Sempre premesso che è difficile capire quando avverrà la pubblicazione di questo articolo, stanti i tempi tecnici di “Ereticamente” cui siamo ormai abituati, riprendiamo verso la fine di maggio il nostro cammino nell’esplorazione dell’eredità ancestrale. Come avete visto, negli articoli precedenti mi sono concentrato soprattutto su quelli che nel campo dell’informazione archeologica sono i siti maggiori: “Ancient Origins” e “The Archaeology News Network” e ho trascurato diverse cose provenienti da fonti “minori” ma comunque interessanti. Ora vedremo di rimetterci in pari ripercorrendo un po’ tutto il mese di maggio.
Cominciamo con una questione singolare: un mistero che da tempo imbarazza i geologi e gli archeologi, è quello del cosiddetto Dryas recente. Si tratta di un periodo caratterizzato da un improvviso abbassamento delle temperature terrestri in tutto il globo, di durata relativamente breve (1300 anni approssimativamente) avvenuto attorno a 12.800 anni fa, praticamente un ritorno alle condizioni climatiche dell’età glaciale, che avrebbe avuto effetti disastrosi sulle culture neolitiche, provocando l’estinzione di alcune di esse, dalla cultura natufiana in Medio Oriente a quella Clovis nell’America settentrionale, coicide anche piuttosto bene con l’epoca in cui Platone colloca lo sprofondamento di Atlantide, avvenuto – racconta – 10.000 anni prima della sua era.
Un testo pubblicato intorno alla metà di maggio sembrerebbe offrire la spiegazione del mistero. L’improvviso abbassamento delle temperature starebbe stato dovuto a un gigantesco impatto meteorico che avrebbe sollevato grandi quantità di polveri nell’atmosfera, che avrebbero intercettato la luce solare. È quanto racconta Carlos Alberto Bisceglia nel libro, disponibile su Amazon, 12.794 anni fa, visitatori a Gobeckli Tepe (Cassandra vol. 4). Secondo l’autore, memoria di questo evento sarebbe conservata nei petroglifi che decorano il tempio anatolico di Gobeckli Tepe, risalente a 12.000 anni fa, non solo, ma la causa dell’impatto non sarebbe stata uno sciame meteorico, ma una flottiglia di astronavi aliene da cui sarebbero scesi misteriosi “visitatori”. Riguardo a quest’ultimo punto, lo scetticismo, direi, è d’obbligo.
Di Gobeckli Tepe parla anche un articolo di focus.it del 23 maggio a firma di Elisabetta Intini: Le geometrie nascoste del tempio più antico del mondo. In sostanza, un team di archeologi israeliani dell’università di Tel Aviv avrebbe analizzato il monumento con una tecnica di analisi basata su algoritmi spaziali. Il tempio è composto da più strutture, la principale delle quali è una sorta di trifoglio formato da tre recinti. Gli archeologi israeliani hanno scoperto che sebbene i tre recinti sembrino disposti a caso, i loro centri geometrici formano un perfetto triangolo equilatero. Questo fa supporre che l’edificazione di questo antico santuario abbia seguito un piano architettonico più raffinato di quel che si era finora pensato, e infittisce il mistero di questo complesso templare che risalirebbe all’epoca paleolitica quando la regione anatolica e tutto il globo terrestre si dice fossero percorsi soltanto da cacciatori-raccoglitori che non avevano insediamenti stabili e che per sopravvivere dovevano dedicare tutte le proprie energie alla caccia e alla raccolta.
Visto che siamo in argomento su quanto scritto in questo periodo da altri collaboratori di “Ereticamente” sulla tematica dell’eredità ancestrale, sarà opportuno dare almeno un’occhiata a un altro paio di cose. Il 24 maggio Giovanni Sessa ha pubblicato l’articolo I miti di Atlantide, Frobenius, l’Africa ed il continente perduto.
Come Sessa evidenzia:
“Dalla notte dei tempi gli uomini si sono interrogati attorno alle proprie origini e a quelle della civiltà. A tale domanda hanno fornito risposte disparate. L’attenzione per l’origine, l’ineliminabilità di tale interrogativo, la si evince dal costante ripresentarsi nella storia dell’immaginario europeo del mito di Atlantide”.
Nello specifico l’articolo fa riferimento al libro dell’etnologo tedesco Leo Frobenius I miti di Atlantide, recentemente ristampato dalla Iduna editrice. Frobenius riteneva che il mito platonico di Atlantide non fosse puramente leggendario, e che prove di ciò si ritroverebbero nelle tradizioni dei popoli dell’Africa orientale che sarebbero venuti a contatto con sopravvissuti allo sprofondamento di Atlantide.
