Dopo aver parlato – in due articoli pubblicati su “EreticaMente” nel 2014 e nel 2020 – dei rapporti fra Disney e Mussolini, fra Disney e il Fascismo (ma su questi punti il discorso non è ancora concluso e prossimamente torneremo “in zona”), è venuto il momento di affrontare un argomento sicuramente più complesso. Cosa successe al cartooning disneyano in Germania negli anni del Terzo Reich? Come si posero Disney e i suoi collaboratori nei confronti della Germania nazionalsocialista? Quali elementi di contatto possono essere trovati (senza troppe forzature) fra la “visione del mondo” nazionalsocialista e quella di Walt Disney? Come si rapportavano gli alti dirigenti del Nazionalsocialismo tedesco di fronte a Walt Disney e alle sue creazioni? Impossibile rispondere in maniera esaustiva a queste domande in un unico intervento, che dunque va letto come una sorta di “introduzione” al tema, uno stimolo per il sottoscritto e per i lettori ad approfondire la questione; com’era accaduto per i nostri saggi su Walt & Benito, anche questo è dunque un “lavoro in corso”, nonostante i mesi di appassionata ricerca che sono stati necessari al sottoscritto per pubblicare Mickey Mouse e Micky Maus. Sentiremo molte voci, captate iniziando dai contemporanei delle vicende di cui andremo parlando, fino ad arrivare alle riflessioni su carta e in Rete partorite ai giorni nostri. Molte notizie, soprattutto a partire dal Duemila, si ripetono in maniera quasi identica nelle fonti, e abbiamo dunque fatto una necessaria scelta nel riportarle, optando per quelle da noi ritenute più significative.
Ci siamo dati un limite, occupandoci di quegli aspetti dell’ottica disneyana che coinvolgono il tradizionalismo, la coscienza identitaria, l’avversione per l’usura e il conservatorismo-rivoluzionario – aspetti che potrebbero avvicinare il cineasta all’universo nazionalsocialista; ma quando il tradizionalismo di Disney sconfina nell’esoterismo (e anche qui siamo in “mondi vicini”, almeno secondo alcuni commentatori e storici) ci siamo fermati. Riserveremo infatti all’esoterismo disneyano e al Disney “iniziato” un nostro futuro (molto futuro?) intervento.
Dobbiamo molto, in quanto a fonti (primarie, che evocano altre fonti, in una sorta di successione virtualmente infinita di rimandi e, soprattutto, di “doppioni”), al lavoro del maggior esperto disneyano tedesco, Carsten Laqua, con il suo fondamentale Wie Micky unter die Nazis fiel: Walt Disney und Deutschland (1992), e alla saggistica sul “Disney politico” condensata in Italia nei suoi volumi Camerata Topolino (2001) e in Paperino reazionario (2017) dallo storico Alessandro Barbera che, come il sottoscritto, ha collaborato alla monografia su Walt Disney pubblicata sul n. 10 di “Antarès” del 2015 (altra importante “fonte di fonti”). Seppur in senso negativo, imprescindibile è anche il lavoro di Marc Eliot Walt Disney: Hollywood’s Dark Prince del 1993.
La Biancaneve di Goebbels: Disney nel Terzo Reich
I cartoni animati di Topolino, che debuttarono negli Stati Uniti alla fine del 1928, decretando la fine del film muto, ebbero rilevanza internazionale a partire dall’anno successivo; negli anni Trenta in Germania (come nel resto del mondo) furono un successo strepitoso, preceduti già nel 1929 da una serie di giocattoli in latta che riproducevano (pur non avendo la licenza) le fattezze della creatura di Disney. A partire dal 1930 i cortometraggi topolineschi erano sulla bocca di tutti e diventarono ben presto di gran voga, trasformando Mickey Mouse da semplice “eroe” del grande schermo, a rivale diretto delle altre stelle dello spettacolo hollywoodiane e infine in un’icona moderna.
Già: un’icona… Per il 40° anniversario di Mickey Mouse, che cadeva nel 1968, lo scultore americano del Missouri Ernest Tino Trova produsse alcuni oggetti d’arte a tiratura limitata incentrati sulla figura di Topolino e pronunciò una frase destinata a essere ripetuta in (quasi) tutta la saggistica disneyana da quel momento in poi:
For the sheer power of the graphics, Mickey Mouse is rivaled only by the Coca-Cola trademark and the swastika.
Alberto Becattini e Leonardo Gori, nell’articolo intitolato Il Topo che voleva emulare Lindbergh (pubblicato su “Exploit Comics” n. 45, dicembre 1988), tradussero così la celeberrima citazione:
Per puro potere grafico Mickey Mouse può essere equiparato solo al marchio della Coca Cola o alla svastica.
Quello che quasi nessuno ricorda è che E. T. Trova era in contatto epistolare con Ezra Pound negli anni in cui il grande poeta e filosofo americano era rinchiuso, come malato di mente (in realtà come prigioniero politico), al St. Elizabeths Hospital di Washington; Trova dipinse anche un quadro avente come soggetto il pensatore Ezra Pound.
Quel Topo pioniere del film sonoro strabiliava chiunque lo andasse a vedere – e stupiva soprattutto gli adulti, arrivando fin da subito a condizionare persino la cinematografia “tradizionale”, quella con gli attori in carne e ossa. Lo spiega bene Laqua in un illuminante passaggio del suo libro Wie Micky unter die Nazis fiel: Walt Disney und Deutschland (1992):
Già nel 1930, i lungometraggi mostravano quanto fosse presente Topolino nella vita quotidiana tedesca. In “Wer nimmt die Liebe ernst?” (1930) di Erich Engel, una Micky-Maus-Haus può essere vista in una sequenza ambientata al Luna-Park: probabilmente era un piccolo cinema in cui venivano proiettati i film di Topolino. Il Luna-Park, che era servito da ospedale militare durante la prima guerra mondiale, era un’enorme area di divertimento a Berlin-Halensee. In “Die vom Rummelplatz” (1930), Anny Ondra interpretò alcune scene in un costume di Topolino; in Austria questo fu un motivo sufficiente per far uscire il film con il titolo “Das Micky-Maus-Girl”. Nel famoso film “M” di Fritz Lang (1931), l’ispettore, in cerca dell’assassino dei bambini, entra in una pasticceria decorata con immagini di Topolino.
Anny Ondra sarebbe diventata una delle più importanti attrici del Terzo Reich, amica personale di Josepg Goebbels, come vedremo più avanti. Laqua continua:
La programmazione di cortometraggi della Südfilm AG, iniziata nel maggio 1931 con il cartellone intitolato “Micky das Tonfim-Wunder”, diede al Reich tedesco il suo primo boom di Topolino. All’improvviso divenne chic presentarsi con Topolino. L’attrice Olga Chekhova si fece fotografare con un pupazzo di Topolino, la star automobilistica tedesca Caracciola posò con un Topolino di latta della Ideal-Films dopo la sua vittoria al Gran Premio d’Irlanda a Dublino e, secondo il “Süd-Film-Magazin”, “otto allegre ragazze di Amburgo hanno fondato un Club femminile di Topolino”.
La passione per Mickey Mouse cresce in Germania nel 1931 e nel 1932, varcando i confini strettamente disneyani. Sempre secondo Laqua:
Nel 1931 “Micky Mouse – Ein lustiges Filmbildbuch” fu pubblicato dalla Man Verlag a Berlino. Questo libro in formato orizzontale curato da Paul Block e Karl Ritter è probabilmente la prima pubblicazione Disney indipendente in tedesco. Lungo 72 pagine presenta i fotogrammi tratti dai film distribuiti dalla Südfilm AG “Im Tiervarieté” e “Micky, der fidele Bauer”. Sotto le immagini c’erano le immancabili rime in tedesco, scritte da un certo Karl Feller. Secondo la copertina, questo doveva essere il “primo volume”. Tuttavia, poiché nessun altro numero è stato mai scovato nemmeno dai più attivi collezionisti di fumetti tedeschi, si tratta molto probabilmente dell’unica pubblicazione di questo tipo. Si possono trovare anche le strisce a fumetti della Disney, apparse negli Stati Uniti nei supplementi a fumetti dei quotidiani, e parzialmente riprodotte sulla stampa tedesca degli anni Trenta. Particolarmente interessanti sono le cosiddette “riviste per la clientela” (giveaways), distribuite gratuitamente da varie ditte e marchi. Quelle destinate ai bambini contengono un colorato mix di racconti, puzzle, giochi e persino fumetti. Portavano impresso sulla copertina il timbro del negozio che le distribuiva. Riviste come “Kiebitz”, “Der Papagei” e “Schmetterlin” inclusero, tra le altre cose, fumetti con Biancaneve, Topolino e anche Paperino – nella sua prima apparizione nei panni di Emmerich der Enterich in un adattamento del cartone “The Wise Little Hen”. Nel 1932 sulle riviste “UHU” e “Der Ansporn” apparvero lunghi articoli su Walt Disney. Con titoli come “C’era una volta un disegnatore…”, questi pezzi dedicati al lavoro nei Disney Studios furono ripresi da numerosi giornali.
Le leggende sulla realizzazione di Topolino e dei film Disney furono rimasticate più e più volte dalla stampa tedesca. Un’altra variante del boom disneyano furono i dischi, disponibili nei negozi tedeschi a partire dal maggio 1930. Oltre alle versioni originali, c’erano anche registrazioni di orchestre tedesche e nuove composizioni che non avevano nulla a che fare con la musica dei film Disney. Veniva solo sfruttata la popolarità del Topo disneyano, con titoli come “Micky Maus im Lunapark” o “Micky als Jazzkönig”. La musica e il movimento giocavano un ruolo importante nei primi film di Topolino, quindi non c’è da meravigliarsi che anche alcuni Topolino e Minnie in carne e ossa salissero sul palco con grande successo. Avere una panoramica completa di quali attori tedeschi di cabaret interpretarono e usarono i personaggi della Disney è quasi impossibile oggi. Come esempio tra gli innumerevoli altri, vorrei menzionare una famiglia di artisti dello spettacolo, gli Schichtl, che vagò per il paese con i burattini di “Topolino” all’inizio degli anni ’30. Esistono poche foto o documenti di queste esibizioni, a meno che non si fossero tenute nelle città maggiori. Nel 1931, ad esempio, attori in costume di Topolino e Minnie recitarono allo Scala, un popolare locale berlinese specializzato in spettacoli di varietà. Nello stesso anno, nel luogo di intrattenimento più famoso di Amburgo sulla Reeperbahn, l’Alkazar, fu messa in scena una rivista di danza con costumi di Topolino, e nel febbraio del 1932 la balera Resi pubblicizzò il suo balletto “Mäuschen-Ball” (“Il ballo del topolino”) sul “Berliner Lokalanzeiger”, con una Minnie dalle curiose gambe sottili.
All’inizio l’animazione disneyana non venne però ben accolta negli ambienti della NSDAP. Come riportato da Laqua nel suo saggio, l’organo del partito della regione Pomerania, “Die Diktatur”, pubblicò il seguente intervento, intitolato Lo scandalo di Topolino:
Giovani di città, tedeschi, biondi e dallo spirito libero, caduti nelle grinfie degli ebrei delle finanze. Gioventù, dov’è finita la tua autostima? Topolino è l’ideale più squallido e disgraziato che sia mai stato inventato. (…) Un sano sentimento in realtà dovrebbe suggerire a ogni ragazza perbene e a ogni ragazzo onesto che il topo, questo sporco e lurido parassita, il grande portatore di batteri del regno animale, non può essere trasformato nel tipo di animale ideale. Non abbiamo di meglio da fare che adornare i nostri vestiti con una bestia sporca perché gli ebrei affaristi americani vogliono guadagnare altri soldi? Basta con l’instupidimento causato dai giudei! Fuori i parassiti! Abbasso Topolino, indossa piuttosto il simbolo della svastica!
Il riferimento del giornale della Pomerania è alle spille con l’immagine di Topolino che venivano distribuite dai cinema che proiettavano i cartoni animati a scopi pubblicitari e che venivano applicate al bavero da giovani e meno giovani: i redattori del “Diktarur” non potevano immaginare che alcuni decenni dopo i due simboli – la silhouette di Topolino e la svastica – sarebbero stati associati in un unico “ideale grafico” da Ernest T. Trova!
Questo pezzo ebbe nel dopoguerra un’eco globale e viene continuamente citato, anche oggi, come l’esempio lampante dell’odio nei confronti della produzione disneyana da parte dei Nazionalsocialisti; come vedremo, siamo molto lontani dalla realtà storica. Una parte dell’articolo fu ripresa anche dal fumettista americano Art Spiegelman come epigrafe al suo Maus (1980-1991), che, nonostante i pesanti orpelli politici, rimane uno dei capolavori assoluti dell’intero fumetto del dopoguerra, soprattutto per quanto riguarda l’uso potente del linguaggio-fumetto; questo riferimento di Spiegelman al “Die Diktatur” portò qualcuno ad affermare che Topolino non fosse altro che una caricatura dell’ebreo, che spesso veniva identificato col ratto infestante.
Persino Disney in persona cadde nel tranello della cattiva interpretazione di quell’articolo, di cui fu sicuramente messo a conoscenza in qualche anno imprecisato fra il 1935 e il 1947; in un CD allegato al libro Disney, tesori e ricordi di Robert Fieman (uscito in Italia per le Edizioni White Star nel 2005) c’è una registrazione del 13 ottobre 1947 dove è lo stesso Disney a parlare. Dopo aver accennato alla medaglia speciale della Società delle Nazioni (che ricevette a Parigi nel 1935) dice:
Topolino mandò su tutte le furie Hitler, che vietò in modo assoluto alla sua gente di indossare sul bavero la spilla di Topolino, che all’epoca era popolare, al posto della svastica.
Ma Hitler non vietò un bel nulla: si trattava solo di un articolo di un giornale politico di provincia, che però – quanto casualmente non sappiamo – divenne di dominio pubblico nel mondo anglosassone!
Nel 1968 Richard Schickel, nel suo saggio The Disney Version (Simon & Schuster, 1968), scrisse, con riferimento a “Die Diktatur”:
I propagandisti di Hitler avevano detto che il Topo “era l’ideale più miserevole a cui rifarsi perché i topi sono sporchi”. (…) Nel 1937 il Topo era diventato una sorta di figura politica. Hitler, la cui rabbia si era scatenata perché in uno dei cartoni di Topolino alcuni dei suoi amici animali apparivano con l’uniforme della cavalleria tedesca, disonorando le tradizioni militari della nazione, fu costretto, dall’entusiasmo popolare, a reintrodurre nel paese Michael Maus, com’era conosciuto in Germania”.
Si tratta di un fraintendimento. Infatti, come scrive chiaramente Laqua:
Il film “Micky im Schützengraben” (“The Barnyard Battle”), che la Südfilm AG aveva sottoposto all’esame (della Commissione di Controllo Cinematografico) nel giugno 1930, non fu approvato per la proiezione pubblica nel Reich tedesco.
Questo perché – rifacendosi Disney per questa “battaglia fra animali del cortile” alla Prima Guerra Mondiale – i “buoni” erano raffigurati con una divisa che poteva ricordare quella francese, mentre i cattivi indossavano l’elmo di foggia germanica. Il film fu dunque tagliato e le scene più “sensibili” furono rimosse. Niente di più. Come spiega Laqua:
Alla fine, tuttavia, la decisione su “Micky im Schützengraben” è rimasta l’unico caso di aperta censura di un film Disney in Germania.
Unico caso di aperta censura, anche durante il Terzo Reich. Hitler, dunque, a dispetto di quanto affermò Schickel nel 1968, non c’entrava assolutamente nulla in questa vicenda.
Alla fine del 1933 (dopo un anno e mezzo senza che nuovi cartoni animati arrivassero in Germania) la Disney, tramite la United Artists (che da Parigi diresse tutta l’operazione), cambiò il distributore tedesco dei suoi film d’animazione: dalla Südfilm AG, che era fallita, si passò alla celebre UFA (Universum Film Aktiengesellschaft), che apparteneva al Gruppo Hugenberg. Si partì con un cartellone di dieci titoli. Come spiega Laqua:
Tra l’inizio di febbraio e la metà di marzo 1934 tutto andò a buon fine e i dieci film Disney superarono la censura senza alcuna lamentela. Secondo l’infelice tradizione della Südfilm AG, apparirono come i loro predecessori con titoli tedeschi. Così, per esempio, “The Whoopee Party” (“Una festa scatenata” in Italia) diventò “Das Große Micky-Mäuschen-Fest” (“La grande festa di Topolino”). I tre film “Die Vöglein im Walde”, “Hänsel und Gretel im Zauberwald” e “In del Werkstatt des Wihnachtsmannes” furono immediatamente riconosciuti dalla “Kammer für Filmvertung” come “artisticamente preziosi”.
Ma Roy Disney, fratello di Walt, non vide mai di buon occhio questo nuovo accordo, tanto che nel corso di quello stesso anno (a settembre) i film di Topolino si trovarono un nuovo, ulteriore distributore tedesco, la Bavaria Film, con sede a Monaco; continuarono però a circolare nei cinema i film i cui diritti di noleggio erano stati precedentemente acquisiti dalla UFA. Laqua spiega che:
I film che la Bavaria ricevette dalla United Artists venivano tutti – con l’eccezione di tre vecchie “Silly Symphonies” in bianco e nero – dalla nuova produzione Disney. Tra questi c’erano veri e propri colpi di genio come “I tre porcellini”, con la famosa canzone “Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?” (“Chi ha paura del lupo cattivo?”), o la Silly “The Wise Little Hen”, in cui apparve per la prima volta il personaggio di maggior successo dei cartoni animati: Paperino.
Poi Laqua, in merito a un problema di censura, si addentra in una singolare congettura:
Un titolo, tuttavia, dovette essere sostituito. Il film di Topolino “The Mad Doctor” era stato rifiutato dalla censura tedesca. Fu sostituito dalla United Artists con “Playful Pluto”. Così, dopo “The Barnyard Battle”, “The Mad Doctor” fu il secondo film Disney a cadere vittima dello “spirito del tempo” in Germania. La probabile ragione di ciò diventa chiara se si vede il film: in “The Mad Doctor”, uno scienziato pazzo prova a incrociare il cane Pluto con una gallina. Dal pubblico poteva essere inteso come una parodia della politica razziale di Hitler. Forse, però, il motivo era molto più banale. Anche in Romania, “The Mad Doctor” fu censurato. Motivo: i film di Topolino sono pensati per i bambini, e questi potevano essere spaventati dagli scheletri danzanti presenti nel film. Il motivo della censura doveva essere proprio il tentativo di incrocio da parte dello scienziato pazzo, in base alla “Lichtspielgesetz” (Legge sul cinema) del 16 febbraio 1934. Oltre ai motivi del divieto già citato c’era inoltre la “violazione dei sentimenti nazionalsocialisti”.
Sicuramente è buono il primo motivo: The Mad Doctor, con le sue incredibili atmosfere gotiche, sembra piuttosto un film horror che un cartone animato di Mickey Mouse! Addurre motivi “razziali” per l’eliminazione di questo titolo (ritenuto dalla mentalità dell’epoca non adatto ai bambini dell’epoca) significa forzare troppo l’interpretazione del fatto storico.
Nonostante qualche minimo intoppo… burocratico nel 1934 la febbre del Topo raggiunse altissime temperature in Germania.
Il vero boom Disney – spiega Laqua – iniziò nel Reich tedesco solo quando la Bavaria iniziò a pubblicare un programma completo e autonomo fatto solo di pellicole Disney. Poco prima di Natale, il 20 dicembre 1934, questa programmazione fu proiettata nel famoso cinema Marmorhaus di Berlino con il titolo “Die Lustige Palette” (“Il cartellone allegro”). Il sottotitolo “Im Reiche der Micky Maus” (“Nel regno di Topolino”) era ingannevole, in quanto la “Lustige Palette”, come regolata nel contratto con la United Artists, consisteva in quattro “Silly Symphonies” a colori, due film di Topolino in bianco-e-nero, un cortometraggio culturale e un cinegiornale. La prima versione della “Lustige Palette”, che fu proiettata alla Marmorhaus, aveva in lista i seguenti film Disney: “Der Rattenfänger von Hameln” (“The Pied Piper”), “”Die Nacht vor dem Weihnachtabend” (“The Night before Christmas”), “Die mechanische Micky Maus” (“Mickey’s Mechanical Man”), “Die drei kleinen Schweinchen” (Three Little Pigs”), “Micky im Lande der Riesen” (“Mickey Mouse in Giantsland”) e “Die Arche Noah” (“Father Noah’s Ark”). Questa “Lustige palette” avrebbe dato ai film della Disney una popolarità tale mai raggiunta in Germania durante il periodo della Südfilm AG o dopo la Guerra. Per i proprietari di cinema di oggi è quasi inimmaginabile che la “Marmorhaus” avesse il tutto esaurito per settimane con la “Lustige Palette”, che veniva proiettata cinque volte al giorno! L’euforia dell’epoca per i film Disney si comprende leggendo le cronache dei giornali contemporanei. Il “Kinematograph” di Berlino scriveva il 2 gennaio 1935, sotto il titolo “Rekordbesucherzahl in Marmorhaus”: “La Marmorhaus ha avuto un accesso record di spettatori durante i primi giorni della sua programmazione disneyana ‘Im Reiche der Micky Maus’. Il cinema ripete la programmazione per cinque spettacoli al giorno e ha inviato il seguente telegramma alla Bavaria: ‘Le Silly Symphonies sono il più grande business dalla fondazione della casa. Congratulazioni per l’incredibile successo. Tolirag – Marmorhaus’.” E infatti, furono probabilmente le “Silly Symphonies” a deliziare il pubblico con il loro splendore di colori e le varie ambientazioni fantastiche. La rivista “Illustrierte Film-Kurier”, dedicata alle programmazioni cinematografiche in Austria, a proposito dell’edizione del 1934 del “Silly-Micky-Wunderwelt”, la controparte austriaca della “Lustige Palette”, scrisse: “…le Silly Symphonies a colori hanno aiutato i film di Walt Disney a raggiungere una popolarità che ha superato di gran lunga i precedenti”. Nel suo numero del 22 dicembre 1934, il “Film-Kurier” notò anche che venivano proiettati altri film oltre ai tentativi a volte piuttosto goffi che la Südfilm AG aveva presentato al pubblico tedesco anni prima: “I film della Disney sono idee danzanti, sono realtà sospese. La loro attualità non è mai sostanziale: sono parabole e fiabe della civiltà contemporanea, favole cinematografiche come spirito del tempo. Anche un cartone animato puramente ‘art pour l’art’, come il ‘Mechanische Micky Maus’, ha una sostanza cinematografica perfetta, è un pezzo geniale dello spettacolo cinematografico che mostra quali progressi i film Disney abbiano fatto.”
Persino il “Völkischer Beobachter” – l’organo nazionale del Partito Nazionalsocialista – il 22 dicembre 1934 accolse positivamente il “cartellone allegro”, scrivendo che in sala ci sono stati applausi forti e meritati; il 18 agosto 1935, poche settimane dopo la breve visita dei Disney nel sud della Germania (che, come vedremo più avanti, ebbe scopi sia turistici, sia documentativi, oltre che economici) apparve però un articolo sul quotidiano inglese “The Observer” (che è stato rintracciato dagli studenti del prof. Gelsomini, nella loro ricerca sul viaggio di Disney in Italia nel luglio 1935 – studio sul quale torneremo in un prossimo articolo di “EreticaMente”):
Un patriota nazista, scrivendo sul “Völkischer Beobachter”, protesta contro l’uso delle fiabe tradizionali germaniche da parte di Walter Disney nei suoi cartoni animati. Pur ammettendo la sua passione per Topolino, il patriota non sopporta l’apparizione dei ben noti personaggi dei Fratelli Grimm o di Andersen nelle opere cinematografiche di Disney. Dichiara che Disney non ha il diritto di distorcere in maniera così frivola “Cappuccetto Rosso”, “Hansel e Gretel” e “Biancaneve”. Queste favole, dice, vivono nelle menti dei bambini e degli adulti tedeschi come un qualcosa di inviolabile, avendole ereditate dai loro genitori. “Le creature delle favole”, scrive, “non sono grotteschi personaggi dei film”, e afferma che tali film non dovrebbero essere proiettati in Germania davanti a un pubblico di bambini.
