11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, sessantatreesima parte – Fabio Calabrese

Ci rimettiamo in cammino alla ricerca delle origini, sulle tracce della nostra eredità ancestrale agli inizi di aprile, subito dopo pasqua. Si tratta di un inizio di aprile particolarmente freddo, in diverse parti d’Italia nevica, e ci chiediamo davvero dove sia questo famoso riscaldamento globale con cui Greta Thunberg e sodali ci hanno così insistentemente martellato i gioielli di famiglia.

Ricominciamo da una notizia del 31 marzo, riportata da Ansa.it. Nel corso di una campagna di scavi effettuata in tombe dell’Arabia Saudita nord-occidentale commissionata dalla Royal Commission for AlUla, cui partecipa anche l’italiana Laura Strolin, dell’Università di Ginevra, sono state trovate le ossa di un cane domestico sepolto insieme ai suoi padroni.

L’importanza del ritrovamento è data dal fatto che si tratterebbe dei più antichi resti di cane domestico ritrovati finora, risalenti a 4.000 anni fa, contro i 3.000 del più antico scheletro di cane domestico finora conosciuto.

Io tuttavia credo che l’amicizia con il nostro migliore amico a quattro zampe sia molto più vecchia di così, che risalga all’età paleolitica, un’antica alleanza fra l’uomo cacciatore-raccoglitore e il lupo addomesticato, diventato da competitore strumento utilissimo sia nella caccia sia nella vigilanza degli accampamenti da belve o nemici. Le prove? Non esiste alcuna comunità umana, nemmeno la più primitiva fra quelle oggi esistenti, che non abbia almeno il cane come animale domestico. Negli scavi di Pompei, inoltre, sono stati trovati sia resti sia raffigurazioni di questi animali, e si sono potute constatare grosse differenze di aspetto, di taglia, di morfologia. I cani degli antichi Romani non erano meno differenziati in razze di quanto lo sono quelli di oggi, il che fa presupporre che già allora avessero alle spalle diverse migliaia di anni di addomesticamento.

Se ve ne ricordate, vi ho già parlato altre volte di Robert Sepher, è, così come Tom Rowsell, uno di quei pochi ricercatori indipendenti che sfidano l‘ortodossia scientifica in particolare riguardo alla sua bufala oggi più vistosa, la favola africano-centrica che si vuole oggi imporre per ragioni politiche e che, come io stesso credo di avervi mostrato più volte, è in aperto contrasto coi fatti.

Devo ammetterlo, mi piace anche la sua definizione dell’umanità come di una specie che soffre di amnesia (Specie con amnesia è, in traduzione italiana, il titolo del suo libro più noto), una specie che non consce il suo più lontano passato, deve lottare per ricostruirlo, e questa ricerca può essere deviata da interessi più o meno inconfessati.

Il 5 aprile Sepher, di cui non avevamo notizie da un po’, ha postato su You Tube un filmato dove cerca di rispondere alla domanda: chi erano i denisoviani?

Purtroppo, di questi antichi uomini che prendono il nome dalla grotta di Denisova nell’Altai dove sono stati trovati scarsi frammenti ossei appartenenti a questa varietà umana, non sappiamo molto soprattutto per la scarsità di reperti fossili, quello che sappiamo con certezza, è che il loro DNA costituisce fino al 6% del patrimonio genetico delle attuali popolazioni asiatiche, una percentuale che sembrerà modesta, ma è pur sempre il doppio della componente neanderthaliana presente nel genoma degli europei attuali.

Quello che importa, però, è che le ricerche di paleogenetica hanno dimostrato che gli uomini di Neanderthal e di Denisova non erano specie a sé, ma sottospecie, varietà, o per usare una parola che oggi ispira un’ingiustificata paura, razze di un’unica specie, Homo sapiens, come dimostra il fatto che si sono ripetutamente accoppiati con gli uomini cosiddetti “anatomicamente moderni” dando luogo a una discendenza fertile, l’umanità attuale, noi. E allora che senso ha sostenere che Homo Sapiens sia uscito dall’Africa poche decine di migliaia di anni fa, quando già popolava l’Eurasia da centinaia di migliaia di anni?

Poiché siamo in argomento, torniamo a parlare del cugino europeo dell’uomo di Denisova, nonché nostro antenato, l’uomo di Neanderthal. Una questione sulla quale non è stata mai fatta chiarezza, è se i neanderthaliani seppellissero effettivamente i loro morti. Ora la questione pare decisamente risolta in senso positivo, e non c’è da stupirsene, poiché l’umanità di questi nostri precursori è stata a lungo sottovalutata. Sul numero di marzo-aprile di “The Archaeology magazine” ce lo spiega un articolo di Jason Urbanus: in particolare, in uno dei più famosi siti neanderthaliani, quello di La Ferrassie in Francia, è stata rinvenuta la sepoltura di un bambino neanderthaliano di circa due anni risalente a 41.000 anni fa, e appare chiaro che il piccolo è stato deposto con cura nel luogo del suo ultimo riposo.