Sicuramente connesso alla nostra tematica è anche l’articolo di Marco Calzoli del 25 maggio La natura della parola. Io adesso non vi riassumerò l’articolo che è molto ampio e molto tecnico, e che comunque potete leggere su “Ereticamente” (anzi, vi invito a farlo), mi soffermerò solo su un punto: la scoperta avvenuta nel tardo XVIII secolo della comune origine delle lingue indoeuropee:
“Nel 1786 William Jones annuncia alla comunità scientifica che probabilmente sanscrito, celtico, gotico e antico persiano siano tra di loro imparentati. Nell’Ottocento Friedrich e Wilhelm von Schlegel e Franz Bopp approfondiscono i rapporti tra sanscrito, greco, latino, persiano e tedesco scoprendo numerose corrispondenze. Questi studi portano alla nascita della ipotesi indoeuropea”.
Bisogna osservare che origine comune delle lingue indoeuropee significa origine comune dei popoli indoeuropei. Società multietniche e popoli che parlano lingue estranee alla loro origine etnica, come gli afroamericani che parlano inglese, una lingua germanica, sono mostruosità tipicamente moderne. La scoperta (l’auto-scoperta) degli indoeuropei è stata forse la più grande idea rivoluzionaria del XIX secolo, una prima confutazione dell’auto-rappresentazione storica basata sulla bibbia, che poneva una chiara distinzione tra l’Europa e quel mondo biblico-mediorientale che l’aveva fin allora ipnotizzata e sottomessa mediante il cristianesimo.
Non si potrebbe non parlare del nuovo articolo di Maurizio Blondet “Noi” non veniamo dall’Africa pubblicato il 20 maggio sul suo sito “Blondet & friends”, tuttavia devo dire che, con tutto il rispetto, soprattutto per la splendida qualità di polemista di Blondet, ho trovato l’articolo abbastanza deludente. Quel “noi” virgolettato si riferisce ai popoli indoeuropei. Che gli Indoeuropei in quanto tali, dopo la separazione da altri gruppi umani, possano aver avuto un’origine africana, questo mi pare che non lo sostenga per ora nessuno, anche se non metterei le mani sul fuoco per quella fogna intellettuale che sono gli Stati Uniti, psichicamente devastati dalla democratica tirannide del “politicamente corretto” e dove ogni stramberia antistorica riceve cittadinanza, purché anti-bianca e anti-europea.
L’Out of Africa, la “teoria”, la favola dell’origine africana non riguarda quella degli indoeuropei alcune migliaia di anni fa, ma quella della specie umana decine o centinaia di migliaia di anni fa. L’ho rilevato più volte, e vi ho dedicato ampio spazio soprattutto nella cinquantasettesima parte de L’eredità degli antenati: con questa confusione di ordini di grandezza temporali, si presta il fianco all’avversario, si permette non soltanto di dichiarare “non scientifiche”, ma perfino di ridicolizzare le posizioni di chi non accetta i dogmi del “politicamente corretto”.
Tuttavia, l’articolo ha qualche contenuto apprezzabile, ad esempio:
“[Gli indoeuropei] venivano dal Nord. Da una sede alquanto precisa, visto che nella loro lingua-madre nominano il faggio, un albero che non cresce al di là della linea dell’Oder-Kaliningrad e che gli slavi non conoscono; dunque sulle rive del Baltico e Mare del Nord”.
Questo è perlomeno un utile scrollone alle tesi di Marija Gimbutas e di quanti altri hanno postulato un’origine asiatica degli Indoeuropei, quando si lascia la bussola della ricerca delle nostre origini libera di ruotare, l’ago non punta verso nord-est, ma verso nord.
Non è probabilmente un caso che pochi giorni dopo, il 23 maggio, a completamento del discorso iniziato qui, Blondet abbia postato sul suo blog un nuovo articolo, Sperare in Agartha, che è in sostanza una sintesi delle tesi di Tilak sull’origine polare degli Indoeuropei.
Passiamo ad altro. Il 24 maggio, il Rijksmuseum van Oudheden di Leida (Paesi Bassi) ha annunciato sul proprio sito la creazione di un tour virtuale, Doggerland, che sarà visitabile fino al 31 ottobre, curato dal conservatore del museo Luc Amkreutz. Doggerland era una terra un tempo emersa, e sommersa dall’innalzamento delle acque alla fine dell’età glaciale, che si trovava dove oggi c’è il grande tratto di acque basse fra l’Inghilterra e la costa fiamminga noto come Dogger Bank. Numerosi reperti preistorici, finiti nelle reti dei pescatori, portati a riva dalle mareggiate, recuperati dai sub, permettono oggi di comporre un quadro della vita in questa regione nell’epoca preistorica.
A parte ciò, c’è da segnalare che esiste anche un gruppo facebook che si chiama appunto “Doggerland” che vuole ridare a questa terra perduta almeno un’esistenza virtuale, e a cui si possono iscrivere tutti coloro che vogliono sentirsi cittadini di questa “nazione acquatica”. L’illustrazione che correda il presente articolo è la ricostruzione di un insediamento di Doggerland, ed è tratta appunto da questo gruppo FB.