A differenza della critica del 1931 sul “Diktatur”, questa pubblicata quattro anni dopo dal “Völkischer Beobachter” (che già si era espresso positivamente sui cartoni animati disneyani) è sicuramente meno virulenta. Non si fa più riferimento a Topolino come a un topo vero, un lurido parassita usato come specchietto per le allodole dalla finanza ebraica mondiale, e anzi si parla di “passione” per il personaggio. La critica ha piuttosto un carattere di orgoglio nazionale, identitario: si rimprovera a Disney di non aver creato nulla di nuovo per i suoi cartoni, ma di aver invece saccheggiato e stravolto un patrimonio culturale altrui, la nobile tradizione favolistica germanica (singolare il riferimento a Biancaneve, film al quale Disney pensava da anni, ma che sarebbe stato ultimato solo alla fine del 1937).
In realtà Disney non aveva “distorto”, ma semmai “adattato” quelle antiche fiabe (l’origine delle quali si perdeva nella notte dei tempi), portandole da un mezzo di comunicazione ancestrale (la tradizione orale dalla quale le avevano raccolte ed editate, trasferendole su carta, i vari Perrault, Grimm, Andersen, etc.) a un mezzo di comunicazione moderno (il cinema). La passione per le fiabe germaniche inizia prestissimo per Walt. Un Disney ventunenne sceneggia e gira nel 1922 per il suo effimero marchio di produzione cinematografica Laugh-O-Gram il breve cartone animato Little Red Riding Hood, una sorta di adattamento umoristico con ambientazione contemporanea della fiaba Cappuccetto Rosso (Rotkäppchen) com’è nella versione dei Fratelli Grimm; il personaggio verrà ripescato nel 1934 nella “Silly Symphony” intitolata “The Big Bad Wolf”, seguito di “Three Little Pigs” del 1933. Cosa significasse “adattare”, “interpretare” un’antica fiaba lo spiegò lo stesso Disney il 22 dicembre 1935, in una riunione con i suoi collaboratori per discutere della lavorazione di Biancaneve:
Nella nostra versione di questa storia (dei Grimm) abbiamo seguito molto da vicino il racconto (originale). Abbiamo adottato alcune variazioni per renderlo più logico, più convincente e più facile da accettare. Abbiamo preso tutti i personaggi e non ne abbiamo aggiunti altri. Abbiamo la Regina, lo Specchio, il Principe, il Cacciatore, Biancaneve e i Sette Nani. L’unica cosa nuova che abbiamo inserito nella storia sono gli animali amici di Biancaneve. Questo non c’era nella favola originale. Abbiamo poi sviluppato una personalità (autonoma) per lo Specchio e le personalità comiche dei Sette Nani.
Dicevamo prima del viaggio dei Disney in Europa nel 1935; ce lo racconta con dovizia di particolari lo storico Didier Ghez, nella sua fondamentale indagine Disney’s Grand Tour (Theme Park Press, 2014). Per quanto riguarda la tappa tedesca, l’unica che in questo nostro excursus ci interessa, il 5 luglio 1935 i Disney attraversarono in macchina il confine tra Francia e Germania, dopo aver visitato Strasburgo. Secondo Edna Disney, moglie di Roy e cognata di Walt, alla frontiera non ci furono controlli personali o sui bagagli: i doganieri erano interessati solo alla quantità di valuta importata. La domenica 7 luglio il gruppo si recò a Monaco: notarono poche macchine e molte biciclette. Soldati ovunque e molte bandiere. Lunedì 8 luglio i fratelli Disney si incontrarono con i loro nuovi distributori della Bavaria Film A.G., visto che Roy non gradiva più i precedenti accordi con la UFA presi dalla United Artists in Germania.
Ghez si sofferma su un particolare molto interessante, nel paragrafo intitolato Un incontro che non è mai avvenuto:
Nel libro “Im Reiche der Micky Maus: Walt Disney in Deutschland 1927-1945” di J. P. Storm and M. Drefiler, gli autori raccontano la seguente storia: “La prima tappa (dei Disney in Germania) fu a Monaco dove la Lustige Palette (una raccolta con sei cortometraggi Disney) era in programmazione. Per coincidenza, in quel periodo, i cineasti tedeschi stavano tenendo una riunione che includeva per la prima volta rappresentanti di studi cinematografici stranieri, USA e Gran Bretagna inclusi. Non è escluso che durante questo incontro i fratelli Disney venissero informati della situazione dei film americani in Germania. La presenza in Germania della Disney americana non era sconosciuta alle alte gerarchie dei NS (nazionalsocialisti o nazisti) a Berlino. Su invito di questi signori (le alte autorità di Berlino) Walt Disney si imbarcò su un aereo governativo per una breve visita a Berlino. Sfortunatamente non siamo stati capaci di sapere chi incontrò nella capitale”. Dato che Roy e Walt passarono l’intera mattinata dell’8 luglio in una riunione con la Bavaria Film, e dato che le due coppie (i Disney e le consorti) lasciarono la Germania per attraversare la Svizzera il giorno successivo, questo preteso viaggio a Berlino non è mai avvenuto.
Dello stesso tenore è un passo tratto dal mio breve saggio Divertirsi sull’orlo del baratro (sul cartooning tedesco durante il Terzo Reich), apparso nel dicembre 2019 negli apparati redazionali del volume a fumetti A casa prima del buio – secondo movimento della Aurea Editoriale:
Nel 1933 la United Artists aveva concesso alla UFA (che non solo produceva propri film, ma distribuiva anche lavori realizzati da altre Case) i diritti per alcuni short disneyani: grande successo ebbe nel 1935 il “Cartellone allegro”, “Die Lustige Palette”, una programmazione nelle sale UFA di sei cortometraggi con Mickey Mouse. Nel luglio di quello stesso anno Walt Disney si recò in Europa per turismo e per lavoro, con il fratello Roy, che si occupava della parte amministrativa della ditta ‘di famiglia’, e con le rispettive consorti. Come scrive J. B. Kaufman nel libro di Carsten Laqua “Wie Micky unter die Nazis fiel” (Rowohlt, 1992), Roy non gradiva affatto il vecchio contratto con la UFA, e aveva già approvato una distribuzione più capillare con la Bavaria Film di Monaco: i Disney erano passati brevemente in Baviera solo per definire tali accordi. Ma forse Walt fece anche qualcos’altro… Nel saggio “Im Reiche der Micky Maus” (Henschel Verlag, 1991) gli autori Storm e Dreßler sostengono che il regista, invitato dalle massime autorità del Nazionalsocialismo, sarebbe volato a Berlino su un aereo di stato per partecipare a un incontro fra produttori cinematografici di tutto il continente, suoi effettivi colleghi. Nessuna altra fonte conferma questo fatto e altre lo smentiscono con risolutezza, come fa Didier Ghez nel suo “Disney’s Grand Tour” (Theme Park Press, 2014). La simpatia di Topolino contagiò la Germania per tutti gli anni Trenta, con commedie, cartoline, oggettistica e migliaia di falsi non autorizzati, in violazione del copyright. Nel 1937/38, durante la Guerra Civile Spagnola, gli aerei del 3° Stormo dello Jagdgruppe 88, che faceva parte della Legione Condor, portavano sulla carlinga un Mickey Mouse armato di pistola (come si legge in “Und morgen gibt es Hitlerwetter!”, Wohlfromm & Wohlfromm, Anaconda Verlag, 2017). Lo stesso Hitler, come il Duce in Italia, apprezzava l’animazione disneyana, tanto che sono noti presunti suoi disegni ispirati al lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani”.
Nonostante l’incontro diretto fra Disney e Hitler, ventilato da certa saggistica “estrema” tedesca, non sia mai avvenuto, nei primi anni del Duemila, negli Stati Uniti d’America, qualcuno ha trovato addirittura il tempo di scriverci sopra un testo teatrale, Disney & Deutschland, che è stato rappresentato per la prima volta a fine gennaio del 2008 al “Garage” di san Francisco. L’autore, il californiano John Powers, dice che Disney ammetteva apertamente il suo antisemitismo e odiava gli ebrei perché erano potenti a Hollywood; i sindacati, che portarono allo sciopero dei dipendenti dei Disney Studios nel 1941, sarebbero stati a guida ebraica; nella sua commedia, fra i personaggi, ci sono Goebbels, la Riefenstahl e ovviamente Hitler; fra Disney e il Capo del Nazismo ci sarebbe stato un collegamento riguardante l’attrazione provata da entrambi per il fantastico e per il fascismo; il Magic Kingdom ed EPCOT sarebbero ricalcati su modelli tedeschi, ariani (il castello della Bella Addormentata, che si pretende ispirato a quello di Neuschwanstein, costruito alla fine del XIX secolo e situato nel sud-ovest della Baviera nei pressi di Füssen, nella località di Schwangau), con riferimenti al progetto “Germania” di Albert Speer; secondo Powers Disney e Hitler si sarebbero incontrati a Monaco (dove Disney si recò nel 1935, ma incontrò invece solo i vertici della Bavaria Film, non del Nazionalsocialismo).
Durante il soggiorno in Germania Disney non vide Hitler, acquistò a Monaco circa 150 (centocinquanta!) libri in tedesco che gli sarebbero serviti per i suoi progetti e per le opere in fieri come Biancaneve. Fra questi titoli Didier Ghez ne elenca diversi di Ida Bohatta-Morpurgo, un’illustratrice austriaca di libri di fiabe tradizionali per bambini: alcune idee del suo stile le ritroviamo in Fantasia e in alcune “Silly Symphonies”; la Bohatta-Morpurgo aderì nel 1938 alla Reichsschrifttumskammer. Un altro autore frequente nella lista è Adolf Holst, educatore tedesco e autore di fiabe e poesie per bambini, che hanno ispirato per decenni musicisti e illustratori in tutta l’area germanica. Non mancavano ovviamente i fratelli Grimm, con la loro favolistica germanica, e fra questi Schneewittchen e Rotkäppchen (entrambi editi da Scholz a Magonza); e poi Wilhelm Busch, umorista e disegnatore, uno dei più noti “protofumettisti”. E, a proposito di fumetti, in Germania Disney comprò anche le avventure di Omobono (Adamson) dello svedese Oscar Jacobsson. Completavano il tutto libri sui canti popolari, sui costumi, sul paesaggio, sulla natura e sugli animali delle lande germaniche.
Nel 2000 il professor Thomas Inge scrisse un interessantissimo articolo su come Disney adattò Biancaneve dall’originale dei Grimm. A proposito dell’edizione al quale si sarebbe ispirato, scriveva Inge:
Anche se Disney, in una riunione di lavoro del 22 dicembre 1936, a proposito di un viaggio compiuto l’anno precedente, dichiarò ‘Mentre ero in Europa andai in svariate librerie, comprai copie di questa storia e le portai con me’, non sappiamo quali traduzioni o quali edizioni della versione di Biancaneve dei Grimm lesse veramente.
Grazie alle ricerche di Ghez sappiamo adesso che Disney si servì (pur ricordando che la lavorazione a Biancaneve era iniziata ormai da 3 anni) di un’edizione degli anni Venti, pubblicata a Magonza (Mainz) dall’editore Scholz, illustrata agli inizi del secolo dal disegnatore e caricaturista politico Franz Jüttner.
Il 9 aprile 1938 la giornalista americana Miriam Stillwell, nell’articolo The Story behind Snow Whites’s $10,000,000 Surprise Party pubblicato dalla rivista “Liberty” scrisse, a proposito di un film di Disney ancora in lavorazione, Fantasia, e dell’interesse per Disney riguardo alla tradizione letteraria germanica:
Leopold Stokowski, il direttore d’orchestra, ha già registrato per la colonna sonora il poema sinfonico “L’apprendista stregone” di Dukas, e gli artisti di Disney stanno già animando la storia, che fu in origine vergata dal grande scrittore tedesco Goethe e che rappresenta l’ideale mix disneyano di sovrannaturale e umano.
Tornando alla “Lustige Palette”, sappiamo che terminava con un cartone animato del 1933 destinato a creare discussioni a non finire nei decenni seguenti. Si tratta della “Silly Symphony” a colori intitolata Three Little Pigs (in italiano I tre porcellini), che ebbe un successo globale, soprattutto grazie al motivetto Who’s Afraid of the Big Bad Wolf? (Wer hat angst vor’m bösen Wolf? in tedesco e Chi ha paura del lupo cattivo? in italiano), che veniva fischiettato da tutti: secondo Romano Mussolini persino da suo padre Benito!
La trama è ben nota: il Lupo Cattivo (o Big Bad Wolf o Ezechiele Lupo) intende pasteggiare a base di carne di maiale e adocchia tre teneri fratelli porcellini, canterini e suonatori di strumenti, ognuno dei quali si è costruito la propria casetta; il più sfaticato l’ha fatta di paglia; quello un po’ più laborioso l’ha messa in piedi con rami d’albero; il suino stakanovista l’ha invece edificata in solidi mattoni; il lupo, soffiando come un mantice, riesce a spazzar via facilmente le prime due abitazioni – poco più che capanne – ma rimane scornato allorquando tenta di abbattere il solido villino di mattoni. Negli anni della Depressione economica, che aveva colpito il mondo dopo il crollo della borsa a Wall Street nell’ottobre del 1929, si volle vedere in questo cartone un incitamento ottimista a rimboccarsi le maniche con il lavoro, per sconfiggere la carestia (il lupo) che bussava alla porta. Ma le polemiche nacquero per un ben preciso passaggio del cartone animato, che niente aveva a che vedere con la Depressione e altre simili considerazioni.
A un certo punto, infatti, il Lupo si maschera da venditore porta-a-porta, un piazzista chiaramente ebreo (con nasone posticcio, barba lunga, labbra marcate e quasi femminee, cappellaccio nero e caffettano), per tentare di entrare con l’inganno nella casa di mattoni che non riesce ad abbattere col fiato – casa nella quale si sono rifugiati i Tre Porcellini. La versione originale sarebbe stata rimaneggiata più volte negli anni, per mettere a tacere le proteste (come vediamo il “politicamente corretto” nasce presto negli Stati Uniti, non, come spesso si dice, con l’era Clinton).
Poco dopo la prima, scrive Marc Eliot nella sua biografia non autorizzata, Disney ricevette i presidenti di molte organizzazioni ebraiche, costernati dalla scena in cui Lupo Ezechiele si traveste da mercante ebreo per ingannare uno dei porcellini e farsi aprire la porta. Disney acconsentì a rimuovere la scena offensiva – nella versione successiva il mercante con barba, occhiali e abito lungo divenne un generico piazzista di spazzole – disse agli amici che la sua unica intenzione era stata di fare una parodia di Carl Laemmle e dei suoi tentativi, numerosi quanto vani, di radere al suolo lo Studio Disney.
Torneremo più avanti sul volume di Eliot e su Carl Laemmle (che era ebreo) e compari hollywoodiani. Diciamo subito che anche qui riscontriamo una delle superficialità di cui è disseminata l’opera di Eliot. Il personaggio interpretato dal Lupo Cattivo, infatti, è sempre stato fin dall’inizio un piazzista di spazzole. Solo che nella primissima versione, oltre ad avere l’aspetto ebraico (che mantenne con la prima revisione), si esprimeva anche con pesante accento yiddish (pronunciando cantilenando untuosamente la frase I’m the Fuller Brush Man… I’m giving a free sample!), mentre la colonna sonora riproduceva il suono di un violino (lo strumento a corda preferito dai musicisti ebrei). Dopo le prime proteste l’accento yiddish del truffaldino Lupo fu tolto e modificata la battuta (I’m the Fuller Brush Man… I’m working my way through college); solo nel 1948 la Disney fece animare ex-novo la scena, togliendo così anche il riferimento grafico – e non solo vocale – agli ebrei della Mitteleuropa.
Riguardo al “problema” del piazzista ebreo, Laqua scrive:
Nel Reich tedesco – nel 1934, anche prima dell’uscita del film – furono pubblicati vari dischi con la canzone del Lupo e un libro. Quest’ultimo fu edito dalla Williams & Co. Verlag, a Berlino. Si tratta di un libro illustrato per bambini che era stato prodotto per la prima volta negli Stati Uniti nel 1933 dalla Blue Ribbon, nel New Jersey, su licenza Disney. Fu tradotto in molte lingue ed è persino apparso in Unione Sovietica. La traduzione russa con licenza, pubblicata dal Comitato Centrale dell’Organizzazione Giovanile Sovietica – il Komsomol (Vsesojúznyj léninskij kommunistíčeskij sojúz molodjóži) – di Mosca-Leningrado, ebbe almeno tre edizioni fino al 1937. Né i nazisti né gli stalinisti censurarono la Disney. Finché la distrazione e l’intrattenimento erano innocui e apolitici come nei film Disney, servivano anche ai loro scopi di dittature. I Tre Porcellini sarebbero stati ancora più popolari tra i governanti nazisti in Germania se la Disney avesse lasciato una certa breve scena del film più a lungo. I disegnatori della Disney avevano dato al lupo cattivo il presunto tipico naso adunco ebraico.
L’idea che i film Disney, in quanto “innocui e apolitici”, facessero comodo alle “dittature” per distrarre i popoli dai veri problemi, quasi per addormentarli con un “oppio” a cartoni animati, pare davvero troppo ingenua per un esperto come Laqua, persino come tardiva rimasticatura del cliché panem et circenses.
Nel 1987 Carsten Laqua aveva intervistato a lungo negli Stati Uniti il celebre Ward Kimball. L’artista era uno dei cosiddetti “Nine Old Men” dei Disney Studios, appartenendo al gruppo di disegnatori-registi che creò i primi grandi capolavori internazionali di Walt Disney, tra cui certe “Silly Symphonies” di grande impatto, come I Tre Porcellini, e i primi lungometraggi animati, come Biancaneve, Pinocchio e Fantasia; gli altri otto erano Les Clark, Marc Davis, Mitt Kahl, Ollie Johnston, Eric Larson, John Lounsbery, Wolfgang Reitherman e Frank Thomas. Il lungo colloquio fu pubblicato in Germania il 15 settembre 1988 sul n. 93 di “Die Sprech Blase”, rivista tedesca di critica fumettistica; parti dell’intervista confluirono nel libro Wie Micky unter die Nazis fiel. Riguardo alla scena modificata in Three Little Pigs, Kimball – che non aveva lavorato a quella specifica produzione, ma che conosceva tutti i retroscena – disse:
Il rappresentante, cioè il lupo, viene alla porta e grida: ‘I’m the Fuller-brushman – giving away free samples (‘Io sono il Fuller-brushman! – regalo campioni gratuiti!’). Innanzitutto chiunque sapeva chi era il ‘Fuller-brushman’. Negli anni ’20 e ’30, la Fuller Company, che era una grande azienda qui negli Stati Uniti, non vendeva tramite la rete di negozi regolari. Aveva rappresentanti che inviava direttamente di porta in porta. Si presentavano una volta ogni sei mesi e da loro compravi spazzole e altri prodotti per la pulizia. C’era sempre un piccolo pennello gratis come campione per l’acquirente. Questo è ciò che si intende quando il lupo bussa alla porta dei maiali e camuffa la sua voce: ‘Io sono il Fuller, ecc.’ All’epoca le barzellette ebraiche raccontate da comici ebrei erano accettate”.
Laqua conclude (anche se sbaglia gli anni della modifica definitiva della sequenza “incriminata”):
Lo stesso Walt Disney in seguito descrisse questa parodia come “insapore”. Questo è probabilmente il motivo per cui il lupo mascherato da venditore ebreo è stato sostituito negli anni ’50 con la versione che è ancora in uso.
A proposito del cartone I Tre Porcellini, riportiamo un’altra voce dal passato. Disney è stato da sempre nel mirino degli apostoli del politicamente corretto a causa delle sue presunte e pretese simpatie verso il Nazionalsocialismo – simpatie ricambiate, senza forse; nel 1966 questo veniva però negato da Guido Gerosa in un celebre articolo dedicato alla morte di Walt, apparso a dicembre sul settimanale “Epoca” che, con le sue numerose inesattezze riguardanti le date, avrebbe “infettato” tutta la ricerca disneyana successiva (lo abbiamo visto in “EreticaMente”, nell’articolo su Disney e il Duce del 2020). Dopo aver parlato dell’incontro fra Walt e Benito e delle simpatie di Mussolini per la produzione disneyana, Gerosa precisava:
Disney non piaceva invece all’uomo dai baffetti, simile agli orchi delle sue favole, che era salito al potere in Germania. Hitler disse che Topolino era un prodotto tendenzioso e decadente. Il caporale austriaco si preparava a spaventare il mondo quando uscì il film in cui Disney si ispirava ai maialini della sua fanciullezza. Sull’Europa angosciata il ritornello dei Porcellini – “Chi ha paura del grosso lupo cattivo?” – esercitò un effetto rassicurante.
Orchi, maialini della fanciullezza? Per non parlare degli anacronismi, visto che il cartone è del 1934… C’è da chiedersi se qualcuno della Mondadori, che nel 1966 pubblicava da oltre 30 anni i fumetti disneyani, producendone anche molti autoctoni di elevatissima qualità, si sia preso la briga di leggere le bozze di questo articolo prima della pubblicazione…
Il caso dei Tre Porcellini cartone animato antisemita non rimane un fatto isolato. Per esempio in Biancaneve e i sette nani (1937), il naso adunco della strega cattiva, il portamento incurvato e il comportamento generale di seduzione per alcuni critici sono del tutto evocativi dello stereotipo antisemita prevalente all’epoca; in Pinocchio (1940), l’astuto burattinaio Mangiafuoco (Stromboli, nella versione originale), che manifesta una totale mancanza di ogni imperativo morale ed è interessato solo ad accumulare grandi ricchezze, sarebbe per alcuni commentatori una chiara incarnazione dello stereotipo dell’ebreo spilorcio; nel cortometraggio The Opry House (1929), Topolino, che ha allestito un rustico teatro del vaudeville, si traveste ed esegue la caricatura di un ebreo chassidico che balla; e, in The Wayward Canary (1932), Minnie Mouse, per qualche inspiegabile ragione, tiene in salotto un accendino decorato con una svastica (ne riparleremo più avanti). Alcuni critici sostengono inoltre che lo stregone nel segmento The Sorcerer’s Apprentice di Fantasia, con il suo vistoso naso adunco, la barba lunga, l’ampio copricapo (il cappello da mago) e le magie di uno strano e mistico tomo simile al Talmud, sia uno stereotipo antisemita; inoltre, in un’inconfondibile allusione all’ebraico Mosè e al Mar Rosso dell’episodio biblico, lo stregone divide le acque del diluvio provocato dalle scope magiche, con una drammatica imposizione delle mani; le scope animate da Topolino sarebbero una parodia del golem visto che la partitura del compositore ebraico Abraham Dukas, usata per la colonna sonora dell’Apprendista stregone, era ispirata alla storia del rabbinico mostro di argilla, difensore del Ghetto di Praga.
Topolino stesso sarebbe un’idea antisemita di Walt Disney. Per quanto riguarda le origini di Mickey Mouse, alcuni critici di cultura ebraica, come quelli del sito “Jewish Press”, che vedono pericoli per la loro comunità dappertutto, suggeriscono che Walt, intenzionalmente o inconsciamente, stava attingendo all’idea nazista che gli ebrei fossero roditori parassiti. Questi critici notano che nel suo cartone animato di debutto, Steamboat Willie (1928), Topolino non fosse quell’adorabile roditore che tutti avrebbero imparato a conoscere, ma, piuttosto, un sadico perpetratore di atrocità, molto simile a un topo reale: in pratica, secondo alcuni, la perfetta immagine nazista dell’ebreo. Che i nazisti considerassero Topolino ebreo, per quei critici, sarebbe evidente anche nel divieto di The Barnyard Battle (1929), il cartone animato in cui Topolino e i suoi compagni topi difendono la loro fattoria dai gatti tedeschi, come sappiamo; i tedeschi, secondo questa critica di matrice ebraica, consideravano il cortometraggio “offensivo della dignità nazionale” perché i parassiti ebrei, rappresentati inequivocabilmente da Topolino e dai suoi compagni topi, avevano osato difendersi dai militari tedeschi, rappresentati da gatti che indossavano elmetti militari tedeschi. In realtà quel cartone animato, come abbiamo visto, fu tagliato (non proibito) nel 1930: non dai Nazionalsocialisti, dunque, ma sotto la Repubblica di Weimar, perché parteggiava per i Francesi.
