nel 1977 è stato tradotto e commentato con erudizione e umorismo dal prof. Corrado Bologna (Liber Monstrorum de diversis generibus. Libro delle mirabili difformità, Milano, Bompiani) ma ne esiste almeno un’altra traduzione italiana. Sullo stesso argomento ha scritto anche lo storico dell’arte Rudolf Wittkower in Le meraviglie dell’Oriente: una ricerca sulla storia dei mostri, terzo capitolo del suo libro Allegoria e migrazione dei simboli (Torino, Einaudi, 1987) nel quale ripercorre alcune importanti fonti letterarie ed iconografiche, da Plinio il Vecchio a Ulisse Aldrovandi. Tra i nomi grotteschi dei diavoli che Dante e Virgilio incontrano all’Inferno, Michele Leone si è soffermato un momento in più su Alichino (Inferno, XXI, 118; XXII, 112) evidenziando come questo nome possa essere legato a quello di Arlecchino: a questo riguardo si può segnalare un articolo sul blog di Marco Maculotti AXIS Mundi intitolato La masnada di Hellequin: da Wotan a Re Artù, da Herla ad Arlecchino, firmato da Giuditta Failli [2].
Il simbolismo alchimistico (Giuliana Poli)
Tra le moltissime implicazioni più o meno verosimili di cui ha parlato Giuliana Poli, possono essere messe in luce due caratteristiche di quella riguardante i colori delle vesti di Beatrice: il velo bianco, il vestito rosso, il manto verde (Purgatorio, XXX, 31-33). La prima di esse è cristiano-numerologica: è possibile notare che, molto probabilmente non a caso, Dante ha collocato questa apparizione di Beatrice (ancora con il volto velato) al canto 30 e ai versi 31, 32, 33: si ottiene quindi la serie numerica 30-31-32-33, ossia gli anni verosimili dell’età di Gesù Cristo durante la sua predicazione: non sarebbe assurdo se anche in questo modo Dante suggerisse che Beatrice, nel ruolo da lui assegnatole nel poema – sulla base, non va dimenticato, dell’esperienza che di lei ebbe realmente, essendone innamorato – debba essere intesa dai lettori come manifestazione divina che guida alla beatitudine (beatrix), che è salvatrice, quasi una versione femminile del Cristo. La seconda caratteristica – l’interpretazione dei colori delle vesti di Beatrice come possibili metafore delle fasi del processo alchemico – è per chi scrive un argomento meno facile da commentare (almeno nella versione proposta da Giuliana Poli), ma fa pensare a una descrizione presente nel famoso libro del 1926 Il mistero delle Cattedrali, scritto (inizialmente in due volumi) dall’enigmatico autore ed alchimista d’inizio Novecento noto come Fulcanelli, il quale interpretava molti elementi artistici e architettonici delle cattedrali gotiche francesi (di Parigi, di Amiens, di Bourges) e alla loro posizione sugli edifici, come riferimenti alle fasi dell’Opera alchemica: Per esempio, la vetrata [una di quelle della cattedrale di Notre-Dame di Parigi], per l’allegoria della Distillazione ripetuta (primo medaglione), ci presenta non un semplice cavaliere, ma un principe incoronato con una corona d’oro, vestito di bianco, con le calze rosse; dei due bambini che litigano, uno è verde, l’altro grigio-viola; la Regina che getta a terra il Mercurio porta una corona bianca, una camicia verde ed un mantello porpora. [3].
Poco dopo, Fulcanelli accenna ad alcune altre «immagini ormai sparite dalla facciata», tra le quali «quei Gemelli, dello zodiaco inferiore, di cui uno è rubino, e l’altro smeraldo» [4].