E sempre del 24 una notizia riportata da msn.com che a sua volta l’ha ripresa da “La Repubblica”. Il Consiglio d’Europa ha riconosciuto la presunta rotta di Enea descritta nell’Eneide virgiliana fra gli itinerari culturali certificati. Peccato solo che l’eroe inventato da Virgilio non sia probabilmente mai esistito. A mio parere, il vezzo di volersi attribuire un’origine troiana da parte dei Romani, non è che un’ulteriore riprova del fascino (alquanto malsano, a mio modo di vedere) che tutto ciò che appariva esotico e orientale, ha esercitato sui nostri avi fin da tempi remoti, ed è stato sempre esso a favorire la diffusione del cristianesimo in Europa.
Un filmato è stato postato sul suo sito “Survive the Jive” e su You Tube da Tom Rowsell in data 17 maggio, Greek and roman DNA. In sostanza, le ricerche genetiche confermano che il DNA degli antichi Greci e Romani presenta una stretta correlazione con quello delle popolazioni centro e nord europee, che il DNA indoeuropeo esiste. In definitiva, è una conferma di quello che sapevamo già, ma è quanto mai utile ricordarlo nel momento in cui assistiamo a un tentativo di falsificazione alla grande della nostra storia, con l’attribuzione di un ruolo storico a popolazioni “colorate” che non l’hanno mai avuto e/o di “colorizzare” i nostri antenati indoeuropei.
Tom Rowsell, ricordiamo anche questo, è un ricercatore indipendente che studia le origini europee al di fuori degli schemi della “scienza” ufficiale e “politicamente corretta” che oggi è di fatto un tirannico dogmatismo inteso a inculcare “verità” totalmente false. Ricordiamo ad esempio che sul suo sito “Survive the Jive” ha svelato i meccanismi della bufala dell’uomo di Cheddar intesa ad attribuire caratteristiche subsahariane a questo antico inglese. Insomma, porta avanti lo stesso lavoro che cerco di fare io, con la differenza che lui lo fa meglio, con una padronanza dei mezzi multimediali che io nemmeno mi sogno, e confesso che quello di poterlo intervistare per “Ereticamente” è uno dei miei sogni nel cassetto.
E’ il caso di ribadire che un lavoro come quello di Tom Rowsell è oggi di estrema importanza, soprattutto di fronte al paradosso che quella che per disgrazia dell’umanità è la maggiore potenza di questo pianeta, gli Stati Uniti d’America, parallelamente al declino demografico della popolazione di origine europea, stanno conoscendo una massiccia falsificazione della storia e una rudimentalizzazione della cultura, discesa al livello di fiabe africane, e visto il peso egemone che gli USA e il cancro culturale “politicamente corretto” hanno, noi non possiamo considerarci immuni da tutto ciò.
Sentite di cosa ha dato notizia recentemente il gruppo FB “Renovatio Imperii”:
“I veri romani, cioè gli etruschi, erano neri. L’Italia, prima che i latini e i greci formassero una coalizione bianca, era dominata da popolazioni nere provenienti dall’Africa”.
Queste sono solo alcune delle tesi che abbiamo ascoltato in un video di The Blackest Truth, un canale di quasi ventimila iscritti che “denuncia” i soprusi e i complotti (anche storici) che l’elite bianca perpetrerebbe nei confronti delle minoranze nere.
Nei circa nove minuti di video abbiamo appreso che:
- Il toponimo ‘Roma’ deriverebbe in realtà da ‘Ra Ouma’, ovvero ‘Città protetta da Ra’;
- Le sibille erano delle profetesse africane, i cui testi vennero plagiati dagli evangelisti;
- La Basilica di San Pietro non venne costruita da Michelangelo, ma dalle Sibille Africane, che lo eressero originariamente come tempio alla dea Mami Wata (e chi glielo spiega che rinascimento ed età pre-romana differiscono di quasi 2000 anni?).
Il video è basato su un articolo pubblicato in occasione del Black History Month e ricondiviso centinaia di migliaia di volte sui social, e tra i commenti, dove viene incolpata “l’élite bianca” per aver insabbiato e stravolto la storia, troviamo anche alcuni commenti di qualche nostro connazionale orgoglioso di discendere dagli etruschi africani.
Questo accade quando, oltreoceano, vengono rimossi dalle università gli studi di storia classica per rimpiazzarli con corsi su “Gender, razza, sessualità e giustizia sociale nella letteratura”.
Non dimentichiamo che un aspetto fondamentale del movimento Black Lives Matter è il “Cancel culture”, cioè letteralmente cancellare la cultura in quanto elitistica e “bianca” per sostituirla con superstizioni africane, a cui noi non possiamo rispondere altro che con la difesa intransigente del nostro patrimonio storico e culturale.
NOTA: Nell’llustrazione, ricostruzione di un insediamento di Doggerland (dal sito “Doggerland”).
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