7 Ottobre 2024
Filosofia Libreria

La necessità degli apocalittici: l’ultimo saggio di Geminello Alvi – Giovanni Sessa

L’ultima fatica letteraria di Geminello Alvi può essere definita il suo libro della vita. Lo è, a parere di chi scrive, per due motivi. Innanzitutto, perché è il risultato delle riflessioni condotte dallo studioso per decenni sul testo dell’Apocalisse. In secondo luogo, in quanto il volume, che ha la giustificata pretesa di essere un commento al testo sacro, presenta, a tutta prima, tratto labirintico, aporetico, in evidente sintonia con l’Apocalisse stessa.

Ciò rende davvero “tradizionale” l’esegesi di Alvi: essa è fedele al non transeunte del testo, non ai suoi aspetti accessori. Il volume, per chi sia aduso alle semplicistiche classificazioni, è un esempio, sicuramente ben riuscito, di saggistica erudita, colta. In esso, Alvi attraversa le vicissitudini ermeneutico-filologiche cui l’Apocalisse è andata incontro durante i millenni della sua storia ma, al medesimo tempo, è sostenuto da un incontenibile afflato “poetico”, nel senso etimologico greco del temine, che rende la sua lettura, qualora accompagnata dal testo dell’Apocalisse, lieve e liberante. Ci riferiamo a, La necessità degli apocalittici comparso nel catalogo Marsilio (pp. 460, euro 30,00). Il senso del libro è chiaro fin dall’incipit. L’Apocalisse è testo non normabile dall’approccio logico-filologico. I suoi contenuti hanno sviluppo spiraliforme, labirintico. Non può essere semplicemente letto, ma necessita continue riletture, atte a svelarne sempre nuove porte d’accesso. La sua è: «Sterminatezza sempre meno dominabile» (p. 11). L’interprete accorto ha contezza che l’Apocalisse è: «incorniciata tra il tempo accelerato […] e la fine del tempo […] Il tempo estinto si rivela l’unico vero» (p. 12). Esso parla non solo ai primordi della cristianità, ma in ogni precipitare del tempo. Oggi più di ieri, in quanto: «il film a lieto fine del progresso è evoluto incubo» (p. 12). Il progresso ha assunto, nel presente, il volto dell’orrore. In ogni precipitare del tempo, la forza apocalittica rivela uno spazio di verticalità impensata, induce la metanoia nel singolo che se ne faccia latore e, in uno, la metamorfosi del mondo. Alvi chiosa: «La sola rivoluzione doverosa è quella che l’Apocalisse impone, e da cui il lettore ottiene una trasmutazione di sé e del mondo ch’è molto più che capire, essendo agire» (p. 304-305). Per questo egli non si sofferma semplicemente sull’analisi del testo, ma presenta il mondo ideale di ben quarantadue “contaminati” dall’Apocalisse che, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, riproposero la gnosi cristiana.

Preliminarmente, l’autore mette in guardia il lettore: qualsiasi analisi del testo è messa a rischio dalle polarità antitetiche che vi compaiono. Ricorda, pertanto, i contributi ermeneutici forniti da Robert Henry Charles e dal teologo Bousset, relativi alla probabile identificazione dell’autore dell’Apocalisse, rintracciato dai due studiosi non in Giovanni l’Apostolo, ma in Giovanni Presbitero. L’analisi di Alvi procede con lo stigmatizzare negativamente il pervertimento retorico dell’Apocalisse, messo in atto da filologi non accorti, operanti perfino nelle Chiese: «Almeno da un settantennio quasi ogni teologia di Roma […] giudica di fatto l’Apocalisse libro sconsiderato e incomprensibile» (p. 23), tanto da ridurla ad opera antiromana di tarda apocalittica ebraica. Punto di non ritorno, nella linea di tali interpretazioni sfocianti nel sociologismo, è da individuarsi nelle tesi del domenicano Boismard, per il quale: «A risolvere gli enigmi dell’Apocalisse sarebbe bastata un’equazione di primo grado» (p. 25). L’apocalittico non può essere incasellato dalla mente astratta, intellettualistica e combinatoria.