Nel Purgatorio dantesco, Beatrice appare a Dante vestita di colori molto simili (veste rossa, velo bianco, manto verde) a quelli della Regina della vetrata di Notre-Dame, anche se non corrispondono precisamente (corona bianca, veste verde, manto porpora). Quando Beatrice ancora ha il volto velato, Dante intuisce comunque che sia proprio lei («d’antico amor sentii la gran potenza… conosco i segni dell’antica fiamma», Purgatorio, XXX, 39; 48). La donna, ormai appartenente alla dimensione sacrale dell’Aldilà, lo rimprovera quasi senza pietà per essersi concesso ad altri amori, sia filosofico-letterari, sia (forse) erotico-sentimentali (le due cose non si escludono a vicenda) dopo la morte di lei. Dante, per la vergogna, china lo sguardo a terra, evitando di guardarsi riflesso nell’acqua del fiume Lete («Gli occhi mi cadder giù nel chiaro fonte, ma veggendomi in esso, i trassi all’erba, tanta vergogna mi gravò la fronte», XXX, 76-78), ma la reprimenda di Beatrice continua – passando intanto al canto successivo, il XXXI – finché Dante ammette la verità dell’accusa di Beatrice; dopodiché, sopraffatto dall’umiliazione e dal rimorso, sviene: «Tanta riconoscenza [della mia colpa] il cor mi morse, ch’io caddi vinto, e quale allor mi feci, salsi colei che la cagion mi porse. Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi…» (XXXI, 88-91). Dante era nato nel segno zodiacale dei Gemelli (probabilmente tra gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno), che nella dottrina astrologica hanno come pianeta tutelare Mercurio, nome latino del dio Ermes, nume tutelare dei viaggi e delle transazioni; Dante è l’homo viator medievale per eccellenza, un viaggiatore oltremondano, che all’inizio scende negli Inferi, cioè visitat interiora terrae, come recita la prima parte dell’acronimo alchimistico VITRIOL, presente nel Liber Azoth, (testo del XV secolo attribuito a Basilio Valentino, forse un monaco tedesco di Erfurt): Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem (visita i recessi interni della Terra, correggendo [te stesso] troverai la Pietra nascosta) [5].
L’episodio del giudizio da parte di Beatrice nel Purgatorio potrebbe quindi essere interpretato come una metafora alchemica parallela a quella di cui parlava Fulcanelli: Beatrice è cromaticamente simile alla regina “tricolore” della vetrata di Notre-Dame, Dante è astrologicamente un Mercurio; Beatrice, con le sue parole taglienti ma veridiche, atterra Dante così come la Regina di Notre-Dame atterra il Mercurio. Non si tratta di un’azione distruttiva, ma necessaria a rigenerarlo spiritualmente: Dante infatti s’immergerà poi nei fiumi dell’oblio dei mali (il Lete) e dell’acquisizione della conoscenza del Bene (l’Eunoè) per accedere al Paradiso. Nel Mistero delle Cattedrali, illustrando gli elementi caratteristici della cattedrale di Bourges e i loro significati ermetici, Fulcanelli parla anche del Mercurio come elemento alchemico associato al viaggiare. Secondo lui, la conchiglia quasi piatta (in francese merelle) che divenne emblematica dei pellegrini e simbolo del pellegrinaggio (ad esempio era riprodotta anche nell’emblema vescovile e poi papale di Joseph Ratzinger, a simboleggiare la vita terrena e l’istituzione della Chiesa come situazioni non definitive, bensì realtà in cammino, in viaggio verso la Meta divina), nella simbologia segreta degli alchimisti indicava anche il «principio Mercurio», detto anche «acqua benedetta dei Filosofi», con significato chiaramente metaforico perché – ricordava – le grandi conchiglie, un tempo, servivano a contenere l’acqua benedetta, e ancora ai suoi tempi (nel 1925) se ne trovavano spesso in molte chiese rurali. Il Mercurio alchemico era chiamato anche Viaggiatore o Pellegrino perché – dice Fulcanelli:
Agli inizi tutti gli alchimisti sono a questo stadio. Devono compiere, col bordone come guida e la «merelle» come distintivo, quel lungo e pericoloso viaggio di cui una metà è terrestre e l’altra metà marittima. Prima pellegrini, poi piloti. [6]
Nello stesso contesto della Commedia è menzionato anche il bordone, cioè il bastone lungo dei pastori e dei pellegrini; concluso il suo “processo”, Beatrice incarica Dante di far conoscere, quando sarà tornato sulla Terra, ciò che ella sa a proposito della conoscenza soprannaturale e divina: se non con le sue esatte parole, almeno in immagini simboliche che dimostrino la sua eccezionale esperienza, così come il pellegrino che torna dalla Terra Santa dimostra di esservi stato mediante le foglie di palma appese al bordone: «… del mio detto, voglio anco, e se non scritto almen dipinto, che ‘l te ne porti dentro a te, per quello che si reca il bordon di palma cinto» (Purgatorio XXXIII, 78).