E infine Bambi: il libro dal quale Disney trasse il suo lungometraggio del 1942, Bambi: Eine Lebensgeschichte aus dem Walde scritto nel 1923 da Felix Salten, non sarebbe stato visto di buon occhio da Nazionalsocialismo in quanto, negli anni ’30, dicono alcuni, veniva ritenuto un’allegoria del modo in cui venivano trattati gli ebrei in Europa. Ma Walt Disney, pur avendo simpatie innegabili per i socialismi nazionali del Vecchio Continente si innamorò di quella fiaba moderna… Nel 2012 cercava di trovare una spiegazione “psichiatrica” (se non sei “allineato” con il mainstream, devi essere per forza “alienato”) il giornalista Mario Serenellini di “La Repubblica”, non scovando miglior appiglio del discusso saggio di Marc Eliot:
Perché tanta dedizione a un testo di successo ma inviso al nazismo, cui – secondo le biografie più maligne – andavano le simpatie di Disney? Proprio una delle più impietose, “Il principe nero di Hollywood” di Marc Eliot, ne fornisce involontariamente gli indizi, quando evoca i primi anni dolorosi di Walt, con un padre brutale – probabilmente adottivo – cui scampava rinchiudendosi per ore in uno sgabuzzino senza luce: “La violenta infanzia nel Missouri gli divorò l’anima per il resto della vita e gli ispirò i personaggi più memorabili, Biancaneve, Pinocchio, orfanelli privati degli affetti familiari”. Potremmo aggiungere tutti gli altri, da Cenerentola a Lilly e il vagabondo e, soprattutto, Bambi. Quel rifugio di bimbo perseguitato, dove aveva nascosto una lampada a petrolio, condusse Walt ai cartoni animati. È lì che il futuro papà di Topolino, per passare il tempo, imparò a disegnare, schizzando gli animali e i protagonisti di fiabe che erano una sola fiaba, sempre la stessa: un lungo serial di Bambi, riscatto del bambino che non era stato, trasmesso agli altri bambini, figli e bebè.
Tornando alla nostro filo conduttore principale osserviamo che il cartellone detto “Lustige Palette” continuò a mietere successo per mesi e mesi in tutta la Germania, dopo i primi giorni di debutto. A Berlino il monumentale cinema Marmorhaus – palazzo tutt’ora esistente anche se con diversa destinazione d’uso – proiettò quei cartoni animati cinque volte al giorno per un mese di fila, fra il 1934 e il 1935. E così anche ad Amburgo, dove in uno solo fine settimana nel febbraio del 1935 un cinema riuscì a ospitare quasi 4.500 spettatori paganti per questi cartoni animati disneyani. E poi di nuovo a Berlino. Walter Jonigkeit, uno dei pionieri delle sale cinematografiche tedesche, che morì nel 2009 dopo aver compiuto 102 primavere, fu intervistato da Laqua agli inizi degli anni Novanta:
All’epoca possedevo il Kamera, disse Jonigkeit, un cinema sulla Unter den Linden. Ho messo insieme io stesso svariate “Bunte Paletten”, come chiamavamo quei cartelloni. Consistevano in otto brevi cartoni animati e due documentari, in modo che raggiungessero un’ora e mezza di spettacolo. Il Kamera aveva 300 posti. Con tre spettacoli al giorno, ogni “Palette” è durata circa sei settimane. Molti degli spettatori erano studenti della vicina Università Friedrich Wilhelm. Per loro ho spesso allestito una proiezione extra all’una di notte. Come programma di supporto (di film con attori in carne-e-ossa – N.d.R.), i cartoni di Topolino sono andati avanti fino all’inizio della guerra.
Dopo il 1935/1936 però ben pochi nuovi cartoni animati disneyani arrivarono in Germania, non per motivi di censura o embargo, ma per motivi prettamente economici e contrattuali; ci furono poi problemi causati dalle leggi protezionistiche varate da Berlino (come in altri Paesi europei) per tutelare le esportazioni tedesche e limitare le importazioni di materiali stranieri; per anni rimasero in Germania fondi “congelati” che non potevano essere riscossi dalla Disney; e questo nonostante gli ottimi auspici della tappa tedesca del viaggio europeo di Walt e Roy dell’estate del 1935. Con il 1937 scaddero tutti i vecchi contratti stipulati fra la Disney e i distributori tedeschi: dopo quest’anno i cinema che continuarono a proiettare cartelloni disneyani lo fecero del tutto illegittimamente. Ma lo fecero, ed è questo che a noi importa: l’interesse del pubblico per l’animazione disneyana continuò a crescere nel Terzo Reich. E non solo presso il pubblico, ma persino nelle “alte sfere”.
Ce lo conferma il saggio di Laqua, riportando un altro brano dell’intervista a Jonigkeit:
Era risaputo nei circoli cinematografici che i film Disney venivano guardati regolarmente nella Cancelleria del Reich
Secondo Laqua, però…
È difficile trovare prove concrete dell’interesse per i film Disney da parte dei leader nazisti tedeschi. L’Archivio federale di Coblenza ha comunque nel proprio settore “NS 10/48” una conferma del Ministero dell’Istruzione e della Propaganda del Reich, dalla quale emerge che “cinque film di Topolino” del Reichsfilmarchiv erano stati inviati all’Aiutante del Führer. Nella lettera del 27 luglio 1937, firmata dall’Oberprüfstelle-Teiter Ernst Seeger, vengono nominati cinque titoli che non corrispondono a nessuno dei titoli Disney importati ufficialmente. O alcuni cartoni animati sono stati soprannominati per antonomasia “film di Topolino”, il che avrebbe confermato la popolarità di Topolino in questi circoli, oppure titoli tedeschi sono stati dati a film importati con il loro titolo inglese. Proverebbe quest’ultima ipotesi l’uso del termine inglese “Mouse” nella lettera. La consegna era stata organizzata da un personaggio molto vicino a Hitler: lo SA-Obergruppenführer Brückner. Lo Adjutantur des Führers dovette pagare per i film RM 199,64 alla Deutsche Fox Film AG, una sussidiaria della 20th Century Fox con sede nella Friedrichstrasse di Berlino.
Molto nota, e facilmente reperibile in Internet, nonostante non sia presente in nessuna delle varie antologie pubblicate a stampa dei Diari di Joseph Goebbels, l’annotazione del 22 dicembre 1937; questo non significa che l’annotazione, come viene riportata in ogni dove (e ovviamente anche da Laqua) sia inventata; significa semplicemente che nelle varie antologie non appare perché non era stata ritenuta interessante dai redattori. Nel 2000 è stata però ultimata, a cura di Elke Fröhlich per conto dell’Istituto Tedesco di Storia Contemporanea, una versione completa dei Diari, in parte accessibile online presso De Gruyter; leggendo questa versione, che si presume corretta e completa, notiamo alcune discrepanze rispetto a quanto prima riportato altrove (soprattutto sul numero dei film donati, che furono 12, non 18 come solitamente si legge). Comunque sia Goebbels scriveva:
Ich schenke dem Führer 32 Klassefilme der letzten 4 Jahre und 12 Mickey-Maus-Filme mit einem wunderbaren Kunstalbum zu Weinachten. Er freut sich sehr darüber, ist ganz glücklich über diesen Schatz, der ihm hoffentlich viel Freude und Erholung spenden wird. (Regalo al Führer 32 grandi e famosi film degli ultimi quattro anni e 12 film di Topolino con un meraviglioso libro illustrato per Natale. Ne è molto felice. È molto felice di questo tesoro, che si spera gli darà molta gioia e relax).
Joseph Goebbels aveva già citato altre due volte Topolino nei suoi Diari, e questo dimostra ulteriormente l’interesse del Ministro per l’animazione disneyana. Nell’annotazione del 4 gennaio 1935 diceva di avere assistito alla proiezione di un film, F.P.1 antwortet nicht (si tratta di una pellicola di fantascienza avventurosa, tratta da un libro di Siodmak), introdotto da cartoni animati di Mickey Mouse. Il 2 settembre 1937 affermava invece di aver visto i cortometraggi di Topolino insieme ai piccoli invitati al compleanno della figlia Helga e di essersi divertito tantissimo. Il 12 febbraio 1940 Goebbels citò invece il film Biancaneve, in relazione a una visita (al ministero o alla Cancelleria) dell’attrice di origine ceca Anny Ondra (scrivendo erroneamente “Disnay” al posto di “Disney”):
Frau Ondra ist nachmittags zu Besuch. Wir sehen den amerikanischen Disnay-Film “Schneewittchen”, eine großartige künstlerische Schöpfung. Ein Märchen für Erwachsene, bis ins Einzelne durchdacht und mit großer Menschen- und Naturliebe gemacht… Ein künstlerischer Hochgenuß! (Miss Ondra viene a trovarci questo pomeriggio. Vediamo il film americano “Biancaneve” di Disney, una grande creazione artistica. Una favola per adulti, pensata fin nei minimi dettagli e realizzata con un grande amore per l’Uomo e la Natura. Un delizia artistica!).
Il fatto che Goebbels avesse definito Biancaneve una “favola per adulti” è del tutto sottoscrivibile. Il film è ricco di tematiche e spunti “adulti”: invidia, omicidio, morte, amore, resurrezione, orrore, paura, magia nera, esoterismo… Si vede chiaramente che è un film pensato da adulti, scritto da adulti, disegnato da adulti… per loro stessi e, solo in maniera accessoria, per un pubblico infantile – che non può cogliere tutte le sfumature, i sottintesi, la perfezione grafico-tecnica dell’animazione.
Secondo alcuni, tra cui il giornalista tedesco Rüdiger Suchsland,
Dopo che “Biancaneve e i sette nani” uscì nel 1937, Hitler lo vide più e più volte nella sua sala di proiezione privata all’Obersalzberg: divenne il film preferito di Hitler.
Si tratta però, questa pubblicata nel 2015, di una mera ipotesi, basata sul fatto che esisteva una versione del lungometraggio fatta doppiare in tedesco dalla Disney nel 1938 ad Amsterdam, da Kurt Gerron (che aveva anche curato il doppiaggio in olandese del film). Suchsland ha il “dente avvelenato” contro Disney e pare seguire la “lezione” di Eliot:
Cosa pensava Walt Disney dei nazisti? Ovviamente aveva poca paura di entrarci in contatto. Né gli importava del cambiamento di umore negli Stati Uniti, iniziato con la notte dei pogrom del 1938. Nel novembre 1938, la regista nazista Leni Riefenstahl era negli Stati Uniti per commercializzare il suo film sui Giochi Olimpici del 1936. Mentre molti le chiusero la porta in faccia, Walt Disney le diede un cordiale benvenuto. Piacevano più i nazisti a Disney, o piaceva più Disney a Hitler e Goebbels? Il fatto è che nei film Disney domina una visione del mondo trasfigurata, il cui immaginario è fortemente influenzato dalla tradizione germanica. Biancaneve è una “ragazza della Foresta Nera”. Topolino e gli intelligenti Sette Nani non hanno combattuto Hitler per molto tempo, diversificandosi in ciò dai supereroi come Capitan America, Superman e Batman. Tutti avevano già combattuto e sconfitto Hitler (nei loro fumetti – N.d.R.) già prima che l’America entrasse in guerra nel 1941. Dopo Pearl Harbor tutta Hollywood prestò servizio militare. La satira sottile non era più richiesta, e anche Disney non poteva più sfuggire alla pressione dell’opinione pubblica: Topolino e i Tre Porcellini lottavano contro un Lupo Cattivo che aveva chiaramente una somiglianza con Hitler. “The Fuehrer’s Face” è stato poi definito uno dei più importanti film di propaganda anti-nazista nel 1943. In ritardo, però. Troppo in ritardo?
Alla fine del 2014 il legame – se così si può dire – fra Biancaneve e Goebbels diede lo spunto a Mauro Sgorbani per una pièce teatrale intitolata Magda e lo spavento. Ne fece una colorita e molto democratica e progressiva recensione su “La Repubblica” la giornalista Simona Spaventa:
Federica Fracassi è attrice generosa e impavida, che accetta sfide nei territori più impervi della scena non convenzionale. Per lei Massimo Sgorbani ha scritto una trilogia sulle femmine di Hitler, indagine sull’attrazione fatale del male che dopo i monologhi della cagna lupa Blondi e dell’innamorata Eva Braun, con “Magda e lo spavento” dà voce ora Magda Goebbels in un terzo capitolo che fa entrare in scena lo stesso Führer. Con lui, nei giorni della disfatta del Reich, dialoga la moglie del ministro della propaganda che nel bunker avvelenò i suoi sei figli, ideologa convinta del nazismo la cui lucidità dialettica Sgorbani, con scelta ironica e spiazzante, non applica a dogmi politici bensì a Walt Disney, segreta passione del Führer. Tra chiacchiere su trame di cartoni animati e filastrocche, Biancaneve viene classificata come ariana contro la deformità di nani degenerati e Topolino è un essere inferiore redento, in un testo paradossale che si avvita su se stesso e si ripete in varianti sempre più livide, discesa negli inferi di un fanatismo che intride la più banale e innocua quotidianità. Un andamento circolare che la regia di Renzo Martinelli asseconda con rigore fin troppo cerebrale, trasformando la scena in una sorta di gabbia-scatola magica chiusa anche verso la platea da un velo-schermo soffocante dove scorrono silhouette di cartoon, e scossa da un impianto rumoristico a tratti invadente. Un carillon allucinato e claustrofobico dove si muovono a scatti, come automi caricati a molla, gli attori, vera forza dello spettacolo. Nell’abito pastello da principessa Disney, Federica Fracassi è una Magda Goebbels scossa da tremiti nervosi, capace letteralmente di incarnare il lucido sproloquio della sua protagonista in crescendo verbali e fisici di spaventoso, controllatissimo furore. Con lei, Milutin Dapcevic è un Hitler schizofrenico di una sgradevolezza da manuale.
Aldilà dell’interesse del ricercatore, restano i dubbi sulla qualità artistica di un tale spettacolo. L’entusiasmo di Goebbels per Biancaneve (e per l’animazione di Disney in genere), ormai divenuto patrimonio globale (e purtroppo persino oggetto di scherno come nel teatro di Sgorbani), è documentato dunque nero su bianco nei Diari del Ministro. Era in ottima compagnia il Ministro, nell’Asse. Allo stesso modo in Italia fu infatti documentato nei Diari di Claretta Petacci l’entusiasmo di Mussolini per il lungometraggio disneyano. Anche l’imperatore Hirohito era un appassionato delle produzioni Disney: quando nel 1975 si recò negli Stati Uniti, accolto dall’allora Presidente Ford, volle visitare Disneyland, dove si comprò un orologio di Topolino. Persino Francisco Franco (come spiegava Omero Ciai su “La Repubblica” del 22 agosto 2011) era un vero fan dei cartoni animati americani; nel 1950 Walt Disney gli fece spedire in anticipo sull’uscita nei cinema una copia di Cenerentola; il caudillo spagnolo organizzava pomeriggi con proiezioni delle avventure di Tom & Jerry per la nipotina Maria del Carmen; secondo Orson Welles, Franco avrebbe realizzato cortometraggi con disegni animati e una volta il regista americano giurò di averne anche visto qualcuno. Il presunto entusiasmo di Hitler nei confronti del film rimane invece nel limbo delle congetture. Però nel 2008 sono usciti allo scoperto alcuni disegni, realizzati da mano esperta, raffiguranti personaggi disneyani, firmati sul retro con la sigla “A.H.”. Leggiamo quanto fu scritto a tal proposito al momento della sensazionale scoperta di William Hakvaag, direttore del “Lofoten 2.World War Memorial Museum”, un museo di storia militare sito nel nord della Norvegia:
Molti dei protagonisti della Seconda Guerra Mondiale avevano inclinazioni artistiche. Sia Churchill che Dwight D. Eisenhower avevano la capacità di trasmettere ciò che vedevano su un altro mezzo: la tela. Ma non tutti sanno che anche Adolf Hitler aveva interessi artistici. La maggior parte delle volte dipingeva acquerelli (…). Fra il 1908 e il 1914 lui e i suoi due coinquilini (…) si guadagnarono da vivere dipingendo acquerelli e cartoline a Vienna e Monaco. Lo stesso Hitler affermava di aver dipinto oltre 1000 quadri, alcuni dei quali erano a olio. I bestseller erano gli acquerelli delle chiese. (…) Nel 1914 si arruola volontariamente e partecipa per 4 anni alla guerra di trincea; viene ferito più volte, ma dipinge e disegna in continuazione. Ventuno disegni trovati in Belgio, che si ritiene siano stati dipinti da Hitler, sono stati battuti all’asta nel 2006 per 1,6 milioni di euro, in Inghilterra. Dopo la Prima Guerra Mondiale continuò a dipingere, ma in misura molto minore. Anche dopo essere diventato Cancelliere del Reich nel 1933, Hitler dipinse diversi quadri. Nel 1935, il NSDAP iniziò a cercare i dipinti dispersi del Führer. (…) Nel 1942 questi dipinti vengono dichiarati “opere di importanza nazionale”. L’obiettivo era quello di creare un “museo d’arte del Führer” in cui raccoglierle. Questo doveva essere situato a Lintz (…). I dipinti ritrovati dal NSDAP furono raccolti e catalogati nella “Braune Haus” di Monaco e poi conservati nei tunnel e nei rifugi antiaerei sotto la caserma delle SS all’Oberzalsberg. Hitler continuò a dipingere e amava regalare quadri a coloro che apprezzavano i suoi acquerelli. Verso la fine della guerra, anche gli effetti personali dei leader nazisti furono depositati nei tunnel dell’Oberzalsberg quando si temeva che gli edifici sarebbero stati bombardati.
Furono le truppe americane a scoprire il deposito di oggetti personali che venne devastato e saccheggiato visto che tutti volevano un souvenir. Gli oggetti più popolari erano ovviamente le porcellane e l’argenteria. Un certo numero di acquerelli ritrovati furono ritenuti dagli americani oggetti di minore interesse, e forse se li accaparrarono la gente del posto. Comunque sia, un dipinto firmato “A. Hitler ’40” è stato recentemente messa all’asta in Germania. (…) La signora che l’ha venduto ha detto solo che ce l’avevano i suoi nonni “fin da quando poteva ricordare”. La cornice era stato trovata in soffitta quando aveva pulito la casa e non poteva dire se il dipinto fosse autentico o no. L’opera fu venduta per una piccola somma a William Hakvaag, in Norvegia, che a sua volta l’ha prestata al Lofoten War Memorial Museum di Svolvær. Quando l’acquerello è stato estratto dalla vecchia cornice, sono cadute quattro immagini che erano state nascoste all’interno di un doppio cartone dietro l’acquarello. E lo stupore non è diminuito quando si sono visti i soggetti… Tre delle immagini raffiguravano i nani di “Biancaneve”! Erano firmate a matita “A. H.”. L’ultimo disegno era di Pinocchio ed è stato chiaramente dipinto un po’ più tardi e non era firmato. L’immagine principale era incredibilmente molto simile come stile al modo in cui Hitler dipingeva. Le immagini sono state controllate con una lampada a luce ultravioletta e sono risultate completamente scure, il che dimostra che sono vecchie. Ulteriori ricerche hanno dimostrato che Hitler era molto interessato al cartone animato della Disney “Biancaneve”, che in realtà è una vecchia fiaba tedesca. Secondo Hitler, il film è stato uno dei “migliori film mai realizzati”. E aveva la sua copia personale per il suo cinema privato al Berghoff sull’Obersalzberg. Era anche infastidito dal fatto che la Germania non potesse fare un film altrettanto buono e poi si è seduto e ha disegnato tre dei nani. E lo ha fatto correttamente. Un dettaglio che possiamo notare è che Hitler prese in prestito da Albert Speer un tavolo da disegno quando progettò la sua casa, il Berghof sull’Oberzalsberg. Deve aver usato questo tavolo per gli acquerelli del suo “periodo tardo” perché hanno i buchi dei perni negli angoli. Anche negli acquerelli dei nani sono presenti dei piccoli fori dovuti ai perni che tenevano fermo i foglio mentre dipingeva.
Pinocchio, il burattino di Collodi, mille volte rivisto e reinterpretato, anche da Disney, sarebbe stato persino disegnato da Adolf Hitler! Sarà anche per questo che il magico ciocco regalato da Mastro Ciliegia a Geppetto non vuol proprio saperne di essere digerito così com’è dagli apostoli dell’antifascismo e del politicamente corretto. Secondo “Il Giornale”, in un articolo firmato Maurizio Acerbi apparso online il 21 agosto 2020,
un colosso come Netflix poteva lasciarsi scappare l’occasione di regalarsi un suo adattamento del tutto particolare? Ecco, allora, che uscirà il Pinocchio in versione musicale animata in stop motion, diretta dal premio Oscar Guillermo del Toro. Che, evidentemente, deve aver trovato chi lo finanzia, visto che a Venezia aveva confidato, qualche tempo fa: “Sto cercando finanziatori per Pinocchio da quasi 10 anni e mi complico sempre la vita perché nessuno dei film che voglio fare è facile. Quando dico che il mio Pinocchio sarà antifascista e ambientato nell’Italia di Mussolini, chi era entusiasta all’inizio poi si tira indietro!”. Esatto, perché del Toro ha avuto la pensata di collocare le avventure musicate del suo burattino, che prende vita da un desiderio del padre, durante l’ascesa del fascismo e di Mussolini, in una storia che dovrebbe rappresentare la fatica di crescere di un Pinocchio che non si sente all’altezza delle aspettative del genitore. Chissà se il film è una risposta a quel Pinocchio che, durante il Ventennio, divenne protagonista di alcuni racconti come, ad esempio, “Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista” (1923) di Giuseppe Petrai, nel quale il burattino diventava “a modo” combattendo contro le squadre comuniste, mentre il successivo “Pinocchio fra i balilla” (1927) ricalcava più da vicino, in un certo senso, la storia di Collodi. Sempre Del Toro, aveva dichiarato: “I film d’animazione hanno da sempre influenzato la mia vita e il mio lavoro, e Pinocchio è il personaggio di fantasia che più di altri mi ha ispirato. Il Pinocchio che sarà protagonista della mia storia, sarà un’anima innocente maltrattata da suo padre, perso in un mondo che non riesce a comprendere. Inizierà un viaggio straordinario che sarà in grado di fargli capire la realtà delle cose sul mondo e sul suo genitore”. Con un cast di tutto rilievo, visto che accanto all’esordiente Gregory Mann, che vestirà i panni di Pinocchio, avremo attori del calibro di Ewan McGregor (il Grillo Parlante) e David Bradley (Geppetto). Reciteranno anche Tilda Swinton, Christoph Waltz, Finn Wolfhard, Cate Blanchett, John Turturro. Alla regia, oltre a del Toro anche Mark Gustafson. È prevista una doppia distribuzione, ovvero nelle sale e su Netflix. Le riprese sono iniziate lo scorso autunno negli studi di ShadowMachine a Portland (Oregon) e la produzione è proseguita anche durante la pandemia. “Dopo aver inseguito questo sogno per anni, Netflix rappresenta il partner perfetto per realizzarlo. Abbiamo passato molto tempo a trovare un cast e una troupe di prim’ordine e il continuo supporto di Netflix ci ha permesso di procedere in tutta tranquillità e con impegno, senza perdere colpi. L’animazione ci appassiona, perché pensiamo rappresenti il mezzo ideale per raccontare questa storia classica in un modo completamente nuovo”, afferma Del Toro. Vedremo se l’ideologia prevarrà sul personaggio.
Il 1937 era stato dunque negli USA l’anno di Biancaneve e i Sette Nani, il primo lungometraggio animato della Disney, realizzato con tecniche estremamente innovative (una per tutte, la multiplane camera, che permetteva, grazie agli spostamenti di più fondali su cui si muovevano i personaggi, una profondità e una tridimensionalità tali che sarebbero state superate solo nell’era del digitale e della computer graphic). Per i soliti problemi di diritti e per il fatto che da anni molti soldi della Disney erano congelati in Germania non si arrivò mai a un accordo per una versione doppiata in tedesco del film (fu comunque doppiata in tedesco ad Amsterdam); Roy Disney, che nel 1938 era a Berlino, non riuscì infatti a trovare accordi economici per lui soddisfacenti; il fratello Walt era molto meno interessato agli aspetti… monetari dell’attività di famiglia e dunque per certi versi si disinteressò della questione. I giornalisti tedeschi videro comunque Biancaneve, essendo stato proiettato in Italia alla Biennale di Venezia del 1938, ma ne rimasero parzialmente delusi e nei loro commenti parvero tranquillizzare il pubblico tedesco: ben poco si perdeva a non vedere quel film. Qualcuno – come Laqua – ha sospettato che dietro quegli articoli negativi nei confronti del lungometraggio ci fosse la “longa manu” di Goebbels, “invidioso” di quali vertici avesse raggiunto la tecnica dell’animazione nelle opere disneyane. Pare, questa, una delle tante “leggende urbane” sul Terzo Reich e sui suoi protagonisti. Vero è che Goebbels, ammirato dalle potenzialità e dalla tecnica del cinema d’animazione disneyano, creò nel 1941 la Deutschen Zeichenfilm GmbH, una ricchissima industria germanica del cartooning, una vera e propria “cinecittà del cartone animato”, dotata di ogni più moderna tecnologia, che negli anni fino al 1945 (gli animatori e le intercalatrici lavorarono fino agli ultimi giorni dell’Europa, quando le orde dell’Armata Rossa già sciamavano per le vie di Berlino) produsse veri e propri capolavori d’animazione che niente avevano da invidiare alle “Silly Symphonies” disneyane; secondo un collaboratore “i film della Disney dovevano essere studiati, sezionati e analizzati al microscopio”; il principe di questo gruppo d’artisti fu Hans Fischerkoesen (1896 – 1973); racconto parte di queste vicende nel volume A casa prima del buio – secondo movimento: scherzo (Aurea Editoriale, 2019).
