9 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, settantunesima parte – Fabio Calabrese

Eccoci di nuovo qui, passato il solstizio, entriamo in un’estate che si preannuncia afosa. Per quanto riguarda Trieste e il sottoscritto personalmente, gli ultimi strascichi della pandemia hanno consigliato quest’anno di tenere il Triskell, il festival celtico, e di conseguenza le mie conferenze, a fine luglio, spostato di un mese rispetto alla sua collocazione abituale. In ogni caso, vi terrò aggiornati.

Questa volta ci dedichiamo a qualcosa che, sempre pressato dal rincorrersi denso di novità riguardanti la nostra eredità ancestrale, a cui sembra che la pandemia non abbia affatto posto freno, ultimamente ho piuttosto trascurato, una piccola rassegna del panorama librario. Mi scuso se, come vedremo, ne uscirà una Eredità degli antenati alquanto diversa dal solito, ma dove vedrete che i motivi d’interesse non mancheranno.

Mi scuserete se comincio da qualcosa apparso piuttosto indietro. Per coloro che sentono il fascino dell’Alto Nord, del mondo misterioso degli sciamani, è senz’altro consigliabile un testo apparso ad aprile, di Antonio Bonifacio per le edizioni Simmetria, I popoli dell’Orsa Maggiore che porta il lungo sottotitolo Lungo la via degli orsi e degli sciamani. Lo sciamano, l’orso e il cacciatore celeste.

Sempre per coloro che in qualche modo si riconoscono o si sentono vicini a questo mondo e a questa spiritualità, sarà bene ricordare un testo uscito a giugno per le edizioni Lindau, Canti dello sciamanesimo boreale di Alessandra Orlandini Carcreff.

Come riporta la presentazione del libro:

Figura centrale nelle culture ugrofinniche dell’Europa settentrionale, lo sciamano era in grado di mettere in relazione la sfera celeste abitata dagli dèi, il mondo terreno in cui si trovavano gli uomini e l’oltretomba, dimora dei defunti. Attraverso rituali, canti e pratiche, rendeva grazie alle forze e agli esseri della natura, propiziava le azioni di cacciatori e pescatori e allontanava malattie e influssi negativi dai membri della comunità alla quale apparteneva”.

Vi avevo già parlato a suo tempo, penso lo ricorderete, della pubblicazione da parte delle edizioni Ritter del libro Figli di Enea di Pietro Cappellari. Da parte mia, non potevo non rilevare il fatto che quella dell’eroe virgiliano è una figura mitica, o meglio ancora un personaggio letterario, della cui reale esistenza non abbiamo la benché minima traccia, facevo notare, anzi, che quello di cercarsi più illustri origini “a oriente” è una prima manifestazione di quel gusto per l’orientalismo e l’esotismo che è preesistente al cristianesimo, e anzi gli spianò rovinosamente la strada, ed è tuttora presente nella nostra cultura con effetti distorsivi che non ho mai smesso di denunciare.

Tuttavia, a lato di ciò, facevo notare che indipendentemente dal valore storico della leggenda o della creazione letteraria virgiliana (che dopo l’epoca fosca delle guerre civili che conclude il periodo storico della Roma repubblicana, si inseriva nel progetto augusteo di rigenerazione morale), questa figura ha un importante valore simbolico come simbolo dell’identità romana-italica, e in questa luce non ha smesso di avere valore, soprattutto oggi che la nostra identità etnica e culturale è così tanto minacciata, e non a caso, il libro di Cappellari presenta il seguente sottotitolo: La stirpe di origine divina. La missione di Roma. Il primato dell’Italia.

Bene, l’8 giugno questo testo ha avuto su “Il primato nazionale” un’interessante recensione a opera di Calomanno Adinolfi. Adinolfi osserva che certuni hanno cercato di ribaltare il mito di Enea facendogli dire l’esatto contrario di ciò che significa presentandocelo come un “profugo turco” e tentando di fare del poema virgiliano un peana all’accoglioneria pro-immigrazione (tralasciamo il particolare che gli antenati degli odierni Turchi ai tempi della Troia omerica erano nomadi delle steppe dell’Asia centrale e che, in conseguenza dell’invasione ottomana l’Anatolia ha subito la più robusta e violenta sostituzione etnica di cui si abbia notizia prima dell’età moderna). Come fa notare Adinolfi sulla scorta di Cappellari, il vero significato dell’Eneide non sta lì, ma al contrario nell’evidenziare il carattere divino della stirpe romana-italica.

Oggi noi sappiamo che le voci di contestazione all’archeologia ufficiale, alla visione “politicamente corretta”, all’ortodossia che ci si vuole imporre sulle nostre origini sono diventate talmente numerose da essere un fiume in piena, e sia chiaro che in questo mazzo metto pure me stesso, anche se a mio avviso occorre più prudenza di quella impiegata da molti, e non far divagare troppo la fantasia.

Mi spiace di non avere il testo sottomano e di averne notizia solo attraverso una recensione apparsa il 6 giugno su libriidee.org, ma certamente in questo filone di contestazione dell’archeologia ufficiale rientra anche I minoici in America, l’ultima fatica di Nicola Bizzi, pubblicata dalle edizioni Aurora Boreale.

Vi riporto dalla presentazione del libro:

“Gli antichi popoli mediterranei perfezionarono le tecniche di costruzione delle navi e l’arte della navigazione, arrivando ad esplorare tutto il mondo. A tali popoli era ben nota quindi l’esistenza di un grande continente al di là dell’Oceano Atlantico, che a più riprese visitarono e colonizzarono”.

Ma Bizzi non si ferma qui, infatti il testo considera la veridicità storica del mito di Atlantide e cosa si nasconda dietro l’arcaica leggenda dei titani.

Io, come dicevo, suggerirei cautela e tenere bene i piedi per terra, proprio per non farsi prendere in contropiede da un avversario potente e furbo.

C’è un episodio che vi vorrei raccontare a questo proposito. Diversi anni fa, stavo cercando uno sbocco editoriale per il mio saggio La storia perduta delle Americhe che poi fu pubblicato sul n. 7/2012 della rivista “La runa bianca”, e infine è diventato un capitolo del mio libro Alla ricerca delle origini (Edizioni Ritter). Avevo contattato al telefono un editore a cui avevo mandato in lettura il saggio. A suo parere, ero stato anche troppo prudente nel formulare ipotesi sulle migrazioni che potevano aver raggiunto le Americhe prima di Colombo. Ad esempio – sosteneva – Chanchan, “come rivela il nome” sarebbe stata fondata dai cinesi.

“Bene”, ho replicato, “Allora vuol dire che Machu Picchu è stata fondata dai sardi”.

Io non vi cito questo episodio per mettermi in mostra, ma per ribadire un concetto che vi ho più volte evidenziato. Noi sappiamo di avere a che fare con avversari non soltanto molto potenti, ma anche molto furbi. Non dobbiamo correre il rischio di farci “prendere in castagna” con atteggiamenti eccessivamente fantasiosi.

Fra i testi pubblicati in questo periodo, forse sarà il caso di menzionare anche Microcosmo e macrocosmo nella storia delle religioni di Cyrill von Korvin-Krasinski pubblicato il 9 giugno dalla casa editice Ghibli.

Leggiamo nella presentazione:

Esistono così tante corrispondenze tra il singolo individuo e la totalità del cosmo che si potrebbe definire l’uomo come un universo in miniatura. Questa nozione di microcosmo ricorre con sorprendente logicità in tutte le culture del passato, dalle più prossime alle più remote. Eppure, quella tra microcosmo e macrocosmo resta una relazione tanto più preziosa quanto più smarrita. Nella prima parte del volume Cyrill von Korvin-Krasinski esamina le idee sul microcosmo nelle culture precristiane e nei culti dei popoli non occidentali. Nella seconda parte, invece, la riflessione si fa più strettamente connessa alla teologia cristiana”.

Qui si tratta di essere chiari: l’idea della corrispondenza tra uomo e cosmo, dell’uomo come cosmo in piccolo, e del mondo come uomo di grandi dimensioni, è un’idea ricorrente nelle culture tradizionali, e si tratta di una di quelle idee che il cristianesimo ha messo al bando, salvo essere poi più o meno surrettiziamente reintodotta dai dotti rinascimentali. Non è il solo esempio in cui si vede chiaramente che il cristianesimo, lungi dal rappresentare “le radici dell’Europa”, ha introdotto un complesso di idee del tutto difformi dalla più antica e genuina tradizione europea: si pensi ad esempio all’antitesi fra tempo ciclico e tempo lineare.

Le civiltà antiche, quelle che possiamo chiamare tradizionali, tutte quelle che si situano fuori dall’ecumene giudaico-cristiano-islamico, hanno concepito il tempo come ciclico, un’eternità fatta di grandi ere e lentissimi ritorni, una concezione nella quale hanno certamente parte l’osservazione dei cicli stagionali, ma anche e soprattutto i grandi cicli cosmici come quello lasciato intuire  dalla precessione degli equinozi. A porsi in opposizione a questa concezione è prima di tutto l’ebraismo: la storia del mondo è un percorso rettilineo e breve, dalla creazione del mondo al giudizio finale, una sorta di prova per decidere del destino ultimo, una “valle di lacrime”. Questa concezione è ripresa dal cristianesimo con una variante: non si tratta di una linea retta, ma di due semirette fra le quali si pone l’evento eccezionale dell’incarnazione. Forse qualcuno si stupirà a saperlo, ma una concezione non dissimile e ancor più radicale si ritrova nell’islam. Per i mussulmani il mondo si divide in due parti: l’islam e il Dar al Harb, la casa della guerra, ossia quella parte del mondo a cui va portata guerra, che va convertita per amore o per forza (molto più spesso per forza). Quando il mondo intero sarà assoggettato alla legge del Profeta, la storia avrà adempiuto al suo scopo.

Alla concezione ebraico-cristiana (e islamica) la mentalità moderna ha aggiunto una sola variante: non si tratterebbe di un percorso orizzontale ma ascendente, la presunzione di un indefinito progresso. La favola progressista è ovviamente folle: è ben difficile immaginare che in un mondo sovrappopolato, inquinato, dalle risorse in esaurimento, i nostri dicendenti possano aspirare a migliori condizioni di vita, tuttavia vediamo che il catechismo progressista viene continuamente ripetuto come un articolo di fede, e di questo appunto si tratta.

Tra le poche voci contestatrici della favola progessista e della concezione del tempo lineare, a parte i pensatori tradizionalisti, si può ricordare forse solo il grande Friedrich Nietzsche, che ad hoc formulò la teoria dell’eterno ritorno.

Di cose interessanti dal nostro punto di vista, in questo arco di tempo, i effetti ne sono uscite diverse, tanto per fare una rapida sintesi: Possiamo citare La stirpe di Wotan, metastoria dei popoli d’Europa di Alex Woodland edito da Psiche 2, una rilettura della storia e dei miti europei sotto l’angolo visuale del paganesimo norreno. Poi abbiamo editi da Thule Italia, di Karl Georg Zschaetzsch Atlantide, la patria ancestrale degli ariani e Realtà razziali in Europa di Lothrop Stoddard, e non dimentichiamo neppure I miti di Atlantide, l’Africa ed il continente perduto. di Leo Frobenius, di cui Il 24 maggio Giovanni Sessa ha pubblicato su “Ereticamente” l’articolo I miti di Atlantide, che ne è in  pratica una recensione che io ora non vi ripeterò, salvo evidenziare alcuni punti.

Come Sessa evidenzia:

Dalla notte dei tempi gli uomini si sono interrogati attorno alle proprie origini e a quelle della civiltà. A tale domanda hanno fornito risposte disparate. L’attenzione per l’origine, l’ineliminabilità di tale interrogativo, la si evince dal costante ripresentarsi nella storia dell’immaginario europeo del mito di Atlantide”.

Nello specifico l’articolo fa riferimento al libro dell’etnologo tedesco I miti di Atlantide, recentemente ristampato dalla Iduna editrice. Frobenius riteneva che il mito platonico di Atlantide non fosse puramente leggendario, e che prove di ciò si ritroverebbero nelle tradizioni dei popoli dell’Africa orientale che sarebbero venuti a contatto con sopravvissuti allo sprofondamento di Atlantide.

Vi ho  già parlato di quella che sembra essere la scoperta archeologica più sorprendente degli ultimi tempi, la vasca votiva di Noceto (Parma). Al riguardo, vi cito un interessante commento della nostra Rita Remagnino:

“Offerte per gli dèi? L’articolo mi ha ricordato la leggenda di El Dorado, e di tutti gli altri luoghi simili sparsi nel mondo. In fondo non abbiamo perso l’abitudine, vista la quantità smodata di fontane nelle quali buttiamo monetine e varie altre cose preziose senza sapere perché”.

Qui si potrebbe aprire un discorso davvero ampio e complesso sul fatto che l’uomo europeo, sotto una vernice di cristianizzazione, è rimasto sostanzialmente pagano nei suoi atteggiamenti fondamentali, persino in abitudini spicciole come quella di buttare monetine nelle fontane.

E poiché siamo in argomento, un lettore ha messo un interessante commento, che vi trascrivo,  all’articolo di Roberto Pecchioli su Oswald Spengler pubblicato da “Ereticamente” l’11 giugno.

“[Spengler], un grande uomo, uno di quelli che hanno capito le cose in profondità. Per salvare l’occidente dobbiamo ucciderlo. E se lo facciamo noi sarà un parricidio, ma necessario per salvare i suoi tesori e i suoi nipoti. Ricominciamo da capo, via tutti quei lacci, quei pregiudizi, strutture che le società marce usano per conservare cose morenti o morte. Dobbiamo abbattere o cambiare le istituzioni internazionali in profondità, sono diventate un nodo Gordiano funzionale solo a chi ci opprime, tagliamole e liberiamoci”.

In sintesi, quando noi parliamo di Occidente, di Europa, di popoli e culture di etnia caucasica, parliamo di due cose del tutto diverse: da un lato le istituzioni: il cristianesimo, la democrazia, il buonismo, il “politicamente corretto”, dall’altro i popoli del nostro sangue. Se vogliamo salvare i secondi, sempre più minacciati di sostituzione etnica, non si scappa, dobbiamo liberarci dei primi, elementi ormai morti e sclerotizzati oppure putrescenti, che sono soltanto d’intralcio alla sopravvivenza dell‘Homo europeus, o armi che possono essere facilmente rivoltate contro di noi.

NOTA: Nell’illustrazione, un’immagine certamente fantastica, e tuttavia più “vera” di molte altre: dalla prospettiva di un’immaginaria terrazza, (potrebbe essere Asgard o il Valhalla) ci si affaccia su di un un panorama nordico. Una rivedicazione delle nostre origini iperboree.

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