Come per il pesce
Forse il pettine sta stringendo nodi da tempo attesi da qualcuno, inattesi da molti. Si mostrano espressioni che nulla hanno a che vedere con la matrice culturale che ci avviluppa e gestisce le sinapsi. Ne sono un’opposizione, visto che ne implicano una critica. Espressioni eterodosse nei confronti di ciò che abbiamo appreso, studiato, voluto, alimentato, e trasmesso. Nei confronti della pellicolare superficie dell’umana potenza creativa.
Non si tratta di un cambio di registro classificabile sotto la formula “novità”. Uno strillo inflazionato, ordinariamente impiegato dalla società dello spettacolo (pubblicità, informazione, cultura, commercio), obbligata a fare uso a dosi crescenti pur di tirare avanti la consumistica messinscena.
Riguarda semmai il cosiddetto cambio di paradigma, nel cui cuore si trova una critica all’assolutismo del materialismo. Una realtà tanto strutturale delle nostre costituzioni da rendersi normalmente invisibile. Se, non ha senso al pesce cosa ne pensa dell’acqua, ne ha a chi ha preso coscienza che quell’acqua, ci struttura, ci compone, ci limita. Resterà il docile bue sotto il giogo una volta presa coscienza della propria potenza? Una volta presa coscienza di sé?
Ma la critica al materialismo non è per niente una novità. Quella finora espressa dalla narrazione condivisa è stata perlopiù intellettual-speculativa. Limitata al campo del sapere cognitivo: niente d’incarnato, di estetico, di radicale. Di carnale, in senso costitutivo. In quanto si esprime nei sentimenti, nel fare, nel pensare, nel concepire.
Insieme al materialismo, fanno corpo il razionalismo, il meccanicismo e lo scientismo. Territori atrocemente disumani in cui gli individui sono facili prede di superstizioni, incantesimi ed effimeri valori. Destinati così alla perdizione. Il culto dell’avere e quello della tecnologia hanno eletto ad universale il progresso materiale. Abbindolate come i primitivi dagli specchietti, ignare di sé, le persone si sono buttate a testa bassa e gomiti alti nella corsa all’oro. Il successo plebiscitario l’ha resa tanto efficace traino cultural-politico, quanto solida matrice di tutta l’intelligenza messa in campo per il podio. Ma la dedizione richiesta da quel processo ha svuotato di energie vitali tanto la cultura quanto la politica. Lasciandoci ruotare come blasfemi sufi in una spirale, senza apparente via d’uscita. Proprio come per il pesce.
Nessuna novità
Se le ragioni storiche del dominio del materialismo sono a disposizione di qualunque onestà intellettuale e se tutti possono osservare che le epoche storiche, di qualunque stirpe si voglia, scaturiscono per opposto, quei segni nuovi, inizialmente citati, in via di moltiplicazione, fanno auspicare e immaginare l’avvicendamento alla genia del materialismo. Non si tratta di ucciderlo, solo di declassificarlo a relativo e strumentale. Relativo come opposto ad assoluto e strumentale in quanto, tanto funzionale alla vita amministrativa, quanto disastroso in quella relazionale.
L’urbanistica storica del materialismo e le sue architetture pare stiano scricchiolando sotto il peso di crescenti consapevolezze che ne riconoscono il limite operativo e il vincolo creativo. Prese di coscienza sostanziali che riguardano l’io e il sé, il prossimo e la società, l’educazione e il benessere profondo, il lavoro come campo dei nostri talenti, l’ambiente non più come oggetto da preservare ma come habitat relazionale di noi stessi, la terra come organismo, la vita come dono. Cose vecchie rimaste impopolari. O massacrate dai canoni delle religioni. Ne aveva parlato la caverna di Platone, più anticamente i Veda, i Toltechi, Zoroastro e, più recentemente, Cristo. Naturalmente anche molti altri, ma tutti zittiti dalla storia e dalla vulgata, evidentemente inette alla cruna dell’ago. Visioni rimaste a narrazione d’appendice relegate nelle pieghe delle vicende umane. Mortificate ma mai del tutto sopite. Il respiro esoterico le proteggeva rendendole occulte ai più. Questi equivocavano e fraintendevano. E non perdevano occasione di deridere e torturare chi non abiurava simili fandonie. Miracoli, piombo che diventa oro, resurrezione, autoguarigione, chiaroveggenza, via! Tutto ammassato nella fossa comune del razionalismo, del materialismo, della verità ortodossa. Modalità utile per governare più che per far crescere popoli e società.
Arcobaleno. Ma di cartone
Il Potere temporale dei papi fu atroce campione in carica per molti anni. L’Illuminismo permise di radunare idee che condussero le politiche dagli Stati personali agli Stati nazione. Poi, la sua vulgata che, da allora, ha inseminato di sé ogni capillare della cultura. Fino al punto che sii razionale è il monito che tutti pronunciano senza timore di sbagliare. Cultura che, così inebriata dalla novità che la liberava dai demoni delle tradizioni sapienziali, non ha esitato a gettar via il sudicio passato, senza accorgersi del bambino di conoscenza che vi era in mezzo. Quindi, l’apoteosi della Scienza. Così inebriata di sé da perdere di vista immediatamente l’autoreferenzialità da cui era nata. La Rivoluzione industriale sorse di lì a poco, nutrita da nient’altro che da materia, prima o seconda non cambia. Con quei prodromi appena detti, si trovò al galoppo sui cavalli alati della verità finalmente trovata. Prese possesso del concetto di progresso. Una vicenda ancora in essere che ebbe come irripetibile caricatura materialistica il Tina (There is no alternative) della ferrea Lady.
