11 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, sessantaseiesima parte – Fabio Calabrese

Maggio, ricominciamo a rimetterci sulla pista della nostra eredità ancestrale europea in questo mese di maggio che a tratti sembra essere un novembre.

Ricominciamo da “Ancient Origins”.

Il 1 maggio un articolo di Rudra Bushan ci porta nelle foreste della Scandinavia, precisamente vicino ad Alingsas nella Svezia occidentale. Qui, Thomas Karlsson, appassionato storico, cartografo ed esperto di orientamento si è casualmente imbattuto in un vero e proprio tesoro dell’Età del Bronzo (1750 – 500 a. C.), una cinquantina di pezzi tra collane, monili, aghi in straordinario stato di conservazione, una lampada, che si pensa facessero parte del corredo di una donna di alto rango. Erano probabilmente sepolti nel terreno, ma devono essere stati portati in superficie dallo scavo di animali. In un primo momento Karlsson ha pensato che si trattasse di spazzatura metallica moderna (e altrettanto devono aver pensato altri meno esperti che vi si siano imbattuti prima di lui). I reperti sono attualmente allo studio presso l’università di Goteborg, e sono stati datati tra il 750 e il 500 a. C.

Dalle nostre parti se ne sa poco, ma la Scandinavia è una delle regioni europee più ricche di reperti archeologici dell’Età del Bronzo, in netto contrasto con l’idea che ci viene tante volte presentata di un modo nordico necessariamente barbaro perché lontano dalla presunta influenza civilizzatrice del Medio Oriente.

 L’Età del Bronzo è stato un momento cruciale della civiltà umana, non solo perché si è progressivamente generalizzato l’uso di strumenti metallici, ma anche perché compaiono scambi commerciali su larga scala tra le varie popolazioni umane che comportano l’uso di una qualche forma di valuta, poiché il baratto, soprattutto di beni deperibili, si rivela sempre più inadeguato. Se ve ne ricordate, ve ne avevo parlato non molto tempo addietro, ma il 7 maggio un articolo di Nathan Falde torna sull’argomento.

Secondo una recente ricerca condotta da archeologi tedeschi e italiani, dell’università di Gottinga e dell’università La Sapienza di Roma, nelle collezioni di reperti dell’Età del Bronzo, noi troviamo numerosi piccoli oggetti bronzei spesso anche di forme molto diverse ma che hanno sempre lo stesso peso, il che induce a pensare che venissero appunto usati come monete, anche se le loro forme non ce le rendono immediatamente riconoscibili come tali.

 Veniamo ora a occuparci dell’Europa mediterranea. Un articolo di Nathan Falde sempre del 7 maggio ci parla di una ricerca genetica che è stata condotta sui resti umani rinvenuti in Grecia nell’epoca pre-ellenica (cioè antecedente alla discesa nella regione di popolazioni di origine indoeuropea). La ricerca è stata condotta da un team di ricercatori svizzeri e greci che hanno studiato il DNA dei resti di 17 persone vissute nell’Età del Bronzo, circa 5.000 anni fa, provenienti dalla Grecia continentale, dalle isole Cicladi e da Creta, e il risultato è stato per certi versi sorprendente. Si è visto che i genomi di queste persone sono tutti molto simili, inoltre rientrano pienamente nel profilo genetico della popolazione greca attuale.

Si pensava che le tre culture elladica (Grecia continentale), cicladica e minoica fossero espressione di tre popolazioni differenti, originate grazie a tre distinte migrazioni (guarda un po’) provenienti dal Medio Oriente, in particolare dall’Anatolia, ora sappiamo che questo non è vero.

I dati genetici, in altre parole, smentiscono chiaramente una volta di più la favola dell’ex Oriente lux.

Goal, e palla al centro!

Naturalmente, “Ancient Origins” non è la sola a occuparsi della nostra eredità ancestrale, un articolo riguardante la stessa ricerca si trova anche su Phys.org del 5 maggio (fonte: Center for Genomic Regulation), ma al riguardo mi sembra inutile ripetermi.

Phys.org del 7 maggio (fonte: Università di Gottinga) ci parla invece dell’uso di piccoli oggetti e frammenti di bronzo come moneta nell’Età del Bronzo, a proposito di cui vi ho citato l’articolo di Nathan Falde su “Ancient Origins” della stessa data. Anche qui, prendiamone nota ma evitiamo la ripetizione.