Alla Biennale di Venezia c’era anche la regista Leni Riefensthal. Biancaneve di Walt Disney e il suo Olympia (l’immaginifico documentario filmico delle Olimpiadi di Berlino del 1936) furono fra le pellicole premiate con il “Leone d’Oro”. La Riefensthal si sarebbe recata in America qualche mese dopo, nel novembre del 1938, per presentare il suo film. Come ebbe a ricordare nel suo libro Memoiren 1902-1945, uscito nel 1987, in quel viaggio trovò ovunque porte sbarrate e boicottaggi, soprattutto nel mondo del cinema statunitense, aizzato dalla Lega Antinazista. Ma qualcuno, che era sempre stato contro le major hollywoodiane e contro chi le controllava, non la respinse:
Fu diverso con Walt Disney, che mi invitò. Ci ricevette nel suo studio la mattina presto e trascorse con noi l’intera giornata. Con pazienza ma anche con orgoglio, ci mostrò come erano realizzati i personaggi dei suoi cartoni animati; ci spiegò come funzionava la sua tecnica d’animazione e ci fece vedere i bozzetti che aveva realizzato per la sua nuova produzione “L’apprendista stregone”. Ero affascinata: per me Disney era un genio, un vero e proprio mago, la cui fantasia sembrava illimitata. A pranzo affrontammo il tema della Biennale, dove avevano gareggiato “Biancaneve” e “Olympia”. Avrebbe voluto vedere entrambe le parti del film sui giochi olimpici. Nessun problema, dissi io. Le copie erano in albergo, bastava solo andarle a prendere.
Disney rifletté, poi disse: “Temo di non potermelo permettere”.
“Perché?” chiesi sorpresa.
Disney: “Se guardo i suoi film, domani lo saprà tutta Hollywood”.
“Ma,” intervenni, “lei ha qui le sue sale di proiezione private, nessuno lo saprà mai.”
Disney, replicò, rassegnato: “I miei proiezionisti sono tutti sindacalizzati, lo scoprirebbero da loro. Sono un produttore indipendente, ma non ho un mio distributore e neppure mie sale cinematografiche. Potrei essere boicottato. Il rischio è troppo alto”.
Quanto fosse potente la Lega Antinazista, lo potetti constatare leggendo la stampa statunitense tre mesi dopo, dopo che avevo già lasciato l’America. Walt Disney fu costretto a dichiarare che non sapeva chi fossi quando andai a trovarlo.
Nei suoi Diari Joseph Goebbels, alla data del 5 febbraio 1939, si chiedeva se non fosse necessario bloccare l’importazione dei film americani in Germania. Infatti quel giorno il ministro incontro la Riefenstahl che era da poco tornata dagli Stati Uniti:
La sera Leni Riefenstahl mi racconta del suo viaggio in America. Mi dà un quadro esauriente tutt’altro che piacevole. Non dobbiamo più far venire niente da laggiù. Gli ebrei governano con il terrore e il boicottaggio. Ma per quanto tempo ancora?
I rapporti commerciali fra la Disney e il Reich germanico si interruppero del tutto nel febbraio del 1940. Ma i tedeschi continuarono ad apprezzare la produzione disneyana. Infatti, secondo Laqua:
I film Disney venivano ancora proiettati sporadicamente nel Reich, anche dopo lo scoppio della guerra. Nessuno era più legittimato a farlo, ma c’erano ancora abbastanza copie che circolavano tra i proprietari di cinema, e chi dall’estero si sarebbe preso la briga di agire contro di essi? Soprattutto a Natale, i vecchi rullini della Bavaria Film furono proiettati ancora e ancora. L’ultima proiezione pubblica nota si svolse alla “Urania Filmbühne” di Amburgo. I film di Topolino, che erano stati messi insieme appositamente per queste esibizioni speciali, venivano ancora lì proiettati nel Natale del 1940. Il cartellone ebbe un tale successo che “Der Film” annunciò il 31 dicembre che le proiezioni sarebbero continuate dopo le vacanze, nei fine settimana. Topolino fu proiettato in pubblico nel Terzo Reich almeno fino al gennaio 1941. Gli operatori dell’industria cinematografica non risentirono delle proibizioni. Nella cerchia interna del mondo del cinema venivano visti film che erano stati vietati al pubblico in Germania o che non venivano proiettati per altri motivi. “Biancaneve” della Disney era popolare fra gli addetti ai lavori. Anche la versione tedesca di “Biancaneve e i sette nani” fu disponibile per queste proiezioni. Già prima del febbraio del 1940 la “Biancaneve” disneyana entrò a far parte del Reichsfilm-Archiv.
Biancaneve fu registrato ufficialmente con la scheda n. 3828 del RFA. Nella scheda veniva indicato il titolo originale in inglese (Snow White and the Seven Dwarfs) con la traduzione in tedesco (Schneewittchen und die 7 Zwerge); venivano indicati il genere (favola) e la tecnica (animazione) del film; si indicavano il produttore (Walt Disney) e il distributore (la RKO); veniva indicato il regista (David Hand) e gli autori del libro dal quale il film era stato tratto (i Fratelli Grimm); c’era poi un lunghissimo elenco di tutti gli artisti che avevano collaborato al film, sia per i disegni, sia per le musiche, sia per i fondali; seguiva una breve trama e un singolare commento:
Il film è il primo lungometraggio animato di Walt Disney. La perfezione tecnica del disegno e del colore e l’abbondanza di idee così come la sua colonna sonora hanno reso il film il più grande successo mondiale. La fiaba dei Grimm è stata interpretata secondo la mentalità americana.
La nota finale della scheda diceva:
Il film è stato valutato tra i dieci migliori dell'anno negli Stati Uniti e ha vinto il Gran Premio alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nel 1938.
Secondo Laqua e altri commentatori ci sono almeno cinque fattori che possono spiegare il successo dell’animazione disneyana in Germania anche durante l’era nazionalsocialista: la passione per i cartoni Disney fra le masse popolari; i grandi profitti che i cartoni garantivano alle sale cinematografiche, ai distributori, e a tutto l’indotto (non ultima l’industria dei giocattoli); il fatto che Disney non fosse un ebreo, che avesse una madre di origini germaniche, e che spesso si opponesse all’industria cinematografica americana delle major, capeggiate da ebrei; il fatto che i cartoni della Disney fossero in gran parte del tutto apolitici; la scelta dei soggetti di molti cartoni disneyani (soprattutto nelle “Silly Symphonies” e in Biancaneve) dimostrava che il cineasta avesse una chiara preferenza per la tradizione fiabesca tedesca.
Parlando delle fonti di ispirazione tedesche per Biancaneve, lo storico John Canemaker, autore di Paper Dreams (Hyperion, 1999), precisa:
I film espressionisti tedeschi, come “Il gabinetto del Dr. Caligari” (1919), furono una fonte di ispirazione. Venivano analizzati, insieme agli altri tipi di film alla scuola d’arte dei Disney Studios. I film espressionisti tentavano di creare una nuova, più profonda realtà traendola dal mondo dell’apparenza esterna; il loro potere deriva dall’atmosfera e dalla tessitura in cui il tono dell’immagine sullo schermo diventa il principale elemento espressivo.
Nell’autunno del 1939 Reinhold Johann Holtz discute alla Facolta di Filiosofia dell’Università di Amburg la sua tesi di dottorato, intitolata Die Phänomenologie und Psychologie des Trickfilms (Fenomenologia e psicologia dei film d’animazione), nella quale si occupa in particolare della produzione americana. Oltre a Walt Disney, anche Max Fleischer e Paul Terry sono riconosciuti da Holtz come i più importanti rappresentanti della più importante scuola di cinema d’animazione del mondo, in un momento in cui questi film cominciano a non essere più proiettati pubblicamente in Germania. In un passaggio della sua tesi Holtz sostiene che il cartone animato americano deriverebbe dal fumetto che, con la sua peculiarità di raccontare storie con molte immagini e poco testo, era molto adatto alla distribuzione fra gli immigrati scarsamente alfabetizzati. Un modo davvero pittoresco di considerare il fumetto:
Per quanto riguarda il suo significato attuale, il cartone animato americano deve le sue origini alla peculiare composizione razziale e linguistica dell’etnia nordamericana e alla conseguente difficoltà di comunicazione interlinguistica in campo psicologico. Per quanto riguarda la genesi del film d’animazione, va notato che questo è molto probabilmente derivato dai fumetti, che occupano un ampio spazio nella stampa quotidiana americana. Ciò che colpisce di questi disegni è la mancanza di spiegazioni testuali. La storia che nasce dalla sequenza di immagini disegnate si comprende, senza alcuno commento scritto, osservando le immagini stesse, arricchite da brevi dialoghi. È ovvio che questo mezzo di comunicazione poteva avere solo negli Stati Uniti una diffusione generale, con le centinaia di migliaia di immigrati di popoli e razze straniere.
Gli anni della guerra
Secondo alcune fonti persino Fantasia (film a episodi che conteneva la sequenza intitolata L’Apprendista Stregone citata da Leni Riefenstahl) fu visto in una proiezione privata da Joseph Goebbels, alla fine del 1940 o agli inizi del 1941, grazie a una copia svedese. Anche questo lungometraggio disneyano, dove la musica classica si fondeva mirabilmente con le immagini animate, entrò nel Reichsfilm-Archiv: nelle note della scheda si diceva che il film non era adatto al pubblico tedesco, in quanto le musiche germaniche venivano fuse con la commedia rosa di stampo hollywoodiano – forse riferendosi al musical. Cartoni animati disneyani, anche quelli propagandistici del periodo bellico, continuarono a entrare nell’Archivio Cinematografico del Reich. Con la fine del 1942 il prestito di film stranieri dal Reichsfilmarchiv divenne soggetto all’approvazione personale del Ministro dell’Istruzione e della Propaganda e solo dietro ordine diretto del Führer in ogni singolo caso. Il 21 ottobre 1944, secondo Laqua, il ministro degli Esteri del Reich Joachim von Ribbentrop e altri gerarchi ordinarono il film di Paperino della Disney Home Defense in visione al ministero. E il 15 gennaio 1945 un’altra richiesta arrivò dall’Ufficio Propaganda del Reich in Alta Slesia: il Gauleiter Bracht voleva vedere il “cartone animato americano Biancaneve“; il motivo ufficiale addotto era che voleva studiarne “l’atteggiamento e le tendenze ostili”; anche questa richiesta fu “approvata dal ministro del Reich Goebbels”.
Joseph Goebbels sarebbe rimasto stupito se avesse letto un certo articolo apparso sulla stampa americana nel 1940 a proposito di Fantasia… Entra nel dettaglio della questione lo storico Steven Watts, autore di The Magic Kingdom: Walt Disney and the American Way of Life (Houghton Miffiln Co., 1997):
Il 25 novembre 1940, Dorothy Thompson pubblicò una lunga recensione di “Fantasia” intitolata “Minority Report” sul “New York Herald Tribune”, che scatenò un grosso putiferio. Dati i sentimenti estremi evocati dall’articolo, non c’era da meravigliarsi. “Ho lasciato il cinema in una condizione che rasentava l’esaurimento nervoso. Mi sentivo come se fossi stata vittima di un’aggressione”, scrisse la Thompson. Il film della Disney, affermò, era “una rappresentazione di contaminazione satanica”, “un incubo spaventoso”, “incredibilmente brutale”. Proseguendo, la sua rabbia cresceva: “Tutto quello che riuscivo a pensare di dire di quella esperienza, mentre barcollavo stordita, era che il film fosse nazista. Questa parola non nasce da una mia ossessione. Il nazismo è abuso di potere, il tradimento perverso dei migliori istinti, il genio di una razza trasformata per magia nera in forza distruttiva, e così è ‘Fantasia’ ”. Disney e il suo film-concerto, accusava la Thompson, aveva lanciato un attacco al “mondo civilizzato” fornendo una morbosa caricatura del “Declino dell’Occidente”. Si concentrava per le sue lamentele su due aspetti. In primo luogo, il film rifletteva una “filosofia sadica, cupa, fatalista, panteista” e antiumanista in cui “la natura è titanica; l’uomo è un lichene in movimento sulla pietra del tempo”. In secondo luogo, insisteva, Disney e Stokowski avevano escogitato un assalto alla cultura civilizzata che si prendeva gioco dei grandi compositori classici. Anche solo la degradazione della sequenza con la colonna sonora di Beethoven avrebbe dovuto essere “sufficiente per scatenargli contro un esercito, se ci fosse abbastanza sangue rimasto nella nostra cultura per difendersi”, scrisse la Thompson con rabbia, prima di notare che si era precipitata in anticipo fuori dal cinema non avendo volendo assistere al degrado conclusivo del film, quello con i pezzi ispirati a Mussorgskij e a Schubert. Dopo che il polverone si posò, il pezzo suscitò una notevole reazione. Howard Barnes, collega della Thompson allo “Herald Tribune”, descrisse quello sfogo nella sua colonna come “pura isteria” e respinse le accuse di “nazismo” come ridicole. Carl E. Lindstrom, critico dello “Hartford Connecticut Times”, si unì al contrattacco. L’uso da parte della Thompson della “mazza nazista è la cosa più incosciente che sia capitata alla musica in molti anni. Dovrebbe vergognarsi”, scrisse.
Continuando a leggere Steven Watts, scoviamo un altro riferimento “hitleriano”. A quanto pare, negli anni ’30, lo staff degli Studios scherzava sui cambiamenti di umore di Disney, parlando di “The Seven Faces of Walt” (“i sette volti di Walt”), che erano i volti di Simon Legree (il proprietario di schiavi del romanzo La capanna dello Zio Tom), del Bountiful Angel (l’angelo che reca doni nella tradizione anglosassone), di Der Führer (Hitler), del Mr. Nice Guy (il “bonaccione” di cui gli altri si approfittano), di Ebenezer Scrooge (l’avaro della novella natalizia di Dickens), di Mickey Mouse e del Diavolo.
Più avanti nel suo saggio Watts tratteggia il ritratto di un Disney del tutto alieno agli intrallazzi delle banche usuraie e incurante del profitto fine a se stesso:
Il disprezzo di Disney per i banchieri e la cultura del denaro divenne celebre fra gli amici e i conoscenti. Ben Sharpsteen, per esempio, ricordava che il primo contabile degli Studios era quasi impazzito poiché il Capo, preso dall’entusiasmo, sperperava soldi come acqua nello sviluppo dei suoi progetti. Secondo Sharpsteen, anche se Disney si rendeva conto che i banchieri gli rendevano possibile fare i film, “non ha mai avuto alcun rispetto per loro”. Quando veniva messo al muro dai suoi contabili per contenere le spese, scattava: “Non posso mettere i contabili a disegnare”. Roy ricordava le opinioni di suo fratello in una versione meno moderata. Durante la realizzazione di “Biancaneve”, disse, Walt ha reagito alle richieste di controllo finanziario esclamando con rabbia che “i banchieri erano solo un branco di dannati figli di puttana”. All’inizio degli anni ’40, i fratelli Disney ebbero un incontro con Joe Rosenberg, il loro contatto alla Bank of America, che chiedeva un taglio delle spese di produzione. Secondo Roy, Walt alla fine esplose: “Sono deluso da te, Joe. Pensavo fossi un tipo diverso di banchiere. Ma si è scoperto che sei solo un dannato, normalissimo banchiere. Presti un ombrello quando c’è il sole, ma quando piove lo rivuoi indietro.” L’aneddoto preferito di Roy, tuttavia, risaliva ai primi anni ’30. Con la depressione che causava enormi problemi, Roy si preoccupava costantemente di ottenere denaro, rimborsare i prestiti e rispettare i libri paga. Ma Walt non era molto d’accordo. “Smettila di preoccuparti”, disse a Roy. “La gente non smetterà di vivere solo perché le banche sono chiuse. Che diavolo, useremo una cosa diversa dal danaro: facciamo delle patate il mezzo di scambio, pagheremo tutti in patate”. Con la sua immaginazione impegnata altrove, Walt non avrebbe mai potuto considerare le banche e le finanze come qualcosa di più di un male necessario. Anni dopo, Disney, ripercorrendo i suoi primi anni di carriera, dichiarò: “Mi ha sempre annoiato fare soldi. Volevo fare cose, volevo costruire cose… Il danaro per me significava solo il mezzo per fare quelle cose”. Sotto molti aspetti Disney si conformava al modello dell’imprenditore del diciannovesimo secolo per il quale il profitto era solo una parte di un calcolo più ampio per arrivare al successo, che comprendeva fattori ugualmente importanti come la realizzazione personale, il progresso morale, lo sviluppo del carattere. In seguito allo sciopero del 1941, Art Babbitt, che fu uno dei capi sindacali dell’agitazione e per questo fu licenziato da Disney, disse che “la visione del mondo di Disney era medievale e che la sua ideologia politica era quella di un cavernicolo”. Denunciò i fratelli Disney come puri America Firsters che credevano che ci fosse un Comunista dietro ogni albero, ogni cespuglio. Secondo Babbit “Walt era un benevolo dittatore al quale non potevi chiedere niente.” Scosso dalle frustrazioni del tempo di guerra, Disney iniziò a trasformare la sua vecchia sensibilità populista in qualcosa di nuovo. Una nozione più oscura e più sulla difensiva dello stile di vita americano cominciò a emergere in lui mentre il gioioso egualitarismo e il populismo dell’era della Depressione evaporavano. La sua vecchia sfiducia nei confronti del monopolio finanziario divampava ancora in alcune occasioni. Il 22 agosto 1944, ad esempio, si alleò con Samuel Goldwyn nel denunciare i maggiori studios di Hollywood che possedevano vaste catene di teatri che discriminavano i film di piccoli produttori indipendenti. In una dichiarazione di sostegno alla crociata di Goldwyn, Disney disse che la questione centrale era di capire “se l’industria cinematografica dovesse continuare a esistere secondo i principi della concorrenza americana o essere strozzata da restrizioni e limitazioni monopolistiche”. Al piccolo produttore, insisteva, doveva essere “permesso di operare senza ostacoli artificiali lanciati sul [suo] cammino da interessi egoistici”.
Gli anni della guerra, dicevamo… Diane Disney Miller, unica figlia biologica di Walt, nel libro scritto in collaborazione con Pete Martin, The Story of Walt Disney (Henry Holt & Co., 1956), ricorda un singolare episodio avvenuto all’epoca all’ombra della Torre Eiffel:
Durante l’occupazione tedesca della Francia, il direttore dell’ufficio di mio padre in Francia, Wally Feignoux, restò a Parigi. I nazisti lo obbligarono a tenere aperto l’ufficio della Disney perché volevano che Parigi sembrasse un posto normale dove si tenevano gli affari come al solito. L’ufficio di Wally era nello stesso edificio dove aveva sede la Gestapo. Un giorno fu portato dabbasso e gli chiesero: “Abbiamo sentito che Disney fa film anti-nazisti. Cosa ne sa?” Wally si tirò fuori dai guai dicendo: “Sta facendo emblemi per i militari, che mettono sulle maniche delle uniformi e sugli aeroplani. Forse vi riferite a questo”. Un’auto di pattuglia tedesca che stazionava lì vicino aveva dipinto sopra un Mickey Mouse – guerra o non guerra, il Topo era ancora un simbolo internazionale – e Wally la indicò dicendo: “Guardate là!”.
Topolino apprezzato dai militari tedeschi in Francia, dunque, al punto da adottarlo come mascotte per i loro veicoli. Infatti, a proposito degli emblemi militari disneyani ricordati da Diane, il primo a essere adottato non fu da parte degli Alleati, come ricorda lo storico Walton Rawls nel suo Disney Don Dogtags (The Abbeville Publishing Group, 1992) e come già avevamo accennato poco sopra:
Cosa strana la grande popolarità internazionale di Topolino avrebbe portato alla prima apparizione di un personaggio disneyano su un emblema militare durante la Guerra Civile Spagnola, da parte della tedesca Luftwaffe! Il Generalleutnant Adolf Galland, asso germanico della Battaglia d’Inghilterra e vincitore di più di cento duelli aerei, compì il suo primo combattimento aereo in Spagna in quanto membro della Kondor Legion, composta di volontari, e molto probabilmente cominciò in questo periodo a decorare il suo Heinkel He51 con un suo emblema personalizzato di Topolino che avrebbe usato sul suo caccia per tutta la Seconda Guerra Mondiale. Anche se a una prima occhiata la figura sembra avere poco a che fare col nostro amato Topolino, è chiaro che è basata su una versione primitiva della star Disney, quando era un po’ più simile a un roditore, con il muso allungato. La grafica delle orecchie, degli occhi, delle zampe e dei piedi – per non parlare dei grandi bottoni dei pantaloncini, tutto sembra rimandare all’aspetto di Topolino negli anni Venti. Certo, gli altri accessori – il sigaro (Galland venne visto raramente senza), la pistola e l’ascia da guerra – erano del tutto estranei al personaggio. Topolino fu usato almeno in un altro caso da un pilota tedesco della Seconda Guerra Mondiale, perché negli Archivi Disney c’è una foto piuttosto confusa che mostra un caccia tedesco abbattuto sopra la Sicilia decorato con Topolino.
Ci sono però alcune inesattezze in questo resoconto. A quanto pare Galland usò infatti almeno due differenti immagini-mascotte di Topolino per i suoi aerei. La prima è quella della Guerra Civile in Spagna, nel 1938, apposta sul suo Heinkel He51 C (III Stormo Jagdgruppe 88, Legione Condor), un Mickey Mouse molto disneyano in quanto a ispirazione; la seconda è quella degli anni Quaranta, periodo della Seconda Guerra Mondiale, con un Topolino più originale, con il paracadute (quello a cui fa riferimento il testo di Rawls), raffigurato sul Messerschmitt 109). E, non uno o due, ma molti piloti germanici usarono Topolino come emblema e portafortuna (in certi casi appare accanto al disegno di un quadrifoglio), sia nella Legione Condor, sia successivamente: Mickey Mouse più o meno armati e più o meno stilizzati. Interesse dunque grandissimo, nel mondo militare del Reich, per la simpatia delle creazioni disneyane.
Il giornalista e grande esperto di fumetto disneyano Franco Fossati, nel volume Topolino (Gammalibri, 1980), si stupiva del troppo debole (o inesistente) antinazismo di Mickey Mouse nel periodo bellico, dimostrato in una storia apparsa in strisce giornaliere fra il luglio e l’ottobre del 1943 sui giornali americani:
In “Topolino e la seconda guerra mondiale”, gli Stati Uniti sono già in guerra e il nostro eroe risponde un annuncio economico in cui si cerca un “robusto intrepido giovanotto per svolgere una rischiosissima missione al servizio del Paese”. Prima di affidargli l’incarico gli agenti del Servizio Segreto lo sottopongono a una serie di test e di difficili prove attitudinali (…). Topolino supera le prove col massimo punteggio. Solo una volta, stranamente, ha una reazione media: quando, posto di fronte a un’immagine di Hitler, l’ago di una specie di galvanometro si blocca su “indifferenza” e non su “odio” o “simpatia”. Naturalmente questa storia non ha pretese di verismo ed è giocata piuttosto sul filo della sottile ironia. (…) Stona solo la reazione di Topolino di fronte all’immagine di Hitler (…).
Nel suo imponente saggio sul fumetto di Floyd Gottfredson, il più grande disegnatore delle strisce giornaliere di Topolino (Floyd & Mickey – Comic Art, 1998), lo storico disneyano Alberto Becattini tratteggia la figura di Eli Squinch, personaggio negativo che appare nella storia a puntate Mickey Mouse and Bobo the Elephant (Topolino e l’elefante, pubblicata sui giornali USA nel 1934):
Nella striscia del 10 settembre si presenta a casa di Mickey un tipo burbero, con basettoni bianchi, occhiali a pince-nez e bastone, il quale dichiara da tempo di essere il legittimo proprietario di Bobo. L’ingobbito, scorbutico personaggio si presenta come Squinch (cognome che rimanda a squint, cioe “malvagio”; curiosamente, nella prima traduzione italiana, il personaggio fu ribattezzato proprio Squint), ma poco più avanti (24 settembre) conosceremo il suo nome completo: Eli Squinch. Ebbene, Eli è un nome di chiara origine ebraica (significa “alto”), ed è evidente come Gottfredson, attaverso questo personaggio arrogante e fondamentalmente disonesto, faccia riferimento allo stereotipo negativo dell’ebreo avido e taccagno, storicamente radicato nella cultura anglosassone (si pensi allo Shylock del “Mercante di Venezia” di Shakespeare).
Commentando invece la storia Mickey Mouse on a secret mission (Topolino nella Seconda Guerra Mondiale, che uscì a puntate sui quotidiani americani fra il luglio e l’ottobre 1943), che aveva in parte scandalizzato Franco Fossati per il suo troppo scarso impegno politico, il critico fiorentino scrive:
Uno che non si è divertito affatto, leggendo questa storia, deve essere stato proprio Adolf Hitler. Anzi, a quanto pare, proprio “Mickey Mouse on a Secret Mission” ha mandato il Führer su tutte le furie (…). Di conseguenza, Hitler imponeva al suo alleato Mussolini (che era molto affezionato a Topolino) di eliminare una volta per tutte Mickey Mouse dalle pagine a fumetti italiane.
Pare strano che sia stato Hitler a imporre a Benito l’eliminazione di Topolino dai giornali per ragazzi: quello della sparizione dei fumetti americani dalla stampa periodica italiana fu un processo lento, graduale. E comunque Topolino nel 1943 non si leggeva già più in Italia. In Germania, poi, per avere riviste a fumetti con materiale disneyano si dovettero aspettare gli anni ’50: prima di disneyano c’erano solo l’animazione e il merchandising. E infatti, quasi venti anni dopo, lo stesso Becattini (nel libro in inglese Disney Comics: the whole Story, pubblicato da Theme Park Press nel 2016) avrebbe affermato:
La prima pubblicazione in tedesco dedicata ai personaggi Disney fu il “Micky Maus Zeitung”, pubblicato dall’editore Bollmann a Zurigo, in Svizzera. La ragione per cui non apparve in Germania era che – nonostante la segreta passione per i cartoni animati di Walt Disney nutrita da Adolf Hitler e dal suo Ministro della Propaganda Joseph Goebbels – il Topo (come tutti i prodotti USA in generale) era ufficialmente non benvenuto in germania all’epoca (nel 1936).
Nel paragrafo introduttivo intitolato Il Topo immortale, del libro complementare e coevo a quello di Becattini, Il grande Floyd Gottfredson (Comic Art 1998), fra le gradi icone del XX secolo gli autori Leonardo Gori e Francesco Stajano elencano Marilyn Monroe, Daffy Duck, Elvis Presley, John F. Kennedy, i Beatles, l’Uomo Ragno, Tarzan, Madonna, Gorbaciov, Hitler, Gandhi, Louis Armstrong, Superman, Charlot, Einstein, Stalin, Roosevelt, Greta Garbo e Topolino. Ancora una volta Hitler e Disney (Mickey Mouse).
E a proposito di razzismo (e di quella che oggi giornalisticamente chiameremo cancel culture), parlando dell’avventura Topolino e il gorilla Spettro del 1937, gli autori scrivono:
La storia, specie nei tristi anni Sessanta e Settanta, è stata tacciata con faciloneria e scarsa intelligenza di razzismo, per il ruolo che nell’episodio svolgono i nativi africani. Questo ci dà l’occasione per ricordare come, negli anni Trenta, una visione del mondo in chiave colonialista ― specie in ambiente anglosassone ― fosse considerata non tanto giusta quanto normale, sia dalla Sinistra che dalla Destra, e in specie dal grande pubblico. I negri del Topolino degli anni Trenta, sempre simpatici e gioviali, ma soprattutto liberi e felici nelle loro foreste e savane ancora incontaminate dalla sporcizia tecnologica e consumistica occidentale, sono maschere godibilissime, come d’altra parte Io sono gli italiani con organino e scimmietta (o al più ortolani), che parlano un inglese sgrammaticato e portano pesanti orecchini e baffi spioventi. Giudicare oggi queste storie, dal punto di vista etico, e soprattutto rimuoverle, è decisamente un atteggiamento ottuso, come sarebbe idiota cercare di “aggiornare” le opere d’Arte ― per dire ― dell’antica Grecia, che vanno sempre e comunque lette tenendo presente il loro contesto.
Il “caso” Eliot
La biografia non autorizzata di Marc Eliot (pubblicata da Brich Lane Press nel 1993), qui già più volte evocata, scoppiò come una bomba nel comicdom italiano nel 1994, quando uscì la traduzione della Bompiani, intitolata Walt Disney – Il principe nero di Hollywood. Il libro non è piaciuto mai a nessuno degli appassionati del Mago di Burbank e ben pochi fra i critici disneyani lo hanno preso in seria considerazione. A “destra” Alessandro Barbera, nei suoi saggi Camerata Topolino e Paperino reazionario, lo stronca impietosamente, come vedremo più avanti. A “sinistra” Antonio Faeti, l’autore dell’imperdibile In trappola con il topo della Einaudi, lo aveva considerato nient’altro che una “specie di lettera anonima firmata” compilata contro di lui; lo scrisse nell’articolo È lui! Quack quack…!, apparso nel novembre 2002 su “Hamelin” n. 2 (uno speciale sul centesimo anniversario della nascita di Walt Disney), dove Faeti affermava, tra le altre cose:
La “disneytà” è un cumulo di riferimenti, un concentrato di componenti di cui, di volta in volta, si avverte la presenza di ‘una visione del mondo’ o di un genere letterario, di un apparato di citazioni o di un a caratterologia, di una scelta morale di una accettazione inconsapevole di una eredità antropologico-culturale o persino etnica. (…) Mi sento di alludere alla sicura grandezza di Walt Disney giustificando questa asserzione con il fatto che appunto a lui si deve l’esistenza di una “disneytà”.
Il risentimento di Eliot verso la Disney (e verso la “disneytà” di cui parlava Faeti) risale all’epoca in cui aveva cominciato a lavorare al suo saggio: all’inizio gli era stato concesso di accedere agli archivi degli Studios, permesso poi rifiutato quando il libro, con tutte le sue pesanti accuse – condite di scherno e dileggio – nei confronti di Walt, aveva cominciato a prendere forma.
Perché questo libro viene dagli esperti considerato poco più che un pamphlet polemico, nonostante sia effettivamente ricco di spunti interessanti? Perché la pars destruens occupa la quasi totalità delle sue pagine e perché numerose sono le inesattezze contenute del volume e altrettanto numerose le ricostruzioni basate su voci tendenziose e interviste rilasciate a Eliot da nemici giurati di Disney; nemici come Art Babbit, il geniale inventore di Pippo, che nel 1941 capeggiò negli Studios un lungo sciopero dei dipendenti legati a un sindacato comunista, la Screen Cartoonist Guild (SCG); ovviamente Disney, che era anticomunista, se la legò al dito e non volle più sentir parlare dell’artista; Eliot, per quanto riguarda il “Disney politico”, basa molti dei suoi ragionamenti sulle ore e ore di colloqui avuti con Babbit nel 1992, poco prima che il disegnatore morisse; sui ricordi di Bill Littlejohn, uno dei fondatori della SCG; sull’intervista a Dave Hilberman, animatore disneyano, ebreo e comunista, un altro dei maggiori ispiratori dello sciopero; sulle memorie di Dave Iwerks, figlio di Ub, il co-creatore di Topolino, che considera il padre come “tradito” da parte di Disney e defraudato del suo importante ruolo riguardo alla nascita di Mickey Mouse. Insomma: molte delle persone contattate da Eliot per realizzare il suo libro avevano motivi più o meno validi per provare astio e risentimento – e forse anche odio – nei confronti di Disney.
L’anticomunismo di Disney è un fatto noto, ma non maturò a causa dello sciopero del 1941 organizzato dal sindacato, come lascia intendere Eliot: esisteva da prima – e già alla fine del 1938 l’aveva lasciato trasparire quando aveva incontrato Leni Riefenstahl. Negli anni Trenta Disney aveva provato una certa simpatia per i socialismi nazionali europei che vedeva piuttosto vicini al suo modo di pensare di conservatore-rivoluzionario, lontano dalla Hollywood capitalista e affamata unicamente di profitto. Una Hollywood d’impronta ebraica che Disney vide sempre come un ostacolo al suo lavoro. Come dice Eliot:
Per quanto i suoi film fossero popolari, Disney rimaneva convinto che il ristretto circolo che controllava i tre rami principali del sistema – produzione, distribuzione e sale – composto soprattutto da immigrati ebrei, avesse congiurato per segregarlo nella produzione, dov’era necessario investire, negandogli pieno accesso alla distribuzione e alle sale, dove invece si facevano i soldi.
Secondo Eliot questa sarebbe stata una mera “convinzione”, quando invece era – e lo è ancora oggi – la pura e semplice realtà. Per Eliot un “mito diffuso e duro a morire” è il dato di fatto che i pionieri del cinema hollywoodiano fossero ebrei immigrati dall’Europa. Questa “leggenda”, secondo Eliot, nascerebbe dal fatto che Thomas Alva Edison, in quanto imprenditore cinematografico si sentiva minacciato, nel primo decennio del Novecento, dalla massiccia espansione dei “nickelodeons”, ovvero i cinema che offrivano la proiezione di brevi film (prodotti dai loro stessi proprietari, grazie a una rete di registi “mercenari”) al prezzo stracciato di un “nichelino”, il nomignolo della moneta da cinque centesimi di dollaro, per l’appunto coniata in nickel. I “nickelodeons” erano spesso detenuti da immigrati ebrei. Per contrastare questa diffusione Edison fondò nel 1908 (non nel 1910 come scrive Eliot) la Motion Pictures Patent Company (MPPC), detta anche Edison Trust, che impedì l’accesso dei “nickelodeons” alla pellicola vergine e ai proiettori, attrezzature sulle quali i brevetti erano di proprietà di Edison. Per difendersi dal Trust un gruppo di imprenditori cinematografici ebrei di origini europee, guidati dal già citato Carl Laemmle (nato in Germania), fondarono nel 1909 la Indipendent Moving Picture (IMP), con la quale importarono illegalmente, di contrabbando, pellicole e attrezzature. Nel 1912 la IMP si associò con altre piccole compagnie indipendenti, e, per sfuggire al Trust, l’industria cinematografica americana si trasferì dalla costa orientale, dove aveva mosso i primi passi, alla costa occidentale, in California, dando vita a quella che sarebbe diventata “la mecca del cinema”, Hollywood; la fusione di quelle prime compagnie ebraiche, nel 1914, avrebbe portato alla nascita della Universal – ancora oggi esistente.
Negli anni Venti – sempre secondo Eliot – i cineasti ebraici avrebbero sofferto di continui attacchi antisemiti da parte del governo e dell’imprenditoria (Henry Ford era un convinto assertore del pericolo costituito dal “complotto internazionale ebraico”). Gli scandali della “Hollywood Babilonia” (omicidi, delitti sessuali, droga, alcolismo, etc.) convinsero il governo a varare un organo di censura per il cinema. Le compagnie si difesero nel 1922, creando in anticipo sul governo un loro organo di autoregolamentazione, la Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA), al capo della quale misero il Ministro delle Poste William Hays, non ebreo, ma cristiano presbiteriano. I problemi non furono però risolti: cineasti e attori ebraici continuavano a lamentarsi.
Nel 1929 ci si mise poi di mezzo anche William Randolph Hearst, proprietario della più grande catena di giornali americana, indistruttibile manovratore dell’opinione pubblica (la Guerra Ispano-Americana del 1899 era scoppiata anche grazie alle sue campagne di stampa, nelle quali ebbero un ruolo di primo piano le straordinarie vignette satirico-politiche create dal suo strapagato staff di maestri disegnatori, tra i quali i pionieri del fumetto Winsor McCay e Richard Felton Outcault) e fondatore del King Features Syndicate (KFS), la più grande agenzia di diffusione delle strisce e delle tavole domenicali a fumetti sui quotidiani; quando, nel 1930, partì la versione fumettistica di Mickey Mouse, le strisce furono distribuite proprio dal KFS; si racconta che Walt Disney, quando nel 1959 realizzò La Bella Addormentata, si fosse ispirato per il castello, oltre che ad architetture germaniche, anche alla folle e tentacolare Xanadu, la dimora della parodia di Hearst rappresentata da Orson Welles nel suo film Citizen Kane del 1941; W. R. Hearst aveva un enorme simpatia per i socialismi nazionali europei; non a caso sui suoi giornali apparvero negli anni articoli di Benito Mussolini (in collaborazione con Margherita Sarfatti) e di Adolf Hitler, come sostiene, fra gli altri, lo storico inglese Ian Kershaw, nel suo gigantesco e negativo affresco storico Hitler, pubblicato nel 1998:
Il nuovo capo-ufficio stampa estera di Hitler, Putzi Hanfstaengl, riuscì a piazzare tre articoli di Hitler sugli obbiettivi del movimento (nazionalsocialista, N.d.R.) sulle pubblicazioni Hearst, la potente catena di giornali americani, per un ragguardevole compenso di 1.000 dollari ciascuno.
Può essere questo uno dei motivi (una sorta di benigno “conflitto d’interessi”) per cui, all’epoca delle sanzioni contro il fumetto (e il cinema d’animazione) americano in Europa, le storie (e le pellicole) di Topolino furono le ultime ad andarsene – sia dall’Italia, sia dalla Germania: il KFS distribuiva Mickey Mouse e aveva pubblicato articoli di Mussolini e di Hitler.
Secondo Eliot Hearst lanciò una dura campagna contro il mondo (ebraico) corrotto di Hollywood, stimolando il governo a reagire, e del senato americano si fece portavoce l’onorevole Smith Brookhart, per il quale le compagnie cinematografiche hollywoodiane erano guidate da un “branco di giudei”.
Laemmle, a capo delle major, si rivolse così a Disney, vedendo nei cartoni animati di Topolino un’occasione per portare aria pulita nel marciume hollywoodiano; ma Laemmle era proprio colui che, come giustamente ricorda Eliot, a Disney “aveva fatto perdere Oswald, tagliandolo fuori dal circuito della grande distribuzione”; il coniglio Oswald era stato il primo successo di Disney nel mondo dell’animazione, ma gli era stato “soffiato” da Laemmle per una questione di diritti, cosa che lo spronò a creare un nuovo personaggio, Mickey Mouse. La cosa ancora gli bruciava e quando Laemmle gli fece un’offerta strepitosa, in denaro, attrezzature e collaboratori, chiedendo però i diritti su Topolino, Disney gli sbatté la porta in faccia. Eliot legge in questo comportamento una prova dell’antisemitismo di Disney. Ma forse era solo voglia di indipendenza, seppur da un mondo, come quello del cinema, governato da ebrei.
Disney fu sempre, infatti, un imprenditore indipendente, che rischiò grosso, con i suoi propri soldi, per inseguire le proprie passioni artistiche. Biancaneve del 1937, il primo lungometraggio animato della storia, fu una sfida commerciale “al buio”, perché in America i cartoni animati erano stati fino ad allora cortometraggi e venivano proiettati nei cinema come “pellicole di supporto” per film con attori in carne e ossa; non avevano vita propria, dal punto di vista della distribuzione nei cinema; fu viaggiando in Europa nell’estate del 1935 – l’Europa di Mussolini e di Hitler – che Disney si accorse che i cinema di Parigi (ma pure quelli di Berlino) proiettavano cartelloni di cartoni animati senza nessun film da “appoggiare” e che la gente faceva la fila e pagava per vedere 90 minuti di soli cartoni con Mickey Mouse e compagnia; il progetto di Biancaneve nel 1935 era già partito da due o tre anni, e quello che vide in Europa lo rincuorò, convincendolo definitivamente che i lungometraggi d’animazione avrebbero potuto avere un futuro. Con Biancaneve vinse la prima scommessa, e con Pinocchio la seconda. Fantasia del 1940 fu una sfida ancora più grande: conciliare la grande musica europea (italiana, germanica e russa) con le più moderne tecniche di animazione; il visionario episodio di apertura, la Toccata and Fugue in D Minor, dove forme e colori si muovono in sincrono con la colonna sonora, fu in parte realizzato dall’animatore tedesco Oskar Fischinger, maestro dell’animazione astratta. Il film fu però un fiasco – il primo – e Disney, per non affondare definitivamente (dal disastro commerciale di Fantasia la Disney si riprese solo negli anni ’50, grazie soprattutto al merchandising e al parco tematico di Disneyland in California), dovette scendere a compromessi con il governo e con l’esercito degli Stati Uniti: i militari, dopo Pearl Harbour, occuparono praticamente gli Studios (la figlia Diane, nel libro The Story of Walt Disney, parla di “settecento soldati”) e imposero a Disney – che non era mai stato un pacifista, ma era contro l’intervento degli USA nella guerra europea – di realizzare una serie di cartoni animati propagandistici contro l’Asse (che, da un punto di vista tecnico e della sceneggiatura, sono indubbiamente dei capolavori); un’altra forzatura anti-europea alla quale Disney fu costretto furono i film animati a episodi “sudamericani”: Saludos Amigos del 1942 e The Three Caballeros del 1944, pensati per rafforzare il legame fra USA e paesi dell’America Latina, sempre in funzione anti-Asse.
Un altra prova dell’antisemitismo di Disney sarebbe stato, secondo Eliot, il legame di ferro che il cineasta strinse con l’avvocato di origini germaniche Gunther “Gunny” Lessing, suo assistente legale personale dal 1930 al 1965. Tutto iniziò quando Disney acquistò da Pat Powers il sistema Cinephone che gli permise di creare l’idea stessa del cartone animato sonoro, grazie alla sincronizzazione della colonna sonora con la pellicola di immagini; il Cinephone fu uno dei motivi del grandissimo successo di Steamboat Willie, il primo cartone di Mickey Mouse a venire distribuito; agli albori della vita del Topo il distributore era proprio Pat Powers con la sua Celebrity Pictures (legata al gruppo di Laemmle), ma il genio si “dimenticò” di dare una parte del dovuto a Disney. Quando fu scoperto, Disney lo affrontò spalleggiato legalmente da Lessing e se ne andò in cerca di un altro distributore. Dopo aver scartato Mayer della MGM optò per Harry Cohn, il boss della Columbia Pictures. Secondo Eliot, “Cohn era noto per la sua ammirazione per Mussolini, talmente forte da avergli fatto trasformare il suo ufficio di New York in una replica esatta di quello del Duce”. Quando Disney pochi anni dopo ruppe anche con la Columbia, per la sua innata insofferenza nei confronti della major, Laemmle tornò all’attacco, ma Disney rifiutò di nuovo di fare affari con il “ladro” di Oswald, scegliendo la United Artists, guidata da Joseph Schenck.
La baracca di tutto il libro di Eliot si regge sul fatto che la vita di Disney sarebbe stata una menzogna fin dall’inizio: non quello “zio” bonaccione che negli ’50 e ’60 appariva in TV e che produceva cartoni, documentari e film per famiglie, ma un essere oscuro, cresciuto a suon di legnate da parte di suo padre – Elias Disney – che forse non era nemmeno tale, essendoci il sospetto che Walt fosse un figlio adottivo, nato all’estero e chissà quando. Secondo Eliot, quando Disney intendeva arruolarsi fra i combattenti americani durante la Prima Guerra Mondiale, pur non avendo l’età giusta per farlo, venne in possesso di un documento che attestava la sua nascita non il 5 dicembre 1901, ma l’8 gennaio 1891. Eliot inserisce nel corredo iconografico del volume la copia autenticata di questo strano certificato, ma qualcosa non torna nella sua ricostruzione. Lo abbiamo spiegato noi stessi su “il Giornale dei Misteri” n. 334 dell’agosto 1999, uno speciale Inquietante fumetto, nel paragrafo Disney principe nero?, parte dell’articolo Un secolo di enigmi – segreti e stranezze nel mondo dei fumetti:
La prima incognita (nella vita di Walt) riguarderebbe la data di nascita: laddove le biografie ufficiali riportano il 5 dicembre 1901 la versione di Eliot (che non è riuscito a trovare l’esistenza di un certificato di nascita a nome Walt Disney riferibile a quel preciso giorno, e per questo avanza l’ipotesi di un’adozione del ragazzino) è dubitativa. Nel suo libro Eliot riproduce un atto di nascita a nome Walter Disney datato 8 gennaio 1891, ma sembra confondersi (sia nel testo, sia nella didascalia dell’immagine) e non accorgersi che quella è la data di produzione del documento e non la data di nascita del bimbo a cui l’atto farebbe riferimento.
La data di nascita èvisibile più in alto ed è il 30 dicembre 1890; quel giorno – guarda caso – nacque Raymond Arnold Disney, primogenito di Elias e Flora Call Disney. A quanto pare, dunque, Eliot è venuto in possesso non del presunto vero certificato di nascita (ritoccato o meno da ignoti) di Walt, bensì dell’attestato del fratello maggiore, seppur contraffatto: infatti, osservando attentamente il nome “Walter Disney” si ha il sospetto che sia stato tracciato da una mano diversa da quella che ha vergato il resto del documento. Sono stati i genitori di Walt, che volevano tenergli segreto il fatto dell’adozione, ad alterare il documento? Leggendo le congetture di Eliot è possibile figurarselo. A contribuire a ingarbugliare la faccenda c’è poi il fatto, storicamente accertato, della correzione che Disney stesso apportò su un documento (attribuendosi un anno più) per essere arruolato.
Nel suo libro Eliot riporta dunque il sospetto che Disney non sia nato negli USA, ma in Spagna e che il suo vero nominativo, prima dell’adozione, fosse un altro. La notizia, che ogni tanto riappare e viene costantemente smentita, fu proposta come “scoop” anche dal “Corriere della Sera” nel 2001 (quando Eliot la riportava già nel 1993):
Walt Disney non era americano ma spagnolo, figlio illegittimo di un medico e di una lavandaia di Almeria: è quanto riporta il “Sunday Times”. La vera città natale di Disney non fu Chicago bensì Mojacar, villaggio nel sud della Spagna. Nato da una relazione segreta tra Gines Carrillo e Isabel Zamora Ascension, che a Chicago avrebbe dato in adozione il piccolo ai coniugi Disney.
Di questa leggenda urbana sulla nascita spagnola di Disney/Zamora se ne parla almeno fin dai primissimi anni Quaranta. Carsten Laqua, nel suo saggio, riporta un interessante scambio di lettere fra due autorevoli “fan” tedeschi dell’animazione disneyana:
Caro dottor Cürlis! Durante la proiezione di un film di Walt Disney, mi ha informato che Walt Disney era presumibilmente tedesco. Ora trovo un articolo sulla rivista spagnola “Primer Piano”, la cui traduzione allego, in cui si intende dimostrare che Walt Disney è di origine spagnola. Le sarei grato se mi facesse sapere quello che sa sulle origini di Walt Disney e mi rimandasse l’articolo con i suoi commenti. Molte grazie per il suo impegno. Heil Hitler! Il vostro molto devoto Schwarz.