Quanto all’ambiente del «lungo e pericoloso viaggio», lo schema del globo terracqueo come risulta dalla Divina Commedia appare esattamente bipartito nel modo detto da Fulcanelli: un emisfero terrestre e un emisfero acqueo, coperto dall’immenso Oceano. E Dante fu autore anche della relazione “scientifica” Quaestio de aqua et de terra, che trattava proprio degli spazi occupati dalle acque e dalle terre sul nostro pianeta. Anche Dante si muove prima sulla metà terrestre della Terra (l’Inferno è sotterraneo) e poi sulla metà marittima (il Purgatorio dantesco è un’immensa isola al centro dell’Oceano), ed è solo dal Purgatorio in poi che, oltre ad apparire pellegrino, si presenta indirettamente anche come pilota, nel senso antico del termine, cioè di conducente un’imbarcazione. All’inizio del Purgatorio, non a caso, Dante dice: «Per correr miglior acque alza le vele, omai, la navicella del mio ingegno» (I, 1-2); e nel Paradiso: «O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca…» (II, 1-3). Dante continua quindi a essere pellegrino ma non è più costretto ad scendere giù nei gironi infernali aggrappandosi alle rocce, perciò si rivolge ai lettori come fosse un pilota, un comandante di nave. Tra la figura dell’alchimista e quella del pellegrino che poi diventa guida, Fulcanelli notava dunque analogie importanti, e questo profilo di “viaggiatore ermetico” può assomigliare a Dante.
Il filone di studi allegorico (Mauro Ruggiero)
Mauro Ruggiero ha ricordato il libro di Giuseppe Macaluso Dante, Foscolo, Mazzini (1965) e la sua valutazione della Divina Commedia come un «terzo Testamento» sacro dopo l’Antico e il Nuovo che compongono la Bibbia; analogamente, il critico letterario statunitense Harold Bloom, nel suo celebre studio Il canone occidentale (1994) definì Dante pervaso da un «fervore eretico» e scrisse: «Il suo poema è una profezia, e si propone come un terzo Testamento per nulla ossequioso rispetto all’Antico e al Nuovo», che esalta Beatrice fino al ruolo di «elemento cruciale nella gerarchia della salvezza» [7]. Dell’interpretazione di Arturo Reghini che è stata citata, sembra di poter capire che il Veltro preannunciato da Dante sarebbe non tanto un unico individuo con le qualità di un condottiero incorruttibile, quanto di un tipo umano futuro con le medesime qualità, frutto di una evoluzione automatica oppure dovuta alla conquista (o riconquista) di qualche forma di scienza spirituale: da questo punto di vista, il Veltro potrebbe essere confrontato con l’Übermensch, l’Oltreuomo della filosofia di Friedrich Nietzsche. Soprattutto riguardo alla questione del filone interpretativo esoterico Foscolo – Rossetti – Pascoli – Valli, vale la pena di citare il libro dell’avvocato Giacomo Volpini intitolato Staffarda misteriosa. Risvolti occulti del gotico cistercense, che tratta dell’apparente disorganizzazione presente negli elementi decorativi dell’abbazia piemontese di Santa Maria di Staffarda e di alcune altre fondazioni cistercensi europee che presentano caratteristiche analoghe. Lo studio di Volpini necessita di un riassunto per capire come si collega alla questione di Dante. L’architettura cistercense è apparentemente rozza e disordinata in alcuni casi, apparentemente simmetrica ma irregolare in altri casi: per quale ragione? Perché l’abbazia è lo specchio simbolico del mondo e della Chiesa. Il mondo è apparentemente disordinato perché vi coesistono bene e male, ma è occultamente ordinato perché vi agisce la volontà di Dio. I sensi umani ingannano la mente: per comprendere la Realtà bisogna oltrepassarli per mezzo della ragione e della fede, così