Un articolo comparso il 6 aprile sulla versione on line de “Il mattino” e il giorno dopo tale e quale su Leggo.it ci racconta una storia piuttosto insolita, quella di una lastra di pietra con alcuni graffiti risalente all’Età del Bronzo (2150-1600 a. C.) rinvenuta a Leuhan in Bretagna dall’archeologo Paul du Chatellier nel 1900. La lastra entrò nella collezione che l’uomo teneva nel castello di Kernuz (doveva essere un archeologo alquanto benestante) e lì è rimasta dimenticata per oltre un secolo. Riscoperta nel 2014, è stata sottoposta ad analisi nel 2017 da parte di ricercatori dell’Istituto francese di indagini archeologiche (Inrap), quelli del Centro nazionale di indagini scientifiche (Cnrs) e delle università di Bournemouth e della Bretagna occidentale, si è così potuta fare una scoperta sorprendente: i graffiti che la ricoprono non sono puramente ornamentali, ma sono una rappresentazione dettagliata della valle del fiume Odet che percorre quasi tutta la Bretagna. In altre parole, si tratterebbe della più antica mappa cartografica finora conosciuta in Europa. La lastra è stata chiamata dagli archeologi lastra di Saint Belec.

Proprio in questo periodo, su “The Archaeology News Network” è comparsa una serie di articoli piuttosto interessanti, alcuni sono datati marzo, ma di fatto sono comparsi nel mese di aprile (credo che “il mistero” delle strane datazioni si spieghi abbastanza facilmente, con ogni probabilità le date in calce agli articoli non sono quelle in cui essi compaiono sul sito, ma quelle in cui sono stati redatti e/o consegnati alla redazione).

Un articolo datato 17/3 ma comparso in realtà il 5 aprile, con l’indicazione fonte INRAP ci parla di megaliti con incisioni recentemente trovati in Francia. Nello specifico, nel comune di Massogny, gli archeologi dell’INRAP hanno individuato nel 2018 le tracce di un villaggio e di un complesso megalitico risalenti al neolitico medio attualmente in fase di scavo, appartenenti alla cosiddetta cultura “Cortalloid”. Il villaggio mostra diverse fasi di insediamento, ne sono state individuate cinque, ed è contemporaneo al sito megalitico, che si trova in una zona chiamata Chemin des Bels.

In quest’ultimo è stata individuata una grande lastra reclinata del peso di circa 5 tonnellate, forse originariamente eretta, un menhir, circondata da un cerchio di stele minori alte circa un metro, e nell’area sono stati rinvenuti numerosi manufatti. La lastra è incisa con numerosi disegni geometrici.

Di questo stesso ritrovamento ci parla anche un articolo di Nathan Falde su “Ancient Origins” del 6 aprile. Sempre su “Ancient Origins”, un articolo del 7 aprile firmato Rhudra Bushan ci parla della lastra di Sain Belec, e a questo riguardo si avanza un’ipotesi interessante: poiché la lastra proveniva originariamente da una copertura tombale, può essere che essa indicasse l’estensione dei domini del defunto che era stato un signorotto locale.

Torniamo a “The Archaeology News Network” che ultimamente ha offerto una panoramica abbastanza vasta di articoli. Noi spesso ce ne dimentichiamo, ma anche la nostra Italia ha un patrimonio archeologico di primissimo piano. Un articolo datato 14 marzo (fonte: Tuscia Web) ci parla del ritrovamento di tre urne cinerarie nella necropoli Poggetto Mengarelli che fa parte del Parco Archeologico e Naturale di Vulci, il rinvenimento è avvenuto nel corso di una missione di scavo del Progetto Vulci diretto da Carlo Casi. Le urne risalgono al IX secolo avanti Cristo, e sarebbero dunque una testimonianza di uno dei più antichi insediamenti etruschi, contengono i resti di due adulti, probabilmente un uomo e una donna, e di un bambino di età compresa fra i 9 e gli 11 anni, non è stato trovato corredo funebre, il che fa pensare che i defunti fossero persone di umile condizione.

Un altro articolo ci porta nella Penisola iberica parlandoci dell’uomo di Loizu. In una grotta nel comune di Aintzioa-Loizu in Navarra sono stati ritovati i resti di un uomo di età fra i 17 e i 21 anni, che è uno degli scheletri completi più antichi mai rinvenuti nella Penisola Iberica, risalente a 11.700 anni fa, l’uomo quindi apparteneva a una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori vissute nell’Europa occidentale. Il cranio presenta un foro, conseguenza dell’impatto di un proiettile che probabilmente ne ha causato la morte. La posizione del corpo (a faccia in su, con le braccia incrociate sul petto, e tracce di colorante rosso (ocra) fanno pensare che fosse avvolto in un sudario. Si trattava probabilmente di un giovane caduto nello scontro con qualche tribù rivale. Una dimostrazione in più del fatto che la vita dei cacciatori-raccoglitori paleolitici non era per nulla così pacifica come ci viene spesso raccontato.