Cürlis rispose due giorni dopo:
Caro Dr. Schwarz! In una conversazione dopo la proiezione del film “Biancaneve” di Walt Disney, ho sentito affermare che Walt Disney era tedesco, che si chiamava Walter Distler e che aveva lavorato in Germania molti anni fa. Non so quale sia la fonte di questa notizia. Ho sentito dire qualcosa del genere anni fa. Questa presunta origine tedesca mi sembrava una cosa notevole, soprattutto perché spiegherebbe le fiabe tedesche di Disney. Proprio per questo ho letto con grande interesse gli articoli che mi sono stati gentilmente inviati. Nonostante la mancanza di documenti e nonostante il fatto che spesso ci siano contraddizioni sui luoghi di nascita di uomini di grande fama, le informazioni contenute nell’articolo difficilmente lasciano dubbi sull’origine di Disney. Grazie per questo chiarimento e allego l’articolo con i migliori saluti. Heil Hitler! Il suo sempre devoto, Cürlis
In effetti, Walt Disney, nato in America, di origine tedesca aveva solo la madre. È interessante sapere chi fosse così interessato alle origini di Disney nel maggio 1941: il Dr. Günther Schwarz fu Presidente della sezione film stranieri della Reichsfilmkammer fino al 1938; poi assunse la direzione della Facoltà di Economia del Cinema della neonata Deutschen Filmakademie di Berlino; nel 1939 Max Winkler lo portò alla Cautio Treuhandgesellschaft GmbH come addetto all’esportazione di film; Schwarz continuò comunque a lavorare anche con la Reichsfilmkammer. Per quanto riguarda il Dott. Hans Cürlis, nel 1919 fondò l’Istituto per la Ricerca Culturale, il cui Dipartimento Cinematografico fu convertito nel Kulturfilm-Institut GmbH dai nazisti nel 1933; Cürlis ne fu il direttore fino al 1945; dopo la guerra fu nominato docente d’arte e cinema quando fu fondata la Libera Università di Berlino; in 40 anni, Cürlis produsse circa 500 documentari. Non sorprende che ciò che questi due luminari degli studi cinematografici ritenevano fosse la verità sulle origini di Disney fosse ancora rimasticata dal celebre Archivio Munzinger di biografie nel 1948. L’inizio della voce su Walt Disney recitava come segue:
Walt Disney, nato il 15 dicembre 1901 a Majocar nella provincia di Almeria in Spagna, si chiamava originariamente Jose Luis Guirao Zamora. Suo padre, Jose Guirao, e sua madre, Isabel Zamora Asensio, emigrarono in America con il loro figlioletto nel 1903, a causa di una carestia. Iniziarono a lavorare in una fattoria di proprietà di un certo signor Disney. Quando i genitori morirono prematuramente, i Disney adottarono il ragazzo, che divenne così americano.
Solo nel 1967 questa voce è stata cambiata nell’Archivio con una versione corretta, tale e quale a quella che oggi può essere letta in tutte le biografie di Disney.
Fra gli errori e le omissioni del libro di Eliot forse il più vistoso è quello che riguarda il noto Gran Tour europeo compiuto da Walt e Roy Disney – e rispettive consorti – nel 1935, organizzato da Roy per risollevare il morale del fratello sovraffaticato dal lavoro, per motivi turistici e per portare a termine svariate trattative commerciali nei vari paesi. Il gruppetto si recò nel Regno Unito (Inghilterra e Scozia), in Francia, In Germania, in Austria, in Svizzera e in Italia. Per quanto riguarda la tappa italiana ancora oggi si discute se i Disney abbiano incontrato la famiglia Mussolini (sicuramente sì), il Duce in persona (probabilmente sì) e il Papa (assolutamente no); la tappa tedesca, in Baviera, fu molto proficua per i Disney, in quanto trovarono un migliore distributore delle loro pellicole, poterono ammirare paesaggi dall’aspetto davvero fiabesco, e fecero man bassa nelle librerie di straordinari tomi illustrati in lingua tedesca che avrebbero utilizzato per Biancaneve (film al quale Disney aveva iniziato a pensare già dal 1932 per poi iniziare a lavorarci seriamente nel 1933) e per altri progetti. Eliot colloca questo viaggio nel 1937; insieme a Walt, Lillian, Roy ed Edna ci mette anche Bill Cottrell (sceneggiatore disneyano, regista di Biancaneve) e consorte; accenna soltanto alla tappa inglese, a quella italiana e a quella francese – tralasciando tutta l’area germanica; leggendo le note al volume pare che Eliot desuma la data falsa del 1937 per il viaggio di Disney in Europa da un articolo di Anthony Slide pubblicato su “Film Comment” vol. 27, n. 4, del luglio/agosto 1991, intitolato Hollywood’s Fascist Follies; riferendosi all’articolo Eliot dice che sia Giannini, il fondatore della Bank of America, sia Disney condividevano l’ammirazione per Mussolini; nell’articolo, però, l’unico riferimento a Disney è in relazione al viaggio che Leni Riefenstahl fece negli USA alla fine del 1938 per presentare e promuovere il suo film sulle Olimpiadi del 1936; Slide dice che tutti i cineasti hollywoodiani la boicottarono eccetto Disney che la intrattenne con un tour di tre ore nei suoi Studios (come già sappiamo).
Nel 1938 Disney si associò alla SIMPP (Society of Indipendent Motion Picture Producers), che intendeva riunire i produttori indipendenti contro le major hollywoodiane; di questa società facevano parte, tra gli altri, James Cagney, Charlie Chaplin, Mary Pickford, David Selznick e Orson Welles. Secondo Elliot, quando Disney entrò nella SIMPP iniziò la sua attività politica pubblica, istigato dal suo avvocato Gunther Lessing che accompagnava “ai raduni del partito nazista americano”. Poi Elliot riporta alcune dichiarazioni di Art “Goofy” Babbitt:
Negli anni immediatamente precedenti l’entrata in guerra, il partito nazista, che penso fosse legale, ebbe un seguito limitato ma convinto. “Mein Kampf” si trovava in ogni edicola di Hollywood. Nessuno mi chiese di andare a uno dei loro raduni, ma ci andai di mia iniziativa, per curiosità. Erano aperti a tutti, e volevo rendermi conto di persona che cosa bollisse in pentola. In più di un’occasione notai Walt Disney e Gunther Lessing, insieme ad altri illustri personaggi hollywoodiani vittime del morbo nazista. Disney ci andava sempre. Venni anche invitato a casa di noti attori e musicisti, tutti attivisti del partito nazista americano. Lo riferii a una mia amica, che allora era una redattrice del “Coronet”, che mi spinse a prendere nota di quanto vedevo. Aveva dei contatti con I’FBI, e girava a loro le mie relazioni.
Più che di “partito nazista”, sarebbe più corretto parlare di German American Bund, un’organizzazione – sicuramente collegata al Nazionalsocialismo – che raccoglieva americani e immigrati di origini tedesche (tra cui Lessing)
Probabilmente – continua Eliot, commentando le parole di Babbitt – se Disney mostrava simpatia per il movimento nazista americano era per riguadagnarsi quei mercati europei un tempo redditizi, dai quali, adesso, erano stati banditi i suoi film. Allo stesso scopo Disney si legò al comitato nazionalista e anti-interventista noto come “America First”, e divenne una delle personalità di Hollywood più attive sul fronte dell’isolazionismo. Sotto la guida di Lessing, Disney scoprì come le passioni e gli strumenti della politica potevano essere utilizzati per il proprio tornaconto. Nonché, in un secondo momento, per la propria vendetta.
Per quanto riguarda i due cartoni animati che Disney realizzò nel 1941/42 per il mercato sudamericano Eliot inquadra il progetto in un accordo fra l’FBI e Roy Disney:
Temendo sia per la situazione economica dello Studio sia per la salute del fratello, Roy architettò un piano per allontanarlo da Hollywood finché non fosse stato raggiunto un accordo: a questo scopo chiese direttamente aiuto a J . Edgar Hoover. Nacque così l’idea di quel viaggio in Sudamerica, che in genere si attribuisce a John Jay Whitney, responsabile della divisione cinema del coordinamento degli affari interamericani. Roosevelt, preoccupato per la crescente influenza nazista nei paesi sudamericani, aveva nominato Nelson Rockefeller coordinatore ufficiale degli affari interamericani. Rockefeller aveva già patrocinato progetti cinematografici di Darryl F. Zanuck e di Orson Welles, e Hoover suggerì a Roosevelt che anche Disney avrebbe dovuto essere della partita. Roosevelt passò l’idea a Rockefeller, che propose a Disney la missione. Walt dapprima declinò l’invito, temendo di dare l’impressione di fuggire dallo sciopero: che era esattamente ciò che voleva Roy. Per convincerlo, i l governo gli offrì un finanziamento di centomila dollari per girare due film durante il viaggio. Inoltre, gli fece notare Roy, il ruolo di “ambasciatore culturale” degli Stati Uniti avrebbe giovato alla sua immagine, allontanando le nuove voci di simpatie filonaziste, attizzate dalla frequenza con cui “Walt si faceva vedere assieme a Charles Lindbergh ai raduni dei nazionalisti dell'”America First”. Coloro che, come Disney, si opponevano con maggiore veemenza al coinvolgimento del paese nella guerra, erano inevitabilmente sospettati di simpatia per le forze dell’Asse. Ci fu chi cominciò a vedere messaggi cifrati nelle opere di Disney: compresa, una volta, una svastica nell’ultima tavola di un fumetto di Topolino del 19 giugno 1940. Disney non curava molto le strisce a fumetti che apparivano ogni giorno sui giornali. In ogni caso, sull’ultima tavola compariva sempre la dicitura “by Walt Disney” e, in basso, la celebre firma tondeggiante. In seguito a una segnalazione anonima, la faccenda arrivò sul tavolo di Hoover. Una lettera, indirizzata al capo dell’FBI e firmata da un “fan di Disney”, diceva: “Nell’ultima tavola del fumetto due note incrociate formano inequivocabilmente una svastica… Forse Disney non è un simpatizzante nazista… ma qualunque cosa significhi, lei è la persona che ne deve essere informata.” Hoover mise la lettera nell’incartamento di Disney e considerò la questione chiusa.”
Se è vero il collegamento fra Charles Lindbergh e gli ambienti nazionalsocialisti (nel 1936 ricevette una medaglia in Germania da Hermann Göring e nel 1941 intervenne come oratore alle assemblee pubbliche di America First) la cosiddetta “svastica” nel fumetto è in realtà un fraintendimento. Nella striscia giornaliera della storia Topolino e la barriera invisibile pubblicata il 12 giugno del 1940 (non il 19: l’ennesimo errore di Eliot), in una vignetta vediamo Pippo esibirsi in una stonatissima canzone western, nel balloon, per meglio rendere l’idea, vengono rappresentate alcune note musicali in libertà; due di queste, nella versione originale della striscia, si incrociano e occorre veramente tanta fantasia per vederci una svastica!
Non solo nei fumetti: anche nei cartoni animati di Disney sarebbe apparsa la svastica – l’avevamo anticipato – come decorazione di un accendino apparso nel cortometraggio della serie “Mickey Mouse” intitolato The Wayward Canary (1932). Si è detto da più parti che Topolino usava questo “accendino nazista”. Le cose stanno un po’ diversamente. Topolino va in visita a casa di Minni, la sua eterna fidanzata, e le porta in regalo un canarino in una gabbietta; insieme al pennuto adulto ci sono nella gabbia anche una alcuni microscopici pulcini, che si mettono a svolazzare nel salotto; poggiato insieme ad altri oggetti su un tavolo si vede in effetti un grosso accendino tipo Zippo con una svastica disegnata sopra; una fiammata emessa da questo marchingegno brucia la coda di uno dei pulcini e succede da questo momento in poi una serie incredibile di disastri a catena. L’accendisigari non viene dunque usato da Topolino, ma appare come una sorta di deus ex machina grazie al quale il cartone, che fino a quel punto procedeva con andamento idilliaco, acquista un ritmo indiavolato. Perché la svastica? Il film, diretto da Bull Gillett (uno dei primi collaboratori di Disney fin dal 1929) uscì nei cinema nel novembre 1932: anche se Hitler avrebbe ottenuto il cancellierato solo due mesi dopo, erano anni che faceva parlare di sé in tutto il mondo. La svastica sarebbe dunque stata introdotta come critica negativa verso il Nazismo (ricordiamo che la fiamma dell’accendino è l’elemento che scatena i disastri). Ma la cosa strana è che Gillett, nel 1933, avrebbe diretto proprio I Tre Porcellini ovvero la “Silly Symphony” tanto criticata per l’apparizione di Ezechiele Lupo nei panni di un infingardo piazzista ebreo!
Archiviate le questioni delle svastiche nei fumetti e nei cartoni animati disneyani, continuiamo la nostra lettura dell’opera di Eliot:
Quando, nel mese di maggio del 1943, la National Conference of Christians and Jews, la conferenza nazionale dei cristiani e degli ebrei, chiese aiuto a Disney per promuovere un messaggio di unità alla luce di quanto succedeva in Germania, Disney decise che era troppo. L’organizzazione si era rivolta in un primo tempo a un produttore indipendente, Sol Lesser, con il progetto di “una specie di favola esopica sul tema dei pregiudizi”: gli animali di una fattoria decidevano di tenere “una tavola rotonda per smettere di usare espressioni di scherno contro galline e pettirossi”. Il messaggio morale sarebbe dovuto emergere da un dialogo “arguto”: “Bisogna giudicare ogni animale secondo i suoi meriti. Le differenze non fanno alcun male. Per difendersi bisogna essere uniti.” Lesser avrebbe dovuto chiedere a Disney la collaborazione del suo Studio: ma Walt gli rispose subito picche, sostenendo che si trattava dell’ennesimo tentativo – appena camuffato – di diffondere il comunismo negli Stati Uniti. Altrimenti, fece notare, cosa mai potevano rappresentare i pettirossi? Prima che Hollywood fosse invasa dai comunisti, qualcosa comunque si doveva fare. Walt cominciò a studiare strategie per far fronte a coloro che credeva minacciassero il fondamento democratico del paese. Il passo successivo fu cercare le migliori reclute per questa nuova missione. Per conto suo, la guerra era appena iniziata.
Del Disney “fascista” si è occupato anche il sottoscritto in vari interventi, la versione più completa dei quali appare nel volume Fumetto a ferro e fuoco (Amazon , 2020):
Ma perché Disney sarebbe stato un “fascista”? L’etichetta gli venne attaccata in virtù dalle sue ben note e mai celate idee antibolsceviche e anticomuniste (tanto che si hanno tracce di una sua effettiva collaborazione con l’FBI in funzione antisovversiva), e da certe sue frequentazioni – in particolar modo dall’amicizia e ammirazione nei confronti dell’asso dell’aviazione Charles Lindbergh. Il trasvolatore oceanico era infatti – lui sì – un aperto simpatizzante dei “socialismi nazionali” (nel 2004 lo scrittore statunitense Philip Roth ci imbastì sopra la trama del suo avvincente romanzo di fantapolitica “Il complotto contro l’America”, catalogabile nel filone delle ucronie e distopie). Lindbergh fu più volte in Germania in visita ufficiale negli anni Trenta (per studiare i progressi dell’aviazione tedesca) e universalmente conosciuta fu l’onorificenza che ricevette da Hermann Göring in persona (l’evento fu persino oggetto di svariate foto, facilmente visibili in Rete), una medaglia che non volle mai sconfessare, nemmeno dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, neanche su insistenti pressioni dalle alte sfere; l’aviatore vedeva ne
lla Germania di Hitler un baluardo dell’Occidente contro lo stalinismo; appoggiò tutte le iniziative dell’America First Comittee, organizzazione fondata nel 1940 per sostenere la non belligeranza degli USA e contraria alla politica roosveltiana; la moglie di Lindbergh fu accusata più volte dal governo di Washington di fare propaganda “nazista” con i suoi romanzi. Disney era entusiasta di Lindbergh e secondo Babbitt (ed Eliot, di rimando) sosteneva anche lui i progetti di America First. Il primo cartone animato della serie “Mickey Mouse” a essere prodotto, nel 1928, fu “Plane Crazy”, anche se poi venne distribuito solo come quarto, nel 1929, dopo l’aggiunta della colonna sonora. In “Plane Crazy” il nostro Topolino sogna di volare in aereo rivivendo le imprese di Lindbergh (che compare ritratto da Ub Iwerks); questo cartone animato, che ribadiamo essere stato il primo della serie, ebbe successivamente una riduzione a fumetti; questa fu oggetto della prima sequenza di strisce della prima avventura in assoluto del Topo, pubblicata negli USA dal gennaio al marzo 1930 con il meccanismo distributivo delle strisce giornaliere “sindacate” (cioè distribuite ai vari giornali da un’agenzia, il King Features Syndicate di New York – i fumettisti disneyani non lavoravano direttamente per la Disney, ma per le agenzie o per le case editrici che avevano acquistato i diritti dei personaggi nati per il cinema). Lindbergh, che appariva anche nella trasposizione fumettistica, è dunque il “nume ispiratore” sia del primo cartone animato, sia della primissima storia di Topolino! In Italia tale episodio cominciò a essere pubblicato, in ordine non cronologico delle strisce, dal settimanale “Illustrazione del Popolo”, supplemento del giornale torinese “La Gazzetta del Popolo”, a partire dal n. 13 del 30 marzo 1930. La sequenza con l’aviatore americano verrà intitolata “Topolino emulo di Lindbergh” e apparirà sull’ebdomadario qualche mese dopo; solo nel 1934, con Nerbini, questa prima avventura verrà ricomposta fedelmente, con la dicitura “Le audaci imprese di Topolino nell’Isola Misteriosa”.
Un altro celebre personaggio, stavolta del mondo dello spettacolo, che condivideva le idee ultra-conservatrici di Walt Disney fu John Wayne (1907 – 1979), celeberrimo attore americano specializzato in film western. Negli anni ’70 Wayne – che fra il 1949 e il 1953 fu presidente dell’anticomunista Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, della quale faceva parte Disney, Reagan e Ginger Rogers – parlò degli aspetti “politici” della visione del papà del Topo, in un intervento (forse tratto da un’intervista) che il settimanale “Sorrisi & Canzoni TV” riprese qualche tempo dopo:
Siamo la vecchia Hollywood, Disney e io, anno più anno meno siamo nati assieme. Topolino è un po’ più vecchio di me, ma Paperino no. Ricordo benissimo: erano gli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale. Quando i cartoni animati erano cortometraggi in bianco e nero che si proiettavano assieme al film normale, nell’atrio del cinema veniva posto un cartellone con l’immagine di Topolino e sotto la scritta: “Oggi lavoro io!” Il film poteva essere un colosso storico, una storia d’amore, una commedia sofisticata hollywoodiana, un western… E il western ero io. Il genere si andava facendo psicologico, i caratteri contavano quanto le avventure. Ma la base era sempre l’azione, cavalcate, inseguimenti, sparatorie, pionieri, l’ “arrivano i nostri”, il trionfo della giustizia. Queste “favole” (oggi amaramente è il caso di chiamarle così), trovavano riscontro nelle favole di Walt Disney. Le une e le altre sono fenomeni americani. C’è l’esigenza di fare l’ottimismo, la fede in certi valori, una grande e sincera pulizia morale. Film per le famiglie e “per tutti”. Il discorso si fa ancora più chiaro, se ascoltiamo le musiche di questi film. Temi facili e orecchiabili, epici o drammatici, romantici o allegri, di quelli che conquistano subito il pubblico di tutto il mondo. Con qualche capolavoro ogni tanto. Oggi tutti questi valori sono stati attaccati, dissacrati. Disney non osano buttarlo a mare e lo salvano (bontà loro) imbottendolo di contenuti etico sociali, psicanalitici, storico-pedagogici e di costume. Di me e dei mie film, a parte quelli girati con John Ford, è di moda dire tutto il male possibile. Mi hanno dato del razzista, del fascista, dell’imperialista. Certo, forse il gran torto di Disney e mio è quello di aver sempre voluto far quadrare i conti, di aver conciliato arte e industria, spettacolo e cassetta. I miei saranno discorsi da vecchio nonno, da attore businessman ormai prossimo al ritiro. Ma anche Disney, sul finire della vita, sei sentiva sempre più un vecchio nono saggio con i piedi piantati per terra.
Successivamente, tornando a Eliot e alle sue opinioni, l’antisemitismo di Walt Disney sarebbe sfociato nell’anticomunismo viscerale che lo avrebbe caratterizzato fino alla morte – e soprattutto negli anni Cinquanta. Ne parleremo su “EreticaMente” in un prossimo intervento. Per concludere il nostro commento alle pagine di Eliot che si occupano del Walt Disney vicino alla “visione del mondo” nazionalsocialista, riportiamo un episodio di colore, che coinvolge Sharon Disney, la figlia adottiva di Walt:
La scuola che frequentava era piena di rampolli delle celebrità di Hollywood. A Disney piaceva anche perché i criteri di selezione erano molto stretti, a parte, diceva, “un paio di musicisti ebrei”. Nel 1942 la figlia di un noto produttore ebreo fu ammessa solo dopo che il padre minacciò non solo di fare causa alla scuola, ma di dare al caso la massima pubblicità. Il primo giorno Sharon si presentò orgogliosa alla nuova compagna di classe, dicendole: “Il mio papà mi ha parlato di te. Sei ebrea, vero? Il mio papà dice che il tuo è da venti anni che gli prende tutti i guadagni!”
Molti anni dopo l’uscita della livorosa autobiografia non autorizzata di Eliot, tutti i principali argomenti vengono sintetizzati da Enrico Deaglio su “La Repubblica”, il 20 agosto 2019
Tra fantasia e incubo, Spiegelman (autore del fumetto Maus – N.d.R.) raccontava un mondo fin troppo reale che gli americani però non conoscevano; il mondo che quei grossi cagnoni conoscevano era invece una fantasia disneyana, nella cui grande fattoria pacifica, i topi erano buoni come Mickey Mouse, i cattivi perdevano sempre. Mickey Mouse avrebbe mai tirato un pugno al Teschio Rosso? Non ci avrebbe pensato proprio: a Mickey Mouse, Hitler non dava nessun fastidio e Walt Disney, un uomo che all’epoca deteneva in America un enorme potere culturale, era un notorio antisemita che si vantava di non aver mai assunto un ebreo nella sua ditta. Questo per dire che ai tempi in cui i due piccoli topolini inventarono un Capitan America di fantasia che li difendesse, nella realtà quotidiana l’ambiente era decisamente ostile. È vero che c’era il democratico Roosevelt presidente, ma è altrettanto vero che l’onda isolazionista e razzista stava raggiungendo il suo apice. Per dire, il movimento “America First” dell’eroe nazionale, l’aviatore Charles Lindbergh, contro l’immigrazione e apertamente filo nazista, stava diventando maggioritario. Un oscuro prete cattolico di Detroit, Father Coughlin, parlava alla radio con tale veemenza contro l’immigrazione degli ebrei, che i suoi sermoni diventarono occasione di manifestazioni pubbliche ― nei cinema, nelle chiese, ma anche nei bar. Philip Roth, ne Il complotto contro l’America, un romanzo del 2004, racconta bene quel clima; quando i nazisti americani, anno 1940, sfilarono in parata sulla Quinta Strada e l’ambasciata tedesca a Washington protestava perché a Hollywood c’erano troppi ebrei e ordinava di non distribuire i loro film in Germania.
Gli studi di Alessandro Barbera
Fra gli storici disneyani l’autore che si è sistematicamente occupato, negli anni, del Disney “diverso”, “politico”, “esoterico”, “tradizionalista” e via dicendo, è stato sicuramente Alessandro Barbera. Le sue indagini si sono condensate essenzialmente in due volumi: Camerata Topolino, pubblicato da Stampa Alternativa di Massimo Baraghini nel 2001, e Paperino reazionario, apparso sotto l’egida di L’Arco e la Corte nel 2017. Nei due libri Barbera compie una minuziosa analisi della più importante – e controversa – letteratura internazionale distintasi per essersi occupata del Disney “alternativo”. Secondo Alessandro Barbera, Disney non era un “artista roosveltiano”, come molti, anche in Italia lo hanno etichettato, bensì “era un conservatore con qualche simpatia negli anni Trenta per il Fascismo”, un “conservatore rivoluzionario”, facendo riferimento alla Konservative Revolution dalle quale sarebbe nato anche il Nazionalsocialismo
In Camerata Topolino leggiamo:
Disney è stato anche un rivoluzionario, se con questo termine si intende un innovatore, attento alle novità e alle sperimentazioni. Del mezzo da lui usato ha sfruttato tutte le potenzialità , creando il nuovo, con dispendio di energie e mezzi. Era un conservatore-rivoluzionario, un uomo dinamico che amava le sfide del futuro, non certo un reazionario immobile, chiuso nella memoria di un passato idealizzato (…). Antonio Santoni Rugio (negli inediti atti di una rassegna disneyani tenutasi a Verona nel 1969 – N.d.R) rimprovera al Disney bellico, prendendo ad esempio il Paperino del “La faccia del Führer” del 1942, di ritrarre il nemico, cioè tedeschi, italiani e giapponesi, come “gente da prendere per il gabbo, non da odiare”. Insomma, in Disney vi sarebbe un deficit di odio.