come le asimmetrie e le irregolarità delle architetture talvolta sono invisibili all’occhio e si scoprono soltanto misurando gli elementi; talvolta, al contrario, le irregolarità sono evidenti, ma non se ne comprende la ragione. La Chiesa è anch’essa un misto di bene e di male perché vive nel mondo, è santa perché veicola la salvezza rivelata da Dio, ma anche perversa, non soltanto perché composta di persone che peccano, ma anche perché nasconde una “parte” di Dio: dunque si sottintende che Dio non coincida totalmente con la figura presentata dalla Chiesa-istituzione, perché essendo Egli superiore a ogni definizione, eccede tutte le teologie e tutte le strutture umane; e nasconde anche la propria corruzione interna dietro l’apparenza di un ordine esteriore, così come le architetture lasciano “ammiccare” soltanto qua e là alcune disparità e asimmetrie. L’interpretazione riguardante il mondo misto di bene e male sarebbe quella promossa ufficialmente dall’Ordine e accettata dalla Chiesa, per evitare l’accusa di eresia e di sovversione; l’interpretazione relativa alla natura ambigua della Chiesa istituzionale sarebbe invece quella occulta, cioè un messaggio “in codice” sulla corruzione ecclesiastica, criptato in tale modo dai Cistercensi e conosciuto anche dai Cavalieri Templari. Perciò le due interpretazioni delle stranezze architettoniche senza senso apparente sarebbero state, a loro volta, una evidente e accettabile, l’altra segreta in quanto eterodossa, forse implicante richiami alla teologia apofatica o «negativa» – e persino al misticismo islamico – e celata dietro una “facciata intellettuale” apparentemente ordinata secondo i principii della Chiesa cattolica.
In queste architetture sarebbe presente quindi un “testo” di superficie, con un determinato significato pubblicamente condiviso e condivisibile, che però cela un altro “testo” sottostante, che ha un altro significato non pubblicamente condivisibile, appunto come, forse, alcuni brani della Divina Commedia. Volpini dà abbastanza spazio a ipotesi e congetture sul rapporto tra san Bernardo di Clairvaux (l’abate fondatore dell’Ordine Cistercense e figura fondamentale per l’Ordine dei Cavalieri Templari), Dante, l’Ordine Templare e le correnti eterodosse del cristianesimo medievale:
Dopo Virgilio e Beatrice, è l’abate cistercense [Bernardo] che lo [sc. Dante] guida al vertice della grande avventura. […]. Si è detto che con questo personaggio, Dante abbia voluto indicare nella mistica l’ultimo gradino per accedere a Dio. […] Nell’economia di questo lavoro sull’architettura cistercense, però, il sodalizio Dante-Bernardo assume un significato ben più articolato. […] È noto che lo stesso Dante, più volte e precisamente nella Lettera a Cangrande della Scala, nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, precisò che la poesia – si riferiva alla Divina Commedia e poi in generale a tutta la poesia – va letta in diversi significati: letterale, allegorico, morale e anagogico. Egli stesso si sforzò di definirli, ma giunto all’anagogico si limitò a parlare di «sovrasenso» senza volerne spiegare di più. Nessuno ha mai approfondito l’opera di Dante sotto questo aspetto. […] In tempi recenti vi si provò il Foscolo con alcune notazioni pubblicate a Edimburgo nel 1818. Vi si dedicò per tutta la vita Gabriele Rossetti, fuoruscito napoletano del 1821 finito esule a Londra, dove pubblicò la sua opera, tra cui cinque volumi sull’amore platonico nel Medio Evo e in particolare «sullo spirito antipapale che animò la letteratura italiana volgare anticipando la Riforma protestante», edizione Taylor, 1832. [8].
Nell’aggiunta finale alla seconda edizione di Staffarda misteriosa, Volpini aggiunge che Gabriele Rossetti «ebbe modo di fermarsi per qualche tempo a Malta quando era proscritto dalla Napoli borbonica della restaurazione seguita ai moti liberali del 1821, e finì poi in Inghilterra, dove sposò una inglese ed ebbe una illustre prole che diede vita alla scuola figurativa dei preraffaelliti» [9]. Il Gabriele Rossetti che diede il via a questo ambito di studi sul Dante esoterico non fu dunque il pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, fratello della poetessa Christina Rossetti, ma il loro padre. Secondo Rossetti senior – prosegue Volpini,
Dante era il capo di una estesa consorteria di intellettuali che segretamente corrispondevano tra loro con versi e lettere scritte in codice, in modo cioè che il testo avesse un significato apparente ed innocuo e uno più recondito. Quello simulato è quello giunto sino a noi e su cui si sono affaticati i critici. Accade così che talora il senso apparente sembri piacevole e chiaro, e talora contorto e oscuro. […] Nel 1921 il Croce, tornando al Rossetti, definiva la sua una curiosità storica che, se valida, avrebbe svelato «un Dante poco sano in una regione del cervello». Nel 1928 però, il critico abruzzese virava energicamente, ammettendo che «il dolce stil novo non fu intrinsecamente poesia, sebbene una moda erotico-religioso-scolastica adatta ai tempi in cui sorse» e riconoscendo «che poi questa moda servisse a comunicazioni criptografiche, ben può darsi». Ma come mai il nostro aveva mutato idea?
Gli è che nel 1924 Luigi Valli aveva pubblicato uno studio, ben più affilato dal punto di vista filologico e documentale, dal titolo Dante e i Fedeli d’amore. In quest’opera […] veniva chiarito in modo estremamente stimolante il mistero del linguaggio del dolce stil novo come linguaggio criptografico, proponendosi l’autore di proseguire ulteriormente anche nei confronti dell’opera principale di Dante [10].
Volpini ricorda anche quello che definisce «un increscioso incidente», scoperto e raccontato da Giosuè Carducci, «che ha nuociuto oltre misura alla fortuna di questa corrente critica»:
L’Aroux, poco simpatico critico francese, dopo avere avuto in lettura il manoscritto di un saggio su Beatrice del Rossetti, che ingenuamente glielo aveva inviato perché ne curasse una edizione francese, se ne impadronì pubblicandone una versione distorta, dal titolo Dante eretique et socialiste. Il manoscritto, mai restituito, fu trovato casualmente da uno dei figli del Rossetti a Parigi nel 1900. […] Chi scrive pensa che questo plagio […] abbia rovinato la reputazione di chiunque avesse lavorato in questa direzione, e soprattutto degli studi effettuati. […] Si può credere o no a questa versione. Chi scrive è convinto che la intuizione del Foscolo, del Rossetti, del Perez, del Pascoli, del Valli, sia valida. È certo però che il metodo di indagine, non del tutto ancora elaborato, richieda rigorose verifiche e controlli. [11]
Si può quindi concordare con le parole di Volpini sull’importanza di approfondire ancora l’aspetto esoterico della vita e dell’opera di Dante, compreso il rapporto, presunto ma molto probabile, tra il poeta e l’Ordine Templare:
In tutto il periodo che accompagna il fiorire della Scuola siciliana e del Dolce stil novo, buona parte degli ambienti intellettuali italiani viene coinvolto in una aspra polemica antiecclesiastica. In essa confluiscono motivi politici filo-ghibellini e motivi di ispirazione più propriamente neoplatonica, tutt’altro che ortodossi. Alcuni di questi personaggi furono trascinati in gravi processi inquisitorii, altri sospettati di eresia, altri ancora perseguitati come ghibellini tout court. Dante fu uno dei personaggi più eminenti di questo mondo sotterraneo, ma di altissimo livello. La sua poesia sarebbe profondamente intrisa di questa vicenda. […]
Nel corso del 1989 la casa editrice Hoepli ha pubblicato un importantissimo lavoro del Padre Robert L. John dal titolo: Dante Templare. […] Il reverendo Robert John era ordinario di Letterature romanze all’università di Vienna ed è morto nel 1981. Vale la pena di notare che il testo pubblicato è la ristampa di un’opera già pubblicata nel 1946 con l’autorizzazione dell’Autorità Ecclesiastica, che uscì con l’innocuo titolo: Dante. In questo lavoro l’autore affronta, con larga messe di riferimenti storici e documentali indiscutibili, lo spinoso argomento, cominciando col ritrovare nella produzione dantesca i riferimenti al grande evento che si concluse con il rogo di Jacques de Molay [il noto ultimo Gran Maestro dei Templari] a Parigi nel 1314, al quale certi biografi dicono abbia assistito Dante personalmente. E le citazioni che confermano l’acredine del Poeta contro il papa Clemente V e Filippo il Bello sono fin troppo note: la Lettera ai cardinali per l’elezione di Arrigo VII quale imperatore, con il brusco richiamo ai loro compiti spirituali; gli attacchi contro Clemente V, regista del tristissimo Concilio di Vienne nel quale l’Ordine Templare venne condannato; la contemporanea condanna del complice Filippo il Bello, e molte altre sorprendenti analogie e richiami. […] In sostanza il libro del reverendo John, che non ha suscitato alcuna seria attenzione, ha il merito, a mio avviso, di risollevare e porre su basi del tutto originali e documentatissime, la vecchia diatriba su Dante che oggi meno che mai può dirsi superata […].
La complessa montatura del cosiddetto “processo” ai Templari ebbe, come si sa, radicale esecuzione solo in Francia. Nel resto d’Europa, Italia compresa, portò a pochi processi dai quali alcuni Templari furono addirittura assolti. La struttura organizzativa templare non andò distrutta, e gran parte degli stessi [loro] beni confluì nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni, divenuto poi Ordine di Malta. Vi è quasi la certezza che una documentazione rilevantissima sia stata prelevata dalle autorità inglesi che successero ai Cavalieri nell’occupazione e nel controllo di Malta nel 1802. Non mi nascondo quali delicati problemi susciterebbe la loro divulgazione, ma penso anche che i tempi siano ormai maturi. […] Il caso Dante Alighieri va riaperto, anche se ciò comporterà la revisione critica di sei o sette secoli di saggistica. Dante, Templari e Cistercensi non sono che sfaccettature del poliedrico enigma Medioevo. [12]
Uno degli episodi della Commedia dai quali può infatti emergere la mentalità filo-templare di Dante è quello dell’incontro con Manfredi re di Sicilia, figlio illegittimo dell’imperatore Federico II di Svevia e oggetto della scomunica “politica” di papa Innocenzo IV nel 1254. Manfredi pose l’Ordine Templare sotto la propria protezione nel 1262 [13], ed è noto come Dante, nel Purgatorio (canto III) presenti Manfredi come un principe giusto davanti a Dio, sebbene scomunicato dal papa.