Un articolo del 7 aprile (fonte: Max Planck Gesellschaft) ci parla dei Genomi dei primi europei. Si tratta dei resti umani rinvenuti nella grotta di Bacho Kiro in Bulgaria. Ve ne ho già parlato tempo fa, per cui ora mi limiterò a un breve accenno. Questi resti coprono una fascia temporale che va da 46.000 a 35.000 anni fa, e rappresentano il più antico insediamento conosciuto di sapiens anatomicamente moderni in Europa. L’analisi del DNA ha dimostrato una discreta componente neanderthaliana.

È una buona idea, e a qualcuno doveva pur venire: la quantità di DNA neanderthaliano presente nel genoma degli Europei tende a ridursi col tempo, fino ad arrivare al 2/3% attuale, e allora perché non usarla come metodo per stabilire l’età dei fossili umani rinvenuti nel nostro continente? Ce lo spiega un articolo, sempre del 7 aprile e sempre con la Max Planck Gesellschaft come fonte: il metodo è stato applicato ai resti (un cranio molto incompleto) di una donna rinvenuto a Zlaty Kun nella Repubblica Ceca, e ha permesso di stabilire un’età di 45.000 anni in luogo dei 30.000 precedentemente stimati. Rimane tuttavia un dubbio: non era più semplice e più sicuro ricorrere al radiocarbonio?

Torniamo in Italia e in un orizzonte temporale molto più vicino a noi. Sul numero di marzo-aprile di “The Archaeology Magazine” troviamo un articolo di Benjamin Leonard che ci parla del ritrovamento di un certo numero di ceramiche villanoviane risalenti al IX secolo avanti Cristo in un sito nell’isola dell’Asinara non distante dalle coste della Sardegna, da parte di un team di archeologi guidati da Paola Mancini. Questo, unito al fatto già noto che reperti nuragici sono stati ritrovati in sepolture villanoviane, porta alla conclusione che fra le due culture italiche, la villanoviana e la sarda, esistessero regolari rapporti commerciali.

Un altro aspetto interessante dell’articolo, è che esso avalla, anzi dà per scontata una tesi che ho sempre sostenuto, infatti definisce la cultura villanoviana come proto-etrusca. La civiltà etrusca, ho sempre sostenuto, è la fase più matura della cultura villanoviana che a sua volta deriva da quella terramaricola, è dunque espressione di quel sostrato di origine neolitica che popolava la nostra Penisola prima dell’avvento degli Indoeuropei, e la leggenda dell’arrivo degli Etruschi in Italia dall’Asia Minore, avvalorata da Erodoto, e alla quale tanti ancora prestano fede, proprio come la leggenda di Enea e la presunta origine troiana dei Romani, è una favola senza fondamento storico, e, come questa, espressione di quello strabismo mediorientale che ammalia la nostra cultura da millenni.

L’altra cosa importante da notare, è che come sempre, sono gli stranieri a mostrarsi interessati al nostro passato, più di noi stessi, e questa è una pessima cosa, un popolo è come una pianta: senza radici, è destinato in breve a perire.

In questo periodo “Ancient Origins” presenta un parco di articoli piuttosto vasto, dedicato ai ritrovamenti francesi di Massogny, alla lastra di Saint Belec, all’analisi del DNA dei resti rinvenuti nella grotta bulgara di Bacho Kiro, ma dato che ve ne ho parlato più sopra, adesso mi sembra superfluo ripetermi.

Ci sono, per la verità anche due altri articoli ai quali non vorrei fare se non un brevissimo accenno, dato che si tratta di notizie che sono state riprese un pò da tutti i media, giusto per non mostrarmi disinformato, uno riguarda la sfilata che è stata organizzata il 3 aprile al Cairo delle mummie faraoniche e dei reperti dell’antico Egitto per metterne in mostra la storia. L’altro l’annuncio dato da Zachi Hawass, nota stella dell’archeologia mediatica, del ritrovamento vicino a Luxor di una cosiddetta finora sconosciuta “città d’oro”.

Lo scopo di questi articoli non è quello di essere un centone di tutte le nuove scoperte archeologiche, ma di mettere in luce la nostra, spesso trascurata eredità europea. Lungi da me, quindi voler contribuire ad alimentare l’egittomania, “moda archeologica” sin troppo imperante, e che ha fin troppo contribuito a falsare la nostra prospettiva storica.

 

NOTA: Nell’illustrazione, ricostruzione recente di una famiglia neanderthaliana sullo sfondo di un paesaggio tipico dell’età glaciale. Notiamo che finalmente si è smesso di rappresentare come bruti scimmieschi questi nostri precursori.

 

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