Barbera riporta poi un passaggi di un intervento di Franco Cardini datato 1995:
In relazione al rapporto tra Paperone e il denaro dice: “A noialtri europei, magari un po’ nichilisti e reazionari, questa storia di Paperone che difende il tesoro ricorda un po’ rovesciata la storia del tesoro dei Nibelunghi in una linea Wagner-Tolkien. Ma non vorrei nazistizzare l’esegesi di Paperino”.
Come sappiamo Alessandro Barbera si colloca fra i (numerosi) critici disneyani ad aver mal sopportato l’opera di Eliot:
Eliot sostiene che Disney era antisemita. Per provarlo riferisce varie battute contro gli ebrei attingendo da testimonianze. In verità i riscontri sono deboli. Ma, secondo Eliot, il suo antisemitismo sarebbe una voce diffusa basata su due elementi. Primo: l’avversione negli anni Trenta per le grandi major del cinema. Dirette da immigrati ebrei, prevedevano il controllo sulle attività minori. Disney si è sempre battuto per la propria indipendenza. Tuttavia l’avversione per le major non gli ha impedito di avere buoni rapporti con ebrei del mondo di Hollywood, in particolare con Charlot. Una potente organizzazione ebraica, la B’nai B’rit, non esitò nel 1955 a proclamarlo uomo dell’anno. Il secondo riguarderebbe una squenza de “I tre porcellini”. In essa si vede il Lupo Cattivo travestito da venditore di spazzole, col naso adunco, cappello e mantello nero. Secondo Eliot nella versione originaria il Lupo era travestito da mercante ebreo. Grazie alle proteste di alcune organizzazioni ebraiche Disney avrebbe ritoccato la scena. Secondo Carsten Laqua, ancorché ritoccata sarebbe stata comunque apprezzata nella Germania nazista, per l’allusione antisemita. Sul terreno politico, Disney avrebbe mostrato simpatie per Mussolini. In più avrebbe frequentato, verso la fine degli anni Trenta, le riunioni del partito nazista americano. Nel 1937 venne in Europa. Nell’occasione avrebbe incontrato Mussolini “nella sua villa”. Peraltro non esistono riscontri italiani di questa seconda visita, mentre è documentato l’incontro del 1932, ignorato da Eliot. Secondo Laqua Disney si recò anche in Germania per risolvere con le autorità i problemi relativi alla distribuzione dei suoi film. Nel suo libro smentisce l’avversione nazista per il cinema di Walt Disney. In realtà, Goebbels e Hitler erano ammiratori di Topolino. Nel 1937, per Natale, Goebbels regalò ben 18 film di Topolino a Hitler. Nel suo diario, il 22 dicembre, il gerarca scrive che Hitler “se ne era rallegrato molto”. In seguito, come si apprende da altre fonti, nonostante l’embargo, Goebbels e Hitler organizzarono proiezioni private di “Biancaneve” e forse anche di “Fantasia”. L’anno dopo, nel 1938, Leni Riefenstahl, la regista ufficiale del Terzo Reich, si recò in America per presentare il suo film “Olympia”. L’8 dicembre Disney e la Riefenstahl si incontrarono negli studi del cartoonist e divennero amici. Ma Disney, pur dichiarandosi suo estimatore, rifiutò di vedere il film per timore di un boicottaggio dello Studio da parte di Hollywood. Scoppiata la guerra, Disney aderì al Comitato nazionalista e anti-interventista American First. Egli fu una delle persone più attive sul fronte dell’isolazionismo. Dell’American First faceva parte anche Charles Lindberg, il trasvolatore simpatizzante per la Germania di cui Disney era amico e ammiratore. Non a caso una delle prime avventure di Topolino, nel cinema e nei fumetti, era dedicata alle sue imprese.
Le inesattezze sulle date del viaggio europeo (del 1935) saranno corrette da Barbera in Paperino reazionario; rimane l’errore sul numero di film disneyani regalati da Goebbels a Hitler (12, non 18), ma all’epoca di Camerata Topolino era difficilmente accessibile il testo corretto dei Diari.
Eliot ha fatto veramente scuola nel mondo del livore anti-disneyano, che spesso vorrebbe essere satira, ma satira non è. Si preferisce la Disney odierna – avvelenata dal politicamente corretto – alla Disney di stampo “waltdisneyano”, come fu fino a tutti gli anni Settanta (e poco oltre). E contribuisce a gettare benzina sul fuoco lo stesso mondo dell’animazione! La serie a cartoni animati “Family Guy”, modellata sullo stile da sitcom adulta inaugurato dai “Simpsons”, debuttò nel 1999 sulla Fox, e fu un successo mondiale che ancora oggi (meritatamente) dura. In numerosi episodi Walt Disney viene messo alla berlina per il suo antisemitismo e altro ancora. Appare per esempio in A Picture’s Worth a Thousand Bucks, dove lo vediamo eccitarsi disegnando Minnie nuda; poi, in Stewie B. Goode, ecco gli scienziati risvegliarlo dall’ibernazione: la prima cosa che Disney chiede è se ci sono ancora gli ebrei e pretende di essere nuovamente ibernato quando scopre che ci sono ancora; In Movin’ out (Brian’s Song), il protagonista Brian Griffin afferma che cerca di evitare qualsiasi cosa prodotta da The Walt Disney Company a causa dell’antisemitismo di Walt e cerca di convincere gli altri a fare la stessa cosa; anche nell’episodio Road to the Multiverse, dove i protagonisti sono proiettati in una realtà alternativa disneyana sotto ogni punto di vista, riaffiora il Disney antisemita: un ebreo che si affaccia alla porta di casa, con tanto di stella di David al collo, viene fatto letteralmente a pezzi dagli abitanti; nell’episodio Dial Meg for Murder, appare Pippo nei panni di uno degli organizzatori dell’attentato dell’11 settembre 2001, causato dall’antisemitismo di Walt; in Hot Pocket-Dial i Griffin vanno ad Auschwitz e si dice che Disney aveva dato il suo sostegno al campo di concentramento. Quella dell’ibernazione di Disney è una nota leggenda urbana: si dice che il suo corpo giaccia congelato in un attrezzatissimo laboratorio celato nei sotterranei di Disneyland in attesa che la scienza trovi il modo di risvegliarlo senza danni e di curare il suo male.
Le leggende urbane su Disney riempiono la Rete. Nel deep web, circola un’altra curiosa “favola metropolitana”, secondo cui esisterebbero alcuni cartoni animati disneyani prodotti nel 1942/43 e destinati alla distribuzione se l’Asse avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale. Altri parlano non di interi cartoni animati, ma solo di progetti, di semplici spezzoni oppure di singoli fotogrammi – saltati fuori da un caveau negli anni dieci del Duemila. Disney avrebbe dato ordine ai suoi collaboratori di produrre vari titoli di propaganda animata dove venissero lodate la Germania, l’Italia e il Giappone. Ognuno di questi lavori sarebbe introdotto da una prefazione animata nella quale si vedrebbe Pippo interpretare un presidente Franklin Delano Roosevelt effeminato e fragile, al quale calano continuamente i pantaloni quando cerca di alzarsi dalla sedia a rotelle; questo Pippo troppo debole per i nuovi standard viene inviato in un campo di sterminio. In questi cortometraggi gli Americani sarebbero dipinti come pigri, corrotti e razzialmente inferiori, rispetto all’onesto popolo tedesco. Secondo queste fonti incerte, tale Eileen Bryant, che dovrebbe essere la curatrice del Walt Disney Family Museum, avrebbe detto che:
Ci sono ore e ore di cartoni animati in cui Topolino e la sua banda insegnano ai bambini americani che i soldati statunitensi erano assassini codardi e che una cospirazione ebraica mondiale era responsabile della guerra.
Il riferimento è al cortometraggio intitolato Wehrmacht Duck, nel quale un Donald Duck paracadutista nazista grida “Sangue e suolo!” mentre atterra in una città americana, distribuisce copie del Mein Kampf agli insegnanti e tiene lezioni di igiene razziale a bambini dall’aspetto nordico, sarebbe la versione pro-Asse di Sky Trooper del 1942.
Walt voleva mettersi al riparo in caso di resa alleata. Se l’invasione del D-Day fosse fallita, avrebbe inviato il suo primo cortometraggio, “U-Boat Willie”, direttamente a Goebbels. Voleva solo assicurarsi che la sua società di produzione avesse una distribuzione e un mercato, sia sotto un governo sovrano americano, sia nel Reich millenario di Hitler, ha aggiunto la Bryant.
Non si capisce se si parli di Steamboat Willie (il primo film di Topolino, datato 1928) o di una versione nazista dello stesso! Ci sarebbero poi cortometraggi con Qui, Quo, Qua (Huey, Dewey e Louie – ribattezzati Heinrich, Diedrick e Ludwig) del 1943, uno dei quali è intitolato The Third Reich Is All-Reich With Me (suona come “il Terzo Reich mi va benissimo”); la misteriosa Bryant precisa:
Molti di questi cartoni avevano lo scopo di convincere gli americani di origini germaniche che erano vittime di un’aggressione alla loro cultura capeggiata dagli ebrei, in particolare i cortometraggi con Heinrich, Diedrick e Ludwig. In “The Third Reich Is All-Reich With Me” i fratelli vengono premiati per aver avvisato lo zio Donald delle Waffen-SS del nascondiglio segreto di Pluto il Plutocrate, un cane con un ciondolo a stella di David appeso al collare. In segno di gratitudine, la Gestapo decide di farli diventare poliziotti-paperi segreti onorari.
Secondo il deep web la Disney avrebbe confermato che una delle opere trovate nel caveau è un remake di Fantasia in cui la musica dell‘Apprendista stregone, composta dal compositore ebreo Paul Dukas, viene sostituito con una colonna sonora tutta di Wagner; in questa versione alternativa la storia sarebbe incentrata su un giovane Topolino che, dopo aver scoperto la sua vera ascendenza ariana in sogno, si risveglia come Übermaus e inizia a camminare a passo d’oca a tempo con la musica sempre più febbrile. I documenti ritrovati nella cassaforte indicherebbero che in seguito a una vittoria dell’Asse, la Disney avrebbe fatto proiettare questo film in tutti i cinema del Nord America, insieme a una versione rifatta di Bambi che raffigura la madre del personaggio del titolo e tutti gli animali della foresta come creature geneticamente difettose che vengono giustamente macellate dagli eroici cacciatori.
Funzionari della Disney avrebbero confermato che la raccolta di cartoni scovata per caso conterrebbe anche propaganda intesa a preparare gli americani a un’occupazione nazista, incluso un annuncio di servizio pubblico in cui Minnie Mouse, emblema della maternità ariana che ha rinunciato alla cittadinanza statunitense, ricama le parole Lunga vita al nostro glorioso Führer su uno scialle; questa Minnie racconta agli spettatori di quanto sia orgogliosa di allevare figli per la Patria e incoraggia i membri nati in America della razza superiore a iniziare a raccogliere documenti battesimali in modo che i loro nuovi padroni possano verificare la purezza del loro sangue.
Tutti questi lavori, insieme ai primi concept art di Walt di un Epcot Center decorato con svastica, sono stati rinchiusi dopo il V-E Day, ha detto Bryant. Per gli standard odierni, ovviamente sembrano bigotti, persino pieni di odio, ma è importante vederli nel contesto storico in cui sono stati realizzati.
Non esiste altra traccia di questi ritrovamenti di cartoni animati disneyani nazisti se non nel deep web – oppure, forse, nella realtà alternativa di The Man in the High Castle!
Tornando a Camerata Topolino Barbera non dimentica di parlare dell’entusiasmo che negli anni Trenta le opere di Disney suscitarono presso gli ambienti dei socialismi nazionali europei:
Ammirazione per i prodotti Disney provavano Goebbels e Hitler, che videro “Biancaneve” e “Fantasia”, aggirando l’embargo. In particolare Goebbels, nel suo diario, il 12 febbraio 1940 annota: “Vediamo il film americano di Disney Biancaneve, una grande creazione artistica. Una fiaba per adulti studiata nei minimi dettagli, con grande amore per gli uomini e per gli animali. Un alto godimento artistico.” Il mondo di Disney entusiasma anche alcuni intellettuali vicini al fascismo. Significativi i giudizi di Robert Brasillach ed Ezra Pound. Lo scrittore francese fucilato dalla Resistenza, nel suo libro autobiografico del 1939 “Il nostro anteguerra” ricorda con nostalgia: “i più piacevoli divertimenti, li offrivano i nuovi cartoni animati, la civetteria e la tenera poesia di Walt Disney, le sue ingenue immagini dai bei colori, i suoi animali umanizzati, il suo disprezzo della logica e della realtà”. E ancora, sempre a proposito della fiaba dei Grimm: “Paradossalmente, il miglior film di questi anni resta senza dubbio il grande libro d’immagini tenero e infantile di ‘Biancaneve e i sette nani’, uno dei capolavori di Disney”. E poi, ricordando una conversazione con René Clair: “Rievocavamo i bei giorni del passato che avevamo amato, il cinema muto, parlammo di ‘Biancaneve’ che ci era sembrata un’autentica meraviglia”. Nel dopoguerra Ezra Pound, il poeta americano rinchiuso in manicomio criminale per il suo collaborazionismo, si pronuncia in modo sorprendente. In una intervista concessa nel 1962 a Donald Hall accosta il mondo disneyano a Confucio. Rispondendo a una domanda sulla poesia moderna, Pound non esita a dichiarare: “Prendi la parte seria di Disney, il lato confuciano di Disney, che consiste nell’aver preso un ethos, come fa in Perry, quel film dello scoiattolo dove si hanno i valori di coraggio e tenerezza resi in modo che ogni uomo può capire. Lì si ha un genio assoluto”. A sua volta Roberto Calasso, nume tutelare dell’Adelphi, ricorda: “Avevo incontrato Zolla in società, per la prima volta, a una cena per Pound. Il poeta era bellissimo, caparbiamente silenzioso. A un tratto una dama ebbe tanto zelo da chiedergli: Qual è la figura letteraria più importante in America oggi? Pound mormorò: Mickey Mouse”.
Barbera cerca poi di analizzare gli elementi di vicinanza fra Disney e il movimento nazionalsocialista:
Supponendo che sia esistito il Disney filo-nazista, resta da stabilire che cosa egli apprezzasse del movimento tedesco. Allora, al riguardo e in riferimento alla scoperta della fiaba nordica, si può formulare un’ipotesi, collegata alle origini del nazismo. E cioè che quello di Disney sia stato un “nazismo magico”, secondo la nota formulazione di Giorgio Galli. Alle origini del nazismo vi sarebbero state delle società segrete, come la Thule e il Vril. E Disney ha fatto parte di organismi iniziatici. Secondo alcune fonti si sarebbe trattato della società teosofica, espressione delle dottrine elaborate da Madame Blavatskij nel 1875. Secondo altri vi sarebbero stati influssi delle teorie di Rudolf Steiner. Ciò premesso l’opera di Walt Disney può essere letta come magico-iniziatica. Le teorie della Blavatskij avevano influenzato tanto alcuni circoli nazisti vicini a Rudolf Hess quanto determinati ambienti conservatori inglesi, con i quali lo stesso Hess era in contatto. Per questi ultimi, oltre alla teosofia bisogna pensare alla Golden Dawn. Non meraviglia che sul piano politico Disney abbia prodotto durante la guerra film e fumetti antinazisti, pur restando fedele fino all’ultimo alla sua visione iniziatica. A Disney capitò quello che quasi contemporaneamente accadde ai citati ambienti conservatori inglesi. Essi, sulla base di premesse magico-esoteriche, avevano guardato in un primo momento con simpatia alla Germania nazional-socialista. Ma in seguito la simpatia si trasformò in avversione, essendosi convinti che quello nazista fosse un esoterismo negativo a fronte del loro, di segno positivo. In un certo senso, il concetto è stato espresso nel film post-disneyano “Pomi d’ottone e manici di scopa”.
E infine:
La vera svolta disneyana è quella che lo porta a passare da un generico conservatorismo a un consapevole tradizionalismo; ovvero l’incontro con la fiaba nordica e di magia; per questo abbiamo parlato di “nazismo magico”, almeno in relazione alla fine degli anni Trenta. Si è anche detto che in tutta probabilità, Disney, come accadde per taluni ambienti conservatori inglesi di cultura esoterica, capovolse nel corso degli anni Quaranta il suo giudizio sull’esoterismo nazista, spingendosi a produrre, a guerra scoppiata, film e fumetti contro l’Asse. Il che non gli impedì, sul fronte interno, di continuare a combattere la sua personale guerra contro i comunisti.
Sedici anni dopo Alessandro Barbera continua il suo discorso sul Disney “fascista” in Paperino reazionario. Commentando in termini assolutamente negativi il libro Il lato oscuro di Dumbo di Massimiliano Narciso (Bevivino, 2004), Barbera sottolinea che l’autore, rifacendosi pedissequamente a Eliot, parla di “filonazismo” per Disney.
Più avanti barbera si intrattiene su Biancaneve e i Sette Nani:
Una curiosa novità del 2007 è costituita dal libro di Stefano Poggi, “La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turìngia a Hollywood”. Basandosi su un dato reale, l’autore, storico della filosofia, inventa e falsifica, peraltro per esplicita ammissione. Egli stesso scrive, alla fine del volumetto: “Non tutte le vicende di cui si è narrato sono autentiche o, comunque, documentate. Alcune sono il frutto di una sorta di ragionevole induzione fantastica, attuata partendo dall’utilizzo” di alcune fonti. (…) Il presupposto della narrazione è la scoperta che gli artisti della Disney nella creazione della regina di “Biancaneve e i sette nani”, il capolavoro uscito nel 1937, si sarebbero ispirati ad una celebre statua del medioevo di autore ignoto. Esattamente ad Uta di Naumburg. Il dato è vero, anche se la rivelazione non è originale. (…) Disney, recatosi nel 1935 tra l’altro in Germania, avrebbe raccolto materiale iconografico utile alla realizzazione del suo cartone. Anche questo è vero, ma solo fino a un certo punto. Intanto va osservato che Disney e i suoi artisti hanno cercato modelli grafici su tutti gli aspetti e personaggi del film. Un lavoro serio avrebbe dovuto considerare l’insieme per darne almeno un sintetico conto. (…) Poggi offre un resoconto enfatizzato di un paio di suoi viaggi in Germania, a Naumbug, dove avrebbe scoperto il rapporto Uta-Grimilde. La statua del 1250 di Uta di Ballenstedt, moglie del margravio, si trova nel Duomo della città ed è effettivamente di una straordinaria bellezza. Ciò che interessa a Poggi è sottolineare che nell’immaginario tedesco, particolarmente nella fase nazionalsocialista, la statua sarebbe diventata simbolo delle virtù della donna germanica. Gli secca in particolare l’ultima e per lui sgradevole appropriazione.(…) Che Disney si sia imbattuto nelle riproduzioni dell’immagine di Uta nel suo viaggio in Germania è supposto ma non provato. Tuttavia questa è un’ipotesi ragionevole. Come è ragionevole ritenere che Wolfgang Reitherman, un collaboratore di Disney di origine tedesca, che lavorò alla creazione grafica di Grimilde, conoscesse quella icona. Sono pura invenzione, invece, le conversazioni tra Reitherman e Disney su Uta proposte da Poggi. Lo scopo dell’autore è quello di sostenere, su basi puramente fantastiche, che l’incattivimento di Uta nelle sembianze di Grimilde avesse un preciso scopo politico. E cioè quello di colpire l’immaginario nazionalsocialista. La tesi non sta in piedi, soprattutto se si considerano quelle che erano negli anni Trenta le simpatie politiche di Disney. Poggi dice che Disney “non aveva una gran passione per la politica”. Il che è vero se si intende dire che era totalmente assorbito dal suo lavoro creativo. Ma il discorso cambia se si allude ai sentimenti. Lo stesso Poggi è costretto a parlare di ingenuità e superficialità di Disney, per salvare capra e cavoli, in riferimento alle considerazioni (positive) che “più d’una volta gli avevano sentito fare sul fascismo in Europa”. Qui si aggancia una nuova invenzione. Poggi immagina che Disney, di ritorno dall’Europa, sul piroscafo, incontri Marlene Dietrich. Nell’invenzione, l’attrice gli trasmette i suoi sentimenti antinazisti. Di reale ci sarebbe solo la sua presenza alla prima di “Biancaneve”. (…) E veniamo al presunto schiaffo antinazista. Poggi ricorda, suo malgrado, che Hitler e Goebbels apprezzavano molto i cartoni di Disney. Quest’ultimo aveva regalato al Führer nel 1937 ben diciotto film di Topolino. Ricorda ancora il secondo incontro tra Disney e Mussolini, avvenuto a Villa Torlonia (non a Palazzo Venezia, come scrive). Ora, nel 1938 il fratello di Disney, Roy, intraprese un ulteriore viaggio in Germania per appianare la questione dei diritti sulle loro produzioni. Le richieste di Disney furono ritenute eccessive e la situazione non fu risolta. Nuova invenzione di Poggi. Egli immagina che la causa della rottura non fosse economica, ma di carattere politico. In Germania non sarebbero state gradite le deformazioni di Uta nella Grimilde di Biancaneve. In particolare, Goebbels, avendolo visionato in anteprima, non avrebbe per questo apprezzato il film. Cosa smentita dallo stesso Poggi, quando riprende dal diario del gerarca nazista i passi del 1940 esaltanti Biancaneve. Non sapendo come quadrare il cerchio, egli teorizza un Goebbels “in situazione intricata e forse conflittuale”. In aggiunta, realizza una nuova contraddizione. Parlando del viaggio in America del 1938 di Leni Riefenstal per promuovere il suo fllm “Olympia”, ammette che nel mondo di Hollywood Disney sia stato l’unico che abbia accettato di incontrare la regista tedesca. Tanto per confermare le simpatie politiche di quegli armi. (…)
Di quel singolare libro si occupò anche Massimiliano Panarari sul quotidiano “La Repubblica” del 17 novembre 2017:
Naumburg, Germania centromeridionale, luogo di Nietzsche-tour subito dopo la caduta del Muro di Berlino. Proprio nel corso di uno di questi pellegrinaggi sulle orme del filosofo della Volontà di potenza (che nella cittadina della ex Ddr aveva la casa di famiglia), l’io narrante di un intrigante e appassionante volumetto appena uscito, ebbe una rivelazione. Mentre stava visitando il duomo, monumentale capolavoro dell’architettura medievale tedesca, intento a rimirare una delle due absidi, si ritrovò folgorato. Una delle statue è la fotocopia di Grimilde, identica alla Regina cattiva di Biancaneve, secondo l’ immagine resa celebre nel mondo da Walt Disney nel lungometraggio a cartoni animati presentato nel Natale del 1937. Che relazione c’è tra il mago americano dei sogni di piccoli e grandi del XX secolo e la nobile tedesca Uta degli Askani di Ballenstedt, sposa (senza prole) del margravio Ekkehard II di Meissen, la cui statua troneggia dal 1250 nella chiesa più importante di Naumburg? Ce lo racconta Stefano Poggi – noto e rigoroso studioso della filosofia tedesca, professore all’università di Firenze – ora nelle vesti di narratore di una gustosa storia che attraversa il Novecento, ripercorsa ne “La vera storia della Regina di Biancaneve dalla Selva Turingia a Hollywood” (Cortina, pagg. 103, euro 14). Un saggio-fiction, basato su documenti veri ma dall’andamento romanzato, e che sopperisce con ricostruzioni (molto) plausibili laddove le notizie storiografiche non lo soccorrono. Un po’ detective story, un po’ giallo storico, un po’ divertissement e molto libro di storia delle idee (…). La bella e algida margravia medievale (che Umberto Eco, come confessò ad alcuni amici, avrebbe portato con piacere fuori a cena) aveva finito per incarnare una sorta di ideale femminino germanico, un ricettacolo di virtù etiche ed estetiche passato, quasi senza soluzione di continuità, dal romanticismo ottocentesco al nazismo, sino al socialismo reale di Erich Honecker e della sua Repubblica democratica. La sua immagine, divenuta un’icona, campeggiava nelle serie popolari e divulgative dei libri d’arte circolanti a inizio secolo, come pure nei repertori sul patrimonio artistico medievale. E, naturalmente, aveva colpito anche l’immaginazione di Wolfgang Rheiterman, emigrato da bambino negli Stati Uniti, dove sarebbe diventato per tutti «Woolie» Rheiterman. E, a partire dal 1933, sarebbe divenuto uno dei componenti dell’inner circle di Walt Disney, i “Nine Old Men” (…). Di fronte alle ripetute insistenze di «Woolie», Walt, che si era recato con il fratello Roy in Europa nel ’35 alla ricerca di ispirazioni e suggestioni, ritornandone con svariati pacchi di volumi, aveva finalmente accettato di ritrarre la margravia Uta (ritrovata in un libro) in una delle sue creazioni. Contrariamente a quanto pensava l’ “innamorato” Reitherman, però, le sembianze della bella nobildonna non finirono per coincidere con quelle di un personaggio positivo, ma vennero utilizzate per Grimilde, la Regina cattiva della superproduzione che ossessionava Disney e impegnava notte e giorno i suoi studios californiani, la rilettura moderna e animata della fiaba dei fratelli Grimm. (…) A nulla valsero, quindi, l’entusiasmo che Goebbels e Hitler avevano sempre nutrito nei confronti dei cartoon, e neppure la missione effettuata da Leni Riefenstahl (l’anti Marlene Dietrich e regista di “Olympia”) presso Disney, notoriamente molto attento ai guadagni e poco alla politica (…).