Lo scientismo, ovvero la scienza come sola sede della verità, come sola autentica indagine del reale che meriti rispetto e guidi degnamente il sapere degli uomini, nonostante l’avversione degli scienziati, si attestò sul gradino più alto della verità. Quello al quale tutti gli uomini, e anche i dentifrici – che sono infatti scientificamente testati – guardavano con ammirazione, finalmente sereni d’aver trovato ciò che da sempre l’uomo andava cercando. Per un buon tempo, perfino gli umanisti provarono cocciutamente a trovare la quadratura tra umanità e modello scientifico. La Tecnologia, figlia della Scienza ha avuto vita facile. Nella sua discesa verso noi si è capillarizzata senza incontrare ostacolo alcuno e ha monopolizzato le menti. Tutti giocano con il nuovo dispositivo che non gli fa più sbagliare strada, che dice che ora é a Ulaanbaatar, che gli calcola interessi degli investimenti e permette di fare on line ciò che prima richiedeva le gambe. “E che risparmio di tempo, ragazzi”. Del suo lato B, della dipendenza che implica e relativa assuefazione e patologie, naturalmente nessun accenno da parte dei nostri amati commercianti, della nostra amata informazione.
Vita virtuale
Se prima gli attrezzi analogici venivano usati e posati a fine servizio, ora quelli digitali, surrogati di affetto e assuefatori di attenzione, bruciano l’energia creativa e permangono in noi, scimmia sulla schiena di ogni dipendenza. La permanente attesa di novità come sola soddisfazione entro un orizzonte vuoto di progetti autentici, e la compulsiva masturbazione digito-tattile sono di pari tossico peso solo allo stretto tempo con il quale con reiterata famelicità si consuma tanto la news pubblica o privata, quanto l’algida e ossessiva palpazione di uno smart-qualcosa.
Il ciclo desiderio-soddisfazione-desiderio ha subito un’accelerazione. In tempo analogico era già spiritualmente esiziale. Nonostante ciò celebrato dalle politiche economiche in quanto motore del commercio, quindi del Pil e del suo benessere. Ora, nel tunnel digitale, alla concezione della vita e di sé più ho meglio è si affacciano psico-patologie legate alla stabilità individuale, al senso di sé. L’equilibrio emozionale necessario a costruire persone compiute, che sappiano sentire se stesse per trovare la strada, per educare se stesse dai propri errori, è venuto meno. È venuto liquido. L’effimero e l’apparenza, nonché i modelli unici che vi sono veicolati, sono aspetti che accompagnano l’infanzia e la crescita delle persone. Sono diavoli che intralciano il riconoscimento della propria dimensione, direzione, identità. Sono voluttuose sirene che favoriscono il transito di valori e di pensieri funzionali al controllo esogeno delle nostre vite e al consumo di merci ad obsolescenza programmata. Entrambi destini scelti per noi prodotti dai detentori della comunicazione. Che umanesimo può venire fuori da questa matrice dai tratti industriali a controllo digitale? Che può restare della cultura analogica, la cui fondamentale caratteristica costitutiva era di essere sempre a misura d’uomo?
Il punto
E questo è il punto. Si va nella direzione opposta a ciò che serve agli uomini per escogitare una modalità di società che sia progressivamente libera dai conflitti. Da ciò che gli serve per evolvere. Un’evoluzione che nulla ha a che vedere con il cosiddetto progresso. Essa riguarda il riconoscimento di sé, ovvero di quella natura universale che impedisce di sviluppare politiche ed idee di sopraffazione, di alienazione, di infelicità, malesseri e malattie. Se prima l’identità aveva la cultura nazionale come solido plinto d’appoggio, ora siede sul ribollire di attrazioni che non riconosce ma ritiene necessario inseguire. La rincorsa è permanente, il nichilismo la affianca. Finirà sfiancata e facile preda disposta a tutto per una sopravvivenza vuota, nella quale i poteri e i talenti latenti di ognuno non avranno più le doti per affacciarsi agli uomini che hanno accettato di sottostare a condizioni di vita schiavistiche in cambio di un benefit. Che hanno lasciato l’infinito che siamo in cambio di una sua edulcorata scheggia.
Dove corrono i cavalli
Inconsapevoli della propria autoreferenzialità, ciò che scienza e materialismo riescono a misurare con il loro strumentini e ragionamentini diviene realtà, il resto dell’infinito semplicemente non esiste. Ma è proprio oltre la loro reificazione che si trova l’uomo. Le coordinate cartesiane possono rappresentarne le forme ma non hanno competenze per tracciarne lo spirito. Scienza e materialismo non sanno che tutto si genera per amore e che l’interesse personale ne inficia il valore, la bellezza, la qualità. E così, spogliarsi degli orpelli culturali entro i quali nascondiamo noi stessi, ai quali ci sentiamo sottomessi, fino all’incapacità e all’impotenza di mostrarci per quello che siamo, ci è impedito. Avvolti dalle fascinose sirene dei vizi capitali non sappiamo riconoscere le energie che emettiamo, né quelle emesse dal prossimo. Privi della basilare sensibilità della vibrazione della vita sopperiamo con la brutalità in tutte le sue forme e modi.
La realtà esaurita nella sua materialità e forma è come un film osservato da un bimbo preoccupato per gli indiani che muoiono. Identificarsi in esso è ciò che ci vincola ad una condizione del tutto estranea alle potenzialità di serenità e benessere che abbiamo. È necessario prendere le distanze dalla realtