di Michele Rallo
Storicamente, il denaro è una convenzione. Gli antichi regni attribuivano un valore ad alcuni metalli preziosi (o più raramente ad altre merci) e questi — coniati in “monete” — erano accettati da tutti gli abitanti come mezzo di pagamento. Nell’area mediterranea, fin dagli albori della civiltà ellenica, l’oro è stato la principale unità di misura per la determinazione del valore della moneta, sia come mezzo di pagamento “interno”, sia come strumento per il regolamento degli scambi fra popolazioni diverse. Naturalmente, erano gli Stati a coniare le monete, utilizzando l’oro che detenevano nei loro forzieri. Più oro aveva uno Stato (o il suo Re), più lo Stato era ricco. E, più lo Stato era ricco, più era potente, perché poteva armare eserciti numerosi e ben equipaggiati. Quando, però, l’economia di uno Stato andava male, il Sovrano chiedeva del denaro in prestito a soggetti privati che si erano arricchiti con i commerci o con speculazioni di tipo finanziario. Questi soggetti privati — i “banchieri” — prestavano dunque del danaro agli Stati, che divenivano così debitori dei banchieri, peraltro subendone forme di condizionamento più o meno accentuate. Iniziava da allora — nel Rinascimento — il lungo assedio della finanza agli Stati nazionali ed alle loro economie.
Fino a qualche anno fa mancava ancora un tassello: gli Stati potevano ancora disporre di banche nazionali proprie e del potere di battere moneta. Oggi non più: a seguito di riforme cosiddette “liberali”, le banche nazionali sono diventate “banche centrali” private, e sono loro a battere moneta, che poi prestano agli Stati dietro il pagamento di interessi. Alcuni Stati, poi — e mi riferisco a quelli dell’eurozona non hanno neanche la possibilità di chiedere denaro in prestito alle rispettive banche centrali, che sono state assorbite da un’unica banca centrale europea. Inoltre, l’oro, non è più una unità di misura della ricchezza delle singole nazioni, essendo stato gradualmente sostituito dal dollaro: prima come moneta convertibile in oro, e poi — a partire dal 1971 — senza neanche questo vincolo. Oggi siamo alla svolta finale: gli Stati non possono più disporre di una ricchezza propria, sono costretti a farsi prestare il denaro dalle loro banche centrali — nella più fortunata delle ipotesi — o, più spesso, dalla speculazione internazionale. Questa, peraltro, batte una propria moneta: è il denaro “virtuale” generato dalla cosiddetta “finanza derivata”; denaro inesistente — in altri termini — prodotto in quantità tale da superare di dieci volte il PIL dell’intero globo terraqueo.
Il problema, dunque, non è soltanto nostro, o della Spagna, o della Grecia, o dell’Unione Europea nel suo complesso. Il problema riguarda tutte le nazioni, comprese quelle che in questo momento si sentono ricche e forti. L’assedio della finanza ai popoli e alle nazioni, iniziato in un lontano giorno del XIV secolo, è giunto adesso all’assalto finale. I popoli e le nazioni hanno una sola via di salvezza: nazionalizzare le banche e l’intero settore finanziario. Che il denaro — dalla sua emissione e fino al suo utilizzo come strumento di intermediazione negli scambi internazionali — torni ad essere nella disponibilità degli Stati. E non dei banchieri o, peggio ancora, degli usurai.
Nota di Ereticamente
Ringraziamo l’Autore per l’invio. L’articolo è stato pubblicato in cartaceo sul periodico Social di Trapani
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