Del resto, il criterio d’ordine del testo può essere rinvenuto nel ritorno di numeri ossessivi, rinviante ad un’aritmetica qualitativa e ai ritmi interni dello scritto. Per entrare nelle vive cose dell’Apocalisse è necessario sentirsi: «perduti in questo tempo e di volersi apocalittici, ovvero dentro il contorcersi del testo così tanto da esserne rivelati, ad altro trasmutati» (p. 29). L’Apocalisse sovverte tempo e spazio, come seppero, due degli “apocalittici necessari”, Guido de Giorgio, travolto dall’uragano della devozione che gli procurò l’esperienza dell’inversione del tempo, e Pavel Florenskij, alla ricerca di uno spazio analogico e non euclideo. Il primo visse isolato

in una canonica di montagna nei pressi di Mondovì. Sodale di Evola nel magico “Gruppo di Ur”, si recò in treno, nell’immediato secondo dopoguerra, ad incontrare di persona a San Giovanni Rotondo, Padre Pio: fu colpito a tal punto dall’incontro che digiunò per due giorni e scrisse, di getto, durante la celebrazione della messa, questa parole: «noi transeunti tu solo permanente, tu infinità inconcepibile, noi piattaforma della morte» (p. 32). Solo comprendendo la dimensione del miracolo è possibile avere acceso alle profondità apocalittiche. Florenskij fu monaco, matematico, filosofo. Nella sua opera, lo spazio apocalittico rintracciò la sua pensabilità, suggerisce Alvi. Si tratta dello spazio testimoniato dalle icone: «geometria a curvatura variabile conquistata dalla preghiera, imperturbabile» (p. 37). E’ lo spazio in cui l’invisibile irrompe nel visibile, la “porta regale” e dorata aperta sull’al di là. La medesima percezione l’ebbe il regista Tarkovskij, che scrisse l’Apocalisse essere: «la più grande creazione poetica che sia mai esistita sulla terra…Essa è, in ultima analisi, un racconto del nostro destino» (p. 37) Apocalisse necessaria, necessario svelamento del regno dei cieli.

Per questo, a nostro parere, il plesso più significativo e rivelatore del libro, va individuato nell’analisi del Parsifal di Wagner. Parsifal, il puro folle, vive il sovvertimento della percezione consueta, vive: «il rovesciamento del nesso che proporziona il tempo allo spazio trascorso. Per lui ormai il tempo si estingue dilatato oltre qualunque distanza» (p. 304). E’ necessario sentire come Parsifal sente: «l’eterno che accelera, fine di ogni misura, senza più precedente» (p. 304), per vivere la “liberazione”. Del resto, il nostro autore sa che molti plessi dell’Apocalisse presentano una regressione al mito. Non era forse il programma esposto da Wagner in, Religione e Arte, un tentativo di salvare, in epoca di secolarizzazione avanzata, il Kern: «cristiano per opera d’arte elevata a mistero» (p. 296)? Insomma, il Graal di Parsifal è rito dell’io che, postosi sulla via della cerca, si trova ad essere apocalittico. Conclusivamente: «Il mito di Parsifal completa l’Apocalisse» (p. 297).

L’Apocalisse mette in crisi l’idea di realtà ma, al medesimo tempo, ha in sé, stando al suo prologo, tratto fondante. Per cui, di fronte al rischio pandemico che stiamo vivendo, occasione che sta consentendo al Potere omologante di mettere in atto l’ultima fase della sua azione dissolutrice, non resta che guardare alla salvezza apocalittica. Infatti: «Il respiro che infetta è distratto, di anima separata dal cielo. Respirare è pregare, levati a colonna» (p. 423).

Giovanni Sessa

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