Io penso che ricorderete che ne abbiamo parlato più volte: quando si tratta di affrontare il tema delle origini dell’uomo, la paleoantropologia registra oggi un notevole scacco: più aumentano le nostre conoscenze, man mano che nuovi dati vengono ad aggiungersi a quelli che già abbiamo, il quadro, invece di schiarirsi, appare sempre più confuso, e abbiamo visto anche che questa non è un’opinione espressa da ricercatori indipendenti sulle cui reali competenze scientifiche si possano avanzare dubbi, ma ce lo dicono esponenti dei più autorevoli e maggiormente accreditati istituti di ricerca.

La mia opinione al riguardo ve l’ho espressa altrettanto chiaramente. A mio parere, non è che il problema delle nostre origini sia un groviglio inestricabile, ma tutto dipende dal fatto che la ricerca, per motivi ideologici, si è messa (o è stata messa) su di una pista sbagliata, l’Out of Africa, la visione africano-centrica che viene imposta a ogni costo, a dispetto di tutte le prove che la smentiscono.

Prendiamo ora atto di una nuova lamentela a capirci qualcosa delle nostre origini allo stato attuale delle cose, da parte della “scienza” ufficiale.

Il 6 maggio “The Archaeology News Network” presenta un articolo il cui titolo è già tutto un programma: La maggior parte delle teorie sulle origini umane non sono compatibili con i fossili noti (fonte: American Museum of Natural History).

L’articolo raccoglie a tal proposito la lamentela di Sergio Almécija, ricercatore senior presso la Divisione di Antropologia dell’American Museum of Natural History.

“Quando si guarda la narrazione delle origini umane, è solo un grosso casino [testuale]”, riferisce Almécija, “Non c’è consenso di sorta […] Le persone lavorano con paradigmi completamente diversi, ed è qualcosa che non si vede accadere in altri campi della scienza”.

Tuttavia, a sorpresa, l’evento paleoantropologico più importante di questo periodo sembra essere proprio quello che riguarda la nostra Italia. La notizia è stata riportata da “Il Messaggero” dell’8 maggio e poi da Msn.com e da Leggo.it in data 9 maggio. Nella già famosa grotta Guattari che si trova nel promontorio del Circeo nei pressi di San Felice Circeo (Latina) sono venuti alla luce gli scheletri di nove uomini di Neanderthal, otto dei quali databili a un periodo fra 50 e 68.000 anni fa (particolare curioso, solo uno di essi è uno scheletro femminile, mentre gli altri sono resti di uomini), e uno più antico risalente a un periodo fra 90 e 100.000 anni fa. Questo ritrovamento è stato opera di un team di ricercatori dell’università romana di Tor Vergata e della Soprintendenza Archeologica di Frosinone e Latina. Poiché questa grotta è già stata in passato teatro del ritrovamento dei resti di due individui neanderthaliani, i rinvenimenti salgono in tutto a undici.

Senza dubbio, essi contribuiranno a una comprensione sempre migliore di questo antico uomo che, come le ricerche di paleogenetica hanno ormai ampiamente dimostrato, non era soltanto “un cugino” dell’uomo “anatomicamente moderno”, ma un antenato, le tracce del cui DNA si trovano nel nostro genoma.

Come era prevedibile, la notizia è rimbalzata un po’ su tutti i media (compresi i TG che non è che di solito dedichino al passato remoto grande attenzione). Naturalmente, come era prevedibile, una notizia di questa portata ha trovato eco anche all’estero, e infatti la ritroviamo sia su “The Archaeology News Network” sia su “Ancient Origins”.

In particolare su “Ancient Origins” se ne occupa Nathan Falde in un articolo del 10 maggio che evidenzia un aspetto particolarmente macabro dell’intera faccenda: nella grotta Guattari è stato ritrovato anche un gran numero di ossa animali, di iena e persino di rinoceronte, il che rende improbabile che si trattasse di un cimitero neanderthaliano, è invece possibile che essa fosse una tana di iene, e che gli uomini di cui sono stati trovati i resti nella grotta siano stati appunto predati dalle iene. Studiando il comportamento di questi animali viventi oggi, abbiamo potuto appurare che non sono, come spesso si crede, solo animali spazzini, ma feroci predatori.

Se gli Italiani non sembrano interessarsi molto della loro storia più remota – cosa che non ci fa certo onore – per altri lo studio della storia antica e della preistoria della Penisola italiana è motivo di grande interesse. “The Archaeology News Network” del 10 maggio riporta un articolo (fonte: Consiglio estone delle Ricerche) che ci racconta di una ricerca condotta dall’università di Tartu – Estonia sul genoma degli antichi Italiani dell’Età del Bronzo. Sono stati esaminati i DNA di 50 campioni provenienti da varie sepolture dell’Italia settentrionale e centrale (anche se non è chiaro il perché questa ricerca non sia stata estesa anche al meridione della nostra Penisola).