Un altro indizio, forse anche più importante una volta che sia “decodificato”, potrebbe essere indicato dai celeberrimi, e variamente interpretati, versi iniziali del canto VII dell’Inferno, «Papè Satan, Papè Satan aleppe»: lo scrivente ne ha tentato un’esegesi leggibile on line [14], citata in parte anche da Mirco Cittadini nel suo blog Nel labirinto della Commedia [15]. Il loro significato, in sostanza, sarebbe: «Il Papa è il nemico, il Papa è il primo nemico», riferito a Clemente V, che accondiscendendo ai desideri del re francese Filippo IV il Bello, decretò venerdì 13 ottobre 1307 l’arresto dei Cavalieri Templari e nel 1312 la soppressione dell’Ordine. Esiste pure la possibilità (ad oggi non accertata) che Dante Alighieri sia stato presente a Parigi tra il 1306 e il 1310, cioè nel pieno periodo del processo ai Templari: quindi, ammesso che non si fosse recato lì proprio perché era già in contatto con l’Ordine, è molto probabile che comunque ne abbia sentito parlare o ne abbia incontrato qualcuno lui stesso.
Inoltre, nel XIII secolo l’Ordine Templare, dotato di grandi ricchezze in denaro, aveva finanziato i Guelfi contro i Ghibellini proprio nell’Italia centrale [16], e alla fazione bianca dei Guelfi era appartenuto Dante Alighieri. Un importante segno di questa presenza templare non lontana dalla patria di Dante, è la chiesa di San Bevignate a Perugia, fondata dai Templari ed edificata tra il 1256 e il 1262, conclusa perciò soli tre anni prima che nascesse Dante. Essa è alta 27 metri e contiene un affresco in cui compaiono tre croci con intorno nove stelle [17]. Ventisette è il prodotto di 9 (numero delle stelle) per 3 (numero delle croci); la Vita nuova di Dante è scandita dal numero 9, e la Divina Commedia ha tre cantiche, ognuna delle quali si conclude con la parola «stelle».
Note
[1] Visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=YHWWtpMsPaQ.
[2] Giuditta Failli, La masnada di Hellequin: da Wotan a Re Artù, da Herla ad Arlecchino, https://axismundi.blog/2018/04/25/la-masnada-di-hellequin-da-wotan-a-re-artu-da-herla-ad-arlecchino/.
[3] Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, pp. 106-107.
[4] Il mistero delle Cattedrali, cit., p. 107.
[5] Cfr. ad es. Serge Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, Milano, Fabbri Editori – RCS Libri, 1998 (ed. or. Paris, Hachette, 1977) pp. 91, 157-158.
[6] Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, cit., p. 145.
[7] Citato in Guido Armellini, Adriano Colombo, La letteratura italiana, vol. 1, Duecento e Trecento, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 364.
[8] Giacomo Volpini, Staffarda misteriosa. Risvolti occulti del Gotico cistercense, Torino, L’Ariete, terza edizione 1997, pp. 113-115.
[9] Ibidem, p. 152.
[10] Ibidem, pp. 113-115.
[11] Ibidem, pp. 123-124.
[12] Ibidem, pp. 116, 150-153. In realtà, l’anno dell’edizione Hoepli di Dante templare: una nuova interpretazione della Commedia, è il 1987.
[13] Malcolm Barber, La storia dei Templari, Casale Monferrato, Piemme, 2004, p. 207.
[14] Piervittorio Formichetti, Papè Satan, Papè Satan aleppe: Dante templare contro l’Anticristo francese?, https://www.academia.edu/33000682/Papè_Satan_Papè_Satan_aleppe._Dante_Templare_contro_lAnticristo_francese.
[15] Mirco Cittadini, 100 perle – Papè Satan, Papè Satan aleppe (Inf. VII), https://nellabirintodellacommedia.wordpress.com/2020/06/09/100-perle-pape-satan-pape-satan-aleppe-if-vii/ .
[16] Barber, La storia dei Templari, cit., p. 317.
[17] Ibidem, p. 235.
Piervittorio Formichetti