La filosofia di Massimo Donà è pensiero sorto da un confronto serrato, critico, appassionato con i grandi snodi teorici della speculazione europea. Momento dirimente delle sue riflessioni va individuato nel venire a ferri corti con Hegel, o meglio con la vulgata esegetica che fa del grande tedesco il capo-scuola dello storicismo, latore di un dialettismo positivo e conciliativo.
E’ il cuore stesso del “concetto” hegeliano ad essere problematico e, nelle sue contraddizioni, l’autore si insinua, memore della lezione gentiliana, esposta sul negativo e centrata sulla consapevolezza che: «la vita di ogni realtà finita sia (è) la sua morte» (p. 21). Nonostante tale intuizione, l’attualista non si liberò dal teleologismo storico, il che rende tanto più necessaria la riscoperta dell’implicito, del “segreto esposto in evidenza” proprio del pensiero di Hegel. Donà, allo scopo, mette in discussione i concetti hegeliani di “superamento” e “temporalità”. Egli entra nel vivo delle “aporie” dell’hegelismo e chiarisce come tale posizione teorica non sia così distante da quella di Schelling. In Hegel si dà la: «Krisis radicale del tempo cronologicamente inteso […] che sta a dire il suo (del tempo) esser già da sempre tolto» (p. 23). Per giungere a tanto, l’autore sviluppa le proprie argomentazioni nei tre capitoli iniziali: nel primo, mirato a discutere la dialettica, pone a confronto le posizioni dell’idealista e quelle di Adorno. Ne emerge un: «disincantato ripensamento di tale quaestio» (p. 24), che conduce a una differente determinazione della dialetticità, non più mirata, sic et simpliciter, alla “conciliazione”, ma aperta all’emersione del “negativo”.
Nel secondo viene presentato il rapporto Hegel-Kant alla luce di una radicale revisione della lettura hegeliana della prova ontologica di Anselmo. Anche in questo caso, ad essere messe in discussione sono le sbrigative conclusioni cui la storiografia “ufficiale” è giunta in tema: la filosofia hegeliana, in genere, è ridotta a soluzione dell’aporetica relativa al noumeno, quando, al contrario, l’hegelismo tenta di sottrarsi alla dualità fenomeno-noumeno. Chiave di volta dell’intero volume è rappresentato dal terzo capitolo. Nelle sue pagine, Donà si confronta con il problema del tempo: «inteso come quella modalità rivelativa della dialettica dell’Assoluto, in cui quest’ultimo custodisce la sua originaria possibilità ek-sistenziale» (p. 25). Il confronto essenziale è con Agostino e il libro XI delle Confessioni. La temporalità agostiniana rappresenta, a dire dell’autore, un’anticipazione della concettualizzazione del divenire dell’idealista. Una temporalità: «che tanto in Agostino quanto in Hegel funge da perfetta icona dell’Assoluto» (p. 25). E’ qui che l’esegesi di Donà va ben oltre i confini critici già guadagnati dall’attualismo e, sulla scorta dell’esemplare lezione di Andrea Emo, rileva come tale Assoluto non sovrasti gli individui ma: «E’ anzi a essi interno, intimo, più ancora che loro a sé medesimi» (p. 156, Vitiello). A riguardo, chiosa Donà: «solo in un “uno”, l’Uno, l’assolutamente semplice, può abitare; tutto in esso» (p. 157). Quest’Uno, nulla di ente, ni-ente, subjektum , è stigma, anima di ogni presenza e “positività”. L’Hegel di Donà, quindi, è prossimo alla Via ermetica, come si evince dal penultimo capitolo della seconda parte. L’autore ritiene che il rapporto Hegel-Ermetismo abbia, comunque, tratto “problematico”: il “vero” hegeliano, infatti, si dà in forma razionale. Ciò implica la permanenza nel tedesco di un residuo soggettivista. Inoltre, il “ricordato” hegeliano, ciò verso cui si torna, è: «quello stesso che non avrebbe mai abbandonato nessuna delle sue manifestazioni specifiche» (p. 317). Ne consegue che: «il circolo dei circoli tematizzato dal padre dell’idealismo dice una circolarità già da sempre compiuta, rispetto alla quale nessun passo avanti potrebbe in alcun modo contribuire alla sua manifestazione» (p. 319). Hegel, con la dialettica, sancisce il primato del tutto sulla parte, alla sua unità originaria manca il tratto böhemiano ed ermetico, di meta da ri-conquistare. Il presupposto panlogista, il Dio originario, non può affatto precedere temporalmente il proprio sviluppo logico ed esistenziale. Solo alla fine del processo il cominciamento si ritrova nel suo “prima”.
Eppure, rileva Donà, il cominciamento: «viene fatto cominciare» (p. 325). Da che cosa? Da una “forza” che lo induce a negarsi: è il fondamento in-fondato, la potenza del nulla, intuita da Leopardi, ad animare il positivo. L’astratto (il cominciamento) viene dominato da un concreto che gli impone di negarsi e di svolgersi dialetticamente in vista della conclusione riappropriante. Tale dialettismo sì, è prossimo a quello che si era manifestato nelle relazioni Dio-Mondo dell’ermetismo. Hegel non può sottrarsi al pensiero di un Dio trascendente ma, pur sempre, implicato nel mondo. Donà accompagna il lettore all’interno della Logica dell’essere, che sancisce l’originaria co-appartenenza di essere e nulla. Infatti: «solo il nulla riesce a costituirsi come un altro […] che non è altro» (p. 331), in quanto è ni-ente. Il nulla è sintonico all’Assoluto ermetico, tematizzato nei Sermoni di Eckhart. Per questa ragione ogni presenza, nella trasfigurazione della sua positività, è perfetta immagine di totalità, immagine iconoclasta. Tale l’Hegel “segreto” di Donà.
Giovanni Sessa