“Solo coloro che sono capaci di indurirsi al punto di mandar giù quello che sta succedendo riusciranno a farcela”.
(da “Il giorno dei Trifidi”)
L’usuale traduzione di Viveka Chudamani è “Il sommo gioiello della discriminazione”. Tuttavia ho notato che recentemente ci si riferisce a questo testo come “Il sommo gioiello della saggezza”. Solo che ‘saggezza’, in sanscrito, si dice Prajñā. Mi sono chiesto il motivo di questa inesattezza.
Dopo alcune infruttuose ricerche filologiche, son giunto alla conclusione che la ragione di tale errore sia di natura politica e sociale. Nella nostra cultura è infatti prevalsa l’idea che la discriminazione sia un delitto. In effetti esiste un’affinità tra crimine e discrimine. ‘Crimine’ viene dalla radice latina cernĕre che significa dividere, distinguere, da cui anche ‘discernere’, specie ai fini di un esame giudiziario.
Un recente disegno di legge si sta appunto occupando di ratificare questa relazione etimologica, minacciando pesanti sanzioni e persino la reclusione nei confronti di chi discrimini. Suppongo quindi che quella traduzione imprecisa fosse dettata da motivi di cautela. Perciò anche i passi nel testo in cui dice che la liberazione si ottiene «attraverso una costante e giusta discriminazione» oppure che «solo chi ha discriminazione è qualificato per la ricerca della Realtà» e altri simili, configuranti un’istigazione a delinquere, sono stati opportunamente corretti.
Sarebbe infatti temeraria un’apologia della discriminazione in un Paese dove questa operazione intellettuale è punita col carcere. Sostituire ‘discriminazione’ con ‘saggezza’ esprime quindi un prudente compromesso. Nessuno ci vieta, per il momento, di essere saggi, almeno de jure.
De facto, quella saggezza che era sedimento di tradizione e di esperienza, tranquillo riferimento a valori consolidati, è oggi interdetta. Non è più il passato a esserci maestro ma il futuro, il ‘progresso’. La saggezza moderna consiste nel conformarsi ai valori del mainstream, sorta di catechismo o “guida dei perplessi” che educa le persone a pensare e agire saggiamente, secondo le regole del ‘politicamente corretto’.
La struttura metafisica del politicamente corretto poggia sul mistero trinitario di Scienza, Libertà e Democrazia. La sua prassi morale consiste in alcune virtù cardinali, come il rispetto, la tolleranza, la responsabilità, la solidarietà, il cui esercizio, più che un agire concreto, è una sapiente arte dell’eufemismo e della retorica.
Fortunatamente, tali obbligazioni morali non vanno estese a tutti indiscriminatamente. Nel caso della legge anti-discriminatoria già citata si distinguono infatti i soggetti che ne beneficiano, ovvero non discriminabili, da quelli che si possono discriminare e che quindi ne sono giustamente esclusi. Questa può sembrare una contraddizione. Ma una legge non è un trattato di logica, è un dettato morale che richiede una discriminazione tra il bene e il male, anche quando ci impone di non discriminare.
Se suona paradossale è perché, più che di una legge, si tratta di un percorso di fede. Ha carattere mistico più che politico e come tale va vista. Il suo obiettivo è purificarci e disporci ad amare il prossimo senza discriminazioni. Se qualcuno viene escluso da questo abbraccio universale è solo perché lui stesso lo rifiuta e ne nega l’universalità, ostinandosi a discriminare.
Confesso che ho faticato a capirlo. Per il pipistrello la luce è tenebra fitta, dice Aristotele. E anch’io, senza saperlo, ero un nottivago, una nottola incapace di vedere i colori dell’arcobaleno. Questa legge però mi ha aperto gli occhi. Infine ho capito che è dovere di ogni buon cittadino inginocchiarsi al suo messaggio evangelico, come davanti a un Sacramento. E oggi sarei disposto anche a prosternarmi, in muta adorazione.
Tuttavia è un testo che per la sua profondità va meditato a lungo prima di comprenderne il senso. Perciò trovo quasi offensivo definirlo, con aridità burocratica, “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza ecc.”. Sarebbe più consono al suo valore rubricare questo disegno di legge come “Il sommo gioiello della non-discriminazione”. Le sue parole evocano la forza illuminante di un apologo zen:
«Prima di praticare lo Zen, le montagne mi sembravano montagne, e i fiumi mi sembravano fiumi.
Da quando pratico lo Zen, vedo che i fiumi non sono più fiumi e le montagne non sono più montagne.
Ma da quando ho raggiunto l’illuminazione, le montagne sono di nuovo montagne e i fiumi di nuovo fiumi».
In modo analogo, questa legge implica una conversione del cuore e della mente che cambia il nostro sguardo. Infatti, prima di praticare lo Zan, la sessualità mi sembrava la sessualità, e la famiglia mi sembrava la famiglia. Da quando pratico lo Zan, vedo che la sessualità non è più la sessualità, e la famiglia non è più la famiglia. Qui però l’analogia si interrompe, perché l’illuminazione Zan supera l’illuminazione Zen, e non ricade nelle vecchie discriminazioni.
Riconosciuta la grandezza e i meriti di questa legge, occorre però, per onestà intellettuale, segnalarne anche i limiti. Ad esempio, l’ambiguità lessicale, che può dar luogo a malintesi. Ad esempio, io credevo che ‘omofobia’ significasse paura dei propri simili, ‘transfobia’ quella di andar oltre. Leggendo ‘bifobo’ ho immaginato un rettile anfibio. Solo a fatica ho afferrato il senso di questi termini, coi quali mi pare si voglia esprimere, più che la paura, l’odio e l’intolleranza verso alcuni orientamenti sessuali.
Il principio di fondo – non esiste un’unica bussola del sesso che indichi irrevocabilmente il Nord, i vari poli magnetici del desiderio hanno pari dignità – mi pare indiscutibile. A questo punto tuttavia, dato che è normale oggi essere trisex o polisex, mi parrebbe logico includere nell’elenco dei rei anche i trifobi e i polifobi. Ma qualcuno potrebbe scambiarli per mostri alieni o creature mitologiche, esseri con tre teste, tentacoli al posto delle braccia o un occhio solo.
Questa associazione con forme di vita sconosciute e non umane, che si presumono orrende, potrebbe provocare panico e violenza irrazionali. Il gergo giornalistico se ne impadronirebbe. Forse molti diventerebbero implacabili cacciatori e persecutori di trifobi per nascondere il fatto che, nel loro intimo, son trifobi anch’essi. Spero quindi che i nostri burocrati adottino una nomenclatura più corretta e comprensibile, come misouranismo, misosaffismo ecc.
Inoltre, la legge non garantisce uguali diritti a tutte le naturali espressioni del desiderio. Vengono proscritte omofobia, bifobia, transfobia, ma non si fa cenno a pedofobia, necrofobia, zoorastofobia ecc. E questo è doppiamente deplorevole, perché ne consegue da un lato che alcune forme di intolleranza restino impunite, dall’altro che certi orientamenti sessuali siano ancora vittime di esclusione e pregiudizi.
Di fronte al proliferare di nuove pulsioni sessuali, la legge dovrebbe assicurare a ognuna la doverosa tutela. Per esempio, troverei giusto prevedere sanzioni pecuniarie o il carcere per chi si rendesse colpevole di ‘afobia’, ovvero di atti o di opinioni discriminanti nei confronti di chi pratica la castità o la verginità, che sono comunque espressioni di una scelta sessuale.
Si potrebbe criticare anche il carattere esclusivamente repressivo di una legge che prevede pesanti penalità per chi discrimini il polimorfismo sessuale senza offrire incentivi a chi lo favorisca. Ovvero che mostra il bastone ma non la carota. Premiare chi passa con una certa regolarità da un’identità di genere a un’altra o chi induca altri a farlo favorirebbe il diffondersi di una nuova sensibilità e l’affermarsi di un’umanità più fluida e tollerante.
Tornando invece ai meriti di questa legge, trovo molto opportuno aver istituito un Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori. L’Oscàd – acronimo che ricorda una famosa polizia segreta – assolverà il ruolo di un prezioso corpo di vigilanza, teso a garantire l’applicazione delle norme, effettuando regolari controlli sulle opinioni, le parole, i comportamenti della gente.
Diverrà quindi imprudente raccontar facezie e ironizzare su soggetti con particolari orientamenti sessuali o su famiglie non tradizionali. Potremmo incappare in un agente dell’Oscàd pronto a denunciarci. Per evitare la galera dovremo limitarci a storielle su soggetti non protetti – genovesi, scozzesi, carabinieri, matti – ovviamente lasciando nel vago la sessualità dei personaggi. Tuttavia, troverei più coerente che la legge difendesse dall’umorismo anche tali categorie.
Immagino che si procederà presto a censurare anche tutte quelle fiabe, opere teatrali, liriche, letterarie, cinematografiche ecc. antiche o moderne, che contengono reati di x-fobia. Per converso, presumo si darà un forte impulso allo studio della mitologia classica, dove si narra di metamorfosi e dei felici amplessi tra esseri umani e aquile, cigni, nuvole, piogge d’oro.
Fondamentale è educare i bambini fin dalla più tenera età a non nutrire pregiudizi di genere. Sappiamo che l’albero vecchio non si raddrizza più e che se il toro viene castrato in età adulta continua a provare interesse per la vacca. Ogni bimbo deve quindi bere fin dalla culla il latte della non-discriminazione sessuale.
Se crescendo i nostri figli ci porranno domande scabrose sull’argomento risponderemo: “il sesso è quello che tu vuoi”. E all’anagrafe, per rispettare la loro libertà, registreremo Enric, Paol, Robert ecc., lasciando un vuoto che, diventati più consapevoli, colmeranno a piacere con una ‘a’, con una ‘o’ o con niente. Ignorare queste essenziali misure potrebbe in futuro far di loro dei trifobi.
Come si eviravano un tempo i ragazzini per conservarne la voce angelica, così bisogna estirpare nei futuri cittadini ogni propensione al pregiudizio, i violenti attributi dell’ideologia di genere. Le varie voci della cultura, della società, della Chiesa, devono fondersi in un unico coro dove non si noti più la presenza di toni virili o femminili ma solo il dolce falsetto degli eunuchi.
Qualcuno teme che, abolendo ogni distinzione, si cada in una notte nera in cui le vacche sono nere. In realtà sarà un’alba rosata, dove tutte le vacche sono rosa e fanno il latte rosa. È l’alba dell’amore universale. Lì, in questa omerica “Aurora dalle dita di rosa”, vedremo sorgere il sole dell’avvenire. Dal cielo pioverà una dolce rugiada e all’orizzonte, come un ponte su cui camminare insieme, ci attenderà un meraviglioso arcobaleno. Sullo spirito di questa legge si fonda la poetica di una nuova società.
Secondo alcuni la filosofia Zan contiene una minaccia alla libertà di pensiero e d’espressione. In effetti, chi affermasse: “l’unica famiglia legittima è quella naturale” potrebbe venir incriminato. Ma nulla vieta di dire: “l’unica famiglia naturale è quella legittima”. Questo segna una decisiva evoluzione sociale. Infatti, non solo presuppone che ‘etico’ è ciò che è ammesso dalla legge – questo già Hitler lo sapeva – ma che ope legis si può decidere anche cosa sia ‘naturale’.
Se il Viveka Chudamani insegna a divenir consapevoli della propria Identità divina – “Tat tvam asi”, Quello sei tu – vincendo l’attaccamento a pensieri mondani, la legge in questione ci chiede di accettare ogni identità di genere e di riconoscerci nella nostra libido: “Guarda il tuo desiderio, Quello sei tu!” , abbattendo i muri del senso comune e di inveterati preconcetti.
V’è dunque un filo che unisce i due testi. È vero che il primo ci invita a discriminare e il secondo ce lo vieta. Ma entrambi predicano una forma di unicità. Per uno, solo il Sé è reale, per l’altro, solo il desiderio lo è. Tutto il resto è illusione, o pregiudizio. Quindi, se guardiamo alla sostanza, entrambi invocano un consapevole discernimento.
Senza questo saggio discrimine, come potremmo distinguere il Sé dal non-Sé, o gli esseri normali dai trifobi? Discernere i soggetti dei quali nihil nisi bonum dicendum est e quelli di cui si può dire tutto il male possibile? Non potremmo separare le pecore dai capri, quelli che dipingono l’arcobaleno da quelli che vogliono cancellarlo, gli illuminati da coloro i cui pregiudizi son “come gli occhi delle nottole di fronte alla luce del giorno”. Perciò, per non discriminare è necessario discriminare. Ma non chiamiamola discriminazione, chiamiamola saggezza.
“E ballammo insieme, sull’orlo di un futuro ignoto, all’eco di un passato scomparso”.
(da “Il giorno dei Trifidi”)
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