Ciò che è emerso da questa ricerca è molto interessante anche se, direi, non del tutto inaspettato. Più o meno all’epoca della transizione tra Calcolitico (Età del Rame) e prima Età del Bronzo, cioè 4.000 anni fa, il profilo genetico degli abitanti dell’Italia settenrionale neolitica, è stato modificato dall’immissione di nuovo genoma, quindo da un’invasione o da una migrazione di nuove popolazioni, provenienti dall’area carpato-pontica, una regione coincidente grosso modo con l’Ucraina attuale, che è in sostanza quella della cultura Yamna o Yamnaja, considerata proto-indoeuropea. Questo cambiamento genetico si accompagna anche ad alcuni mutamenti culturali, fra cui un cambiamento delle usanze funerarie il passaggio dalla sepoltura all’incinerazione dei defunti.

3.600 anni fa gli stessi mutamenti si estendono all’Italia centrale. Purtroppo la ricerca non ha fornito dati riguardo al nostro meridione.

Direi che questa ricerca ci consente di cogliere, quasi di fotografare il momento dell’invasione indoeuropea nella nostra Penisola, e scopriamo anche un fatto importante: Secondo un’interpretazione ancora oggi molto diffusa, i conquistatori indoeuropei discesi nella nostra Penisola avrebbero imposto le loro usanze e la loro cultura, il loro linguaggio latino-osco-umbro, che era una variante dell’indoeuropeo da cui sono poi discesi il latino, l’italiano e le altre lingue neolatine ma, essendo una ristretta élite di conquistatori, il loro impatto genetico sarebbe stato esiguo, e gli Italiani di oggi non differirebbero sostanzialmente dai Mediterranei neolitici.

Invece, vediamo che non è così, la discesa degli Indoeuropei ha lasciato una traccia chiaramente riconoscibile nel nostro patrimonio genetico: siamo più indoeuropei di quanto generalmente non si pensi.

È il caso di aggiungere due parole conclusive al nostro discorso. Forse mai come questa volta mi sono basato su fonti ufficiali come “The Archaeology News Network”, “Phys.org”, “Ancient Origins”, “Msn.com”, eppure mai come questa volta, il quadro che ne esce è in contrasto con l’immagine ortodossa, “politicamente corretta” che ci vogliono a tutti i costi imporre del nostro passato. La gioelleria scandinava dell’Età del Bronzo ci permette di intravedere un lontano nord precocemente progredito in un tempo e in una misura che non sono compatibili con l’idea che la civiltà sarebbe venuta all’Europa dal Medio Oriente. Un ulteriore scrollone alla favola dell’Ex Oriente Lux, è poi rappresentato dalle riceche genetiche che hanno dimostrato che le culture della Grecia protostorica, elladica, cicladica e minoica, non sono per nulla debitrici, come finora si era supposto, a migrazioni provenienti dall’Anatolia o da una qualsiasi area extraeuropea.

Per non dire della lamentela di Sergio Almécija, ricercatore senior presso Divisione di Antropologia dell’American Museum of Natural History, che, abbiamo visto, fa seguito a quelle di diversi altri ricercatori, tutti appartenenti a istituti di autorevole scientificità o con una reputazione di tutto rispetto essi stessi. Man mano che si raccolgono nuovi dati sulle nostre origini, tanto più l’interpretazione di essi (basata sull’Out of Africa) si fa confusa e incerta. Si ha sempre più l’impressione che molto presto si dovrà rinunciare all’ortodossia democratica “politicamente corretta” o alla ricerca scientifica.

Prima di concludere l’articolo, mi permetto una nota riguardante l’eredità dei nostri antenati più recenti: è appena trascorso quel 24 maggio che è l’anniversario della nostra entrata nella prima guerra mondiale. Prescindendo adesso dal discorso, che io ho sviluppato più volte sulle pagine di “Ereticamente” e non solo, di quanto fosse allora opportuno schierarsi a fianco dell’Intesa piuttosto che degli Imperi Centrali, resta il fatto che quella nella prima guerra mondiale è stata l’ultima grande vittoria italiana, e non può essere che motivo di tristezza il fatto che essa oggi sia caduta in un oblio pressoché totale, mentre ogni anno, con cerimonie grottesche che sono dimostrazioni di un umiliante servilismo, ogni 25 aprile si celebra la sconfitta che abbiamo subito nella seconda.

NOTA: Nell’illustrazione, guerrieri dell’Italia protostorica (Sanniti). Più indoeuropei di quel che abbiamo finora immaginato?

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