Barbera si occupa anche del fumetto disneyano, parlando di un saggio su Carl Barks (il creatore di Zio Paperone) uscito nel 2009:
Per quel che riguarda l’ideologia barksiana, Andrae (nel saggio “Carl Barks il signore di Paperopoli”) mette bene in rilievo la sua critica della modernità capitalistica. Ma rimproverandogli più o meno costantemente, sempre con tono comunque ammirato, di non avere spinto la sua satira alle estreme conseguenze; insomma, di non esser diventato a sua volta comunista. Gli sembra una contraddizione. Il che è vero se si pensa ad un mondo culturalmente bipolare; diviso, cioè, tra una destra fìlocapitalista e una sinistra anticapitalista. Barks in realtà – come del resto lo stesso Disney – non rientra in questo schema. Egli è un conservatore all’europea. Dunque, per lui conservatorismo e anticapitalismo sono intimamente legati. Ma forse nel suo caso, con le dovute cautele, più che di conservatorismo bisognerebbe parlare di tradizionalismo. Egli del resto non vuole affatto l’abolizione della proprietà privata né simpatizza per i movimenti rivoluzionari ed eversivi. Con varie oscillazioni, non demolisce la figura dell’imprenditore. Non crede neppure, pervaso com’è di scetticismo (non di cinismo, come erroneamente scrive Andrae), che il mondo possa migliorare per effetto di non si sa quali spinte collettive. Lui suggerisce piuttosto che accanto al mondo apparente ce ne sia un altro nascosto, quello dei “piccoli popoli”, che costituisce l’unica alternativa mentale e morale alla realtà contemporanea; qualcosa di più di una semplice utopia. È almeno in parte sulla linea di un Tolkien, per intenderci. (…) Barks immagina mondi del passato più o meno coesistenti con il presente; in queste occasioni Barks si mostra un antimodernista, un antistoricista. (…) L’ultima affermazione che ci pare il caso di commentare è quella relativa ad un presunto ateismo di Barks. Andrae riproduce una dichiarazione del disegnatore in tal senso. Tuttavia la cosa lascia perplessi. È possibile che Barks non fosse attratto dalle religioni rivelate, dalle culture monoteiste. Ma è indubbio che nelle sue pagine traspaia spesso una influenza di tipo celtico. Dunque, più che a un ateo dovremmo pensare a un neo-pagano. In “Paperino nella terra degli indiani pigmei”, il capo dei Pikoletos recita: “Tutto appartiene alla potenza leggendaria del sole ch’è il dio delle stagioni”. Paganesimo appunto, non ateismo.
Più avanti, riguardo al cartone animato Destino, il visionario progetto di Disney e Dalì del 1946/47 che sarebbe stato portato a termine solo nel 2003, Barbera dice:
(Negli anni Trenta Dalì) fu oggetto di attacchi da parte di gruppi della destra cattolica di matrice francese per presunta blasfemia e successivamente accusato di filonazismo dall’ambiente surrealista.
Parla più a fondo del rapporto fra Disney e Dalì lo storico della filosofia Luca Siniscalco, nell’articolo Disney e Dalì: una questione di “Destino”, pubblicato sul più volte ricordato “Antarès” n. 10 del 2015; l’autore del pezzo trova analogie fra i due artisti con la “D” anche sul fronte economico/finanziario/monetario. Entrambi erano pieni di idee fantastiche, visionarie, precorritrici dei tempi – nessuna delle quali, però adatta a far soldi. Anche “quest’attitudine così lontana da materialismo capitalistico”, porta Disney su un gradino più alto rispetto al mero conservatorismo liberista di stampo americano, fino a fargli poggiare il piede sul gradino di un “rivoluzionar-conservatorismo” di stampo europeo, quello in cui Luca Leonello Rimbotti avrebbe visto una “profezia del Terzo Regno”.
Alessandro Barbera si occupa pure del volume di Giulio Giorello La filosofia di Topolino del 2013:
Nel complesso occorre ricordare che Walt Disney era un conservatore-rivoluzionario con uno specifico interesse per la magia e il mondo altro. È questo il filo rosso che lega tutta la sua opera. Peraltro, dal nucleo centrale alle appendici fumettistiche e cinematografiche molto si disperde e si banalizza, ma il filo conduttore non viene mai meno; soprattutto non viene contraddetto.
Ricordiamo che il filosofo Giorello, scomparso nel 2020, si è spesso occupato del fumetto e del cinema d’animazione, con una particolare attenzione all’universo disneyano.
Un ultimo passaggio di Paperino reazionario riveste per noi una grande importanza:
“Il drago riluttante” del 1941 è conosciuto anche con altri titoli. Si tratta di un film ad episodi che in Italia arrivò nel 1950. Secondo Matteo Sanfilippo (“Il medioevo secondo Walt Disney”, 1998), l’ultima versione avrebbe subito delle varianti rispetto all’edizione originaria. Come che sia, da allora non è stato più proiettato. In videocassetta esiste solo l’episodio che dà il titolo all’intero film. È comunque il brano principale, in relazione al tema che c’interessa. Ispirato ad un racconto di Kenneth Gravame, esso narra della lotta tra un attempato cavaliere e un drago cultore di poesia, che si conclude in modo pacifico e incruento. In questo caso, per Disney, il drago (la Germania) non è poi così cattivo come si crede; e comunque con lui si può convivere. È difficile non vedervi un invito all’accordo tra anglosassoni e teutonici, mentre in Europa c’è la guerra, in sintonia con i sentimenti isolazionisti di una larga fascia dell’opinione pubblica americana. Le cose cambieranno dopo Pearl Harbour. Ma questa è un’altra storia.
Il “caso” Beitler
Nel giugno del 2017 è apparso in Rete un saggio firmato dal giornalista Ryan Beitler intitolato Walt il quasi-nazista: la storia fascista della Disney sta ancora influenzando la vita americana. Il testo è ricchissimo di spunti e di notevole interesse anche se l’autore ci va giù duro, quasi con odio. Ecco i suoi principali argomenti.
La Walt Disney Company, nei decenni, sarebbe riuscita a plasmare indelebilmente la psiche e la vita americana i molti modi, tutti derivati “dalla prospettiva decisamente fascista, antisemita, anti-sindacale, conservatrice e religiosa dello stesso Walt Disney”. Anche se Disney era piuttosto un conservatore-rivoluzionarip che un nazionalsocialista, secondo Beitler “la Disney potrebbe essere vista come simpatizzante della causa nazista”. Prove di questa “posizione politica” sarebbero le affermazioni del solito Art Babbitt (riportate anche nel libro Hitler’s Doubles di P. F. Kapnistos) che, come abbiamo visto, sosteneva di aver visto attori e registi di Hollywood, e tra di loro Disney con il suo avvocato e amico Gunther Lessing, presenziare alle riunioni della German American Bund, un’associazione che sosteneva dagli USA la Germania nazionalsocialista e che Beitler, seguendo Babbitt (ed Eliot, ovviamente), definisce tout-court il Partito Nazista Americano. Com’è cambiata, da allora, Hollywood, verrebbe da dire! Quando Leni Riefenstahl andò negli USA per promuovere il suo film Olympia nel 1938, un mese dopo la cosiddetta “Kristallnacht”, Disney la accolse con tutti gli onori e le fece fare un giro degli Studios; la regista germanica, come documentato nelle sue memorie e nella biografia scritta da Steve Bach, avrebbe commentato che era “gratificante apprendere quanto gli americani si distanziano completamente dalle campagne diffamatorie degli ebrei”. Disney mirava così a superare l’ostracismo tedesco verso la cinematografia americana. In realtà gli Studios di Burbank, come quelli della MGM e della Warner, furono attivamente impegnati negli anni ’40 nella produzione di cartoni animati di propaganda bellica, come Education for Death: The Making of a Nazi (1943), sulla Hitlerjugend, e Der Fuehrer’s Face (1943), con Paperino che vive una sorta di “incubo” nazista; ma per Beitler questo tipo di animazione è troppo poco antisemita e i nazisti non vengono criticati abbastanza! Questo perché sotto la facciata di capitalista conservatore Disney sarebbe in realtà stato profondamente fascista.
Un’altra prova sarebbe quel “concetto utopico di fascismo” alla quale Disney lavorò negli ultimi anni della sua vita: la Experimental Prototype Community of Tomorrow, o EPCOT, dal 1982 una celebre partizione del megaparco tematico Walt Disney World in Florida. Un semplice divertimentificio colto, con annessi alberghi per gli ospiti e strutture abitative e commerciali per i dipendenti? No: secondo Beitler nelle intenzioni di Disney EPCOT doveva essere “una città del futuro non dissimile dal modello di governo fascista impiegato dalla Germania nazista”, un luogo dove tutti i servizi erano in comune e dove non sarebbe stata consentita la nascita di baraccopoli o periferie depresse; doveva inoltre “essere un luogo in cui i sindacati sarebbero stati vietati, la democrazia inesistente e la sicurezza sociale solo una nozione ridicola”. Lo stesso Walt Disney avrebbe detto riguardo al progetto: “Non ci saranno proprietari terrieri e quindi non ci saranno controlli sul voto. La gente affitterà le case invece di comprarle, e con affitti modesti. Non ci saranno pensionati; tutti devono essere impiegati”.
Secondo Beitler,
questa richiesta di lavoro leale e continuativo fino alla morte è simile in maniera inquietante a quanto richiesto alla popolazione dai governi dell’Italia di Mussolini e della Germania nazista. Gli stati fascisti degli anni ’30 e ’40 utilizzavano questo approccio per nazionalizzare la terra, le risorse e il lavoro a beneficio dello stato-nazione e dei despoti al potere piuttosto che dei cittadini. Invece di usare il nazionalsocialismo, la Disney avrebbe utilizzato il suo ruolo prominente e non regolamentato nel tronfio capitalismo americano per ottenere più potere sui terreni e sulle persone. Disney non puntava a usurpare le prerogative dello Stato, ma a creare una sua entità semi-statuale privata, usando il lavoro dei lavoratori, scrivendo proprie leggi e facendole rispettare grazie a forze di sicurezza proto-poliziesche, rendendo così EPCOT una società microcosmica sovrana rispetto ai governi locali e al governo federale.
In realtà EPCOT era (ed è) soprattutto una visione sul futuro di un imprenditore innamorato del fantastico e dell’avventura spaziale (come potrebbe esserlo l’odierno Elon Musk) più che un progetto di urbanistica nazisteggiante. Al suo progetto partecipò attivamente il celeberrimo scrittore di fantascienza Ray Bradbury, che nel 1963 divenne amico intimo di Disney, come spiega Andrea Scarabelli nel suo pezzo Quando Bradbury se la prese con Dio, pubblicato nel 2015 su “Antarès” n. 10 della Bietti:
Di esposizioni ne sanno qualcosa tutti e due: l’autore delle “Cronache marziane” ha appena concluso la progettazione degli interni del padiglione degli Stati Uniti all’Esposizione Universale di New York, che si terrà l’anno dopo. Disney, invece, sta cimentandosi col progetto ambizioso di una “città del domani”, che non farà in tempo a vedere e che aprirà i battenti nel 1982 a Bay Lake, in Florida. L’EPCOT è pensato come una fiera permanente che coniughi i costumi americani con avanguardia e tecnologia, a immagine e somiglianza di Disney, Giano bifronte tra passato e futuro. Il padre di una Disneyland avvolta da un’aura mitica e fiabesca è anche l’ideatore di luoghi come “Innoventions East” e “Innoventions West”, “Universe of Energy” e “Mission: SPACE”. Senza dimenticare la sfera geodetica “Spaceship Earth”, alla cui progettazione parteciperà Bradbury. È una ricostruzione della storia dell’umanità, dai primordi al futuro, dai dinosauri ai viaggi spaziali. I viaggi spaziali, antica ossessione di Ray e Walt. Il primo, avido lettore delle avventure di “John Carter di Marte” di Edgar Rice Burroughs e autore di uno dei più importanti cicli marziani, era convinto che fosse lo spazio il luogo naturale dell’uomo moderno. Nemico del disfattismo dei giornalisti nei confronti della NASA, auspicava la realizzazione di prodotti culturali che permettessero ai suoi connazionali di familiarizzare di più con quell’ente e con la frontiera – tutta interiore – dello spazio. E Disney, quasi come in un dialogo a distanza su frequenze diverse da quelle umane, l’aveva preso in parola ancor prima di conoscerlo, lavorando con Wernher von Braun e realizzando pellicole sul programma spaziale degli USA: “Man in Space” e “Man and the Moon”, del 1955, seguiti due anni dopo da “Mars and Beyond”. Tutti indizi che ci conducono a individuare una parentela spirituale tra i due narratori di storie, nemici del realismo a tutti costi e alfieri dell’immaginazione creatrice (…).
Con l’incontro del 1963 i due, Disney e Bradbury, decisero di collaborare stabilmente. Scarabelli prosegue:
I mesi successivi vedono Bradbury impegnato in una lunga serie di pranzi con i creatori dei film Disney e della stessa Disneyland: “Tutti loro sapevano che avevo scritto a innumerevoli periodici, difendendo il Regno Magico contro i gelidi, marmorei intellettuali di New York”. Probabilmente avevano letto su “The Nation” la sua risposta indignata all’articolo di Julian Halevy del giugno 1958, dal titolo programmatico “Disneyland and Las Vegas”. Halevy li aveva accostati, vedendovi l’espressione della peggiore sottocultura americana. Bradbury, che aveva visitato con Charles Laughton il “Magic Kingdom”, “la fantasia personale di Walt Disney” (come disse John Landis), “un parco divertimenti, un’esposizione, una città da Mille e una Notte, una metropoli del futuro”, “un luogo colmo di bellezza e magia” (qui è Disney stesso a parlare), aveva dato in escandescenze: accostare un regno fiabesco che libera la parte migliore dell’uomo, dominio di “fantastiche escursioni nei bisogni di una civiltà”, a “un girone dell’Inferno di Dante!” Non è con l’intelletto che si comprendono queste cose, ma con l’arte. Così la pensava Bradbury, che giunse addirittura a citare, in una delle sue poesie più belle, la massima nietzschiana che vede nell’arte un antidoto alla prigionia della razionalità: “Conosci il reale? Cadi morto. / Così parlò Nietzsche. / Abbiamo le nostre arti per non morire di verità”. D’altra parte, professionisti della verità, accademici e giornalisti non sono mai andati molto a genio neppure a Walt, stando a quanto disse a Oriana Fallaci (che fu, tra l’altro, amica e ammiratrice anche di Bradbury) pochi mesi prima di morire: “Ah, io non posso soffrire gli intellettuali. Sono pericolosi; vivono fuori dalla natura o non ne tengono conto. Io, tutte le volte che parlo con un intellettuale, sento il bisogno irresistibile di scaraventarlo in mezzo alla giungla perché si tolga dal capo le sue stupide ideologie”. Evidentemente, i progressisti non erano gli interlocutori prediletti da Ray e Walt.
Dopo quell’incontro, ad ogni modo, la presenza di Bradbury negli ‘Studios’ si fa costante. Contribuisce con idee, suggerimenti e proposte ai progetti legati a Disneyland e all’EPCOT. (…) Nei pochi anni che vanno dal loro incontro alla morte di Walt i due hanno modo di confrontarsi su molte passioni comuni, in special modo l’edilizia e l’urbanistica. Bradbury fu sempre molto attento a questi aspetti, tanto che si batté per la costruzione di città a misura d’uomo, ben differenti da quelle disumanizzanti dell’America del suo – e del nostro – tempo. Per smaltire il traffico di Los Angeles, ad esempio, propose di adottare il sistema delle navette-passeggeri di Disneyland: ‘Sarebbero davvero molto utili nelle grandi aree di moltissime delle nostre città’. Congiuntamente, come ricorda il già citato John Landis, i due ingaggiarono una campagna pubblicistica ‘a favore di una monorotaia sopraelevata da costruire al centro del nostro immenso sistema di freeways’, progetto che –naturalmente– non ebbe seguito, una volta giunto negli uffici del potere di Los Angeles. Cosa che non stupì Bradbury, né tantomeno, com’è facile supporre, lo stesso Disney.
Eppure, piuttosto che i ‘buffoni’ e gli ‘idioti’ che riempiono i consigli comunali, tuona infuriato Bradbury, bisognerebbe seguire i consigli del creatore di Mickey Mouse,”’il più grande, brillante e creativo urbanista del mondo”, superiore a ogni Le Corbusier e Frank Lloyd Wright. Disney, “che ha iniziato a risolvere dei problemi a livello pratico, veniva deriso dalla gente soltanto perché era un famoso uomo di spettacolo invece che un grande artista; eppure, rifletteva in modo molto raffinato sugli esseri umani”. (…) “Disney è il mio eroe; ha creato un modello, costituito da Disneyland, Disney World ed EPCOT. Sono tutti ambienti sociali. Forniscono degli esempi di come vivere. Ci sono alberi, fiori, fontane e laghetti, posti dove sedersi e mangiare: in questo modo, è più facile uscire di casa”.
Questa nuova forma mentis, secondo il nostro “marziano”, avrebbe inoltre il merito di valorizzare le ricchezze locali, non costruendo città omologate e tutte uguali, colate di cemento a uniformare il paesaggio, ma integrando natura e edilizia. Prima di affrontare questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica, continua Bradbury, occorrerebbe però riorganizzare completamente tutti i consigli comunali, insediandovi persone provenienti dal luogo stesso, in grado di valorizzarne la ricchezza paesaggistica e l’estetica. A chi, tuttavia, affidare questa riforma politica? Chi dovrebbe occuparsi di selezionare questa casta di assessori “illuminati”? La risposta di Bradbury è chiarissima: ‘Disney. E io’. Un sogno ad occhi aperti purtroppo rimasto tale, soffocato dall’incompetenza e dalla mancanza di educazione di certi contemporanei.”
Scarabelli, sullo stesso fascicolo di “Antarès”, tratteggia inoltre un ottimo ritratto del “Disney politico” nell’editoriale Il prezzo dell’arcobaleno:
Secondo Martin Sklaw, Disney “aveva un piede nel passato e un piede nel futuro […]. Amava il passato del mondo in cui era vissuto, ma allo stesso tempo era assolutamente affascinato dalle nuove tecnologie”. Non ignorò il passato ma nemmeno lo idealizzò: fu una sorta di “conservatore rivoluzionario”, che vide una linea di continuità tra passato e futuro, protesa verso un avvenire diverso, e comprese come il dramma della modernità risiedesse nell’averla sprezzantemente recisa. Un Disney “antimoderno”, per così dire, nel cuore pulsante della modernità, gli USA, costanti interlocutori dei suoi Studios. Disney credeva nel suo Paese e non mancò di criticarlo, ma in un’ottica propositiva. Al pari del suo connazionale Ezra Pound, che sempre ne ammirò la figura e la produzione. C’è un aneddoto molto significativo, raccontato da Roberto Calasso: ad una cena organizzata a casa di Elémire Zolla in onore di Pound, una giovane chiese al poeta americano chi fosse la figura letteraria più influente del tempo. Risposta lapidaria: “Mickey Mouse”. Lo stesso giudizio, anche se di segno opposto, fu formulato da Charles Bukowski, intervistato da Arnold Kaye nel 1963, a riprova dell’importanza rivestita dalla creatura disneyana. Tornando ad Ezra Pound, di Disney l’autore dei “Cantos” apprezzò il confucianesimo latente, come rivelò in un’intervista rilasciata a Donald Hall per il “Paris Review” (estate/autunno 1962), “l’avere assunto un punto di vista etico, essere riuscito ad asserire i valori del coraggio e della tenerezza in modo che chiunque potesse comprenderli”. Come l’autore dei “Cantos”, Walt odiava i banchieri, dei quali offrì un sinistro ritratto in “Mary Poppins”, poi ridimensionato (secondo quel rovesciamento di prospettiva che lega capolavori come “La bella addormentata nel bosco” e il più recente “Maleficent”) con l’immagine di un Signor Banks altrettanto vittima, succube di un capitalismo sfrenato, nello splendido “Saving Mr. Banks”. Anche i vinti hanno le loro ragioni, d’altra parte… Disney seppe ascoltarle, a differenza di molti altri. E pensare che c’è ancora chi continua a considerarlo un bigotto. Mai Disney ragionò nei termini di un male o di un bene assoluti. Né si curò delle scomuniche emesse da certi suoi compatrioti, professionisti della carta stampata attaccati alla gonnella del potente di turno, secondo un meccanismo arcinoto e piuttosto diffuso anche da noi, ma giunse a frequentare Sergej Ejzenstejn e Leni Riefenstahl. Neppure risparmiò il politically correct (anche se allora non si chiamava ancora così), al pari di colui che sempre ritenne un modello ispiratore, Charlie Chaplin, per cui lavorò, quando questi dirigeva la United Artists con Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Fu Charlot a consigliargli di rimanere indipendente. E Walt lo prese alla lettera, a prezzo di enormi sacrifici, attirandosi l’avversione delle grandi lobbies da un lato e di sindacati e crimine organizzato dall’altro – organi non di rado in combutta tra loro, come documentato da Marc Eliot nel suo “Il principe nero di Hollywood” (Bompiani, Milano 1994), biografia disneyana che non ha mancato di generare scandali e polemiche.
Dopo aver tolto EPCOT dal “cono d’ombra”, grazie a Scarabelli, torniamo a Beitler e al suo intervento: dopo essersi dilungato sul trattamento dei dipendenti dei parchi tematici disneyani e sul fatto che fin dagli anni ’60 la Disney aveva opzionato in Florida un’estensione terriera enorme per poter via via ampliare le sue strutture del divertimento, il giornalista passa ad analizzare il preteso “elitarismo” di stampo fascista nei cartoni animati:
Alcuni esempi di disparità di classe sono le principesse Biancaneve e la Bella Addormentata, il regno animale del Re Leone, e la ricerca dell’elitarismo in Cenerentola, solo per citarne alcuni; il film d’animazione tratto dal “Libro della giungla” è stato criticato come razzista per aver stereotipato i neri e gli indigeni mentre promuoveva la segregazione razziale e “Pinocchio” può essere interpretato come una ricerca della purezza razziale.
Ne viene fuori un ritratto di un Disney nettamente sovranista, elitarista, antisindacalista, anticomunista, antisemita, suprematista bianco… Negli anni ’50, legato a doppio filo con il senatore McCarthy durante il periodo della Red Scare (la “caccia alla streghe”), Disney era membro della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, a sua volta legata al House Un-American Activities Committee, tutti ambienti anticomunisti e antifascisti, ma soprattutto antisemiti, suggerisce il saggista, visto che “molti anticomunisti dell’epoca mescolavano comunisti ed ebrei.” Nel 2014 l’attrice Meryl Streep, ottenendo il plauso di una pronipote di Disney, aveva descritto la Motion Picture Alliance come un “gruppo di lobbismo industriale antisemita”. L’affondo finale di Beitler non lascia speranze:
Walt Disney è considerato un utopista, ma la sua carriera e le tattiche commerciali della Disney Corporation dipingono un’immagine che è molto più cupa della luce del sole, degli animali coccolosi e dei personaggi stravaganti che fanno ormai parte integrante dell’animo americano come gli hamburger e la torta di mele. In poche parole, il fatto che l’utopia di una persona diventi la distopia di un’altra è semplicemente parte della storia americana.
Secondo il nostro parere l’intervento di Beitler, seppur virato in “negativo” e troppo incentrato sugli aspetti economici (il marketing divenne ipertrofico soprattutto dopo la morte di Disney avvenuta alla fine del 1966), e profondamente contrario a quella che è la “filosofia socio-politica” disneyana, coglie, talvolta involontariamente, nel punto.
Francesco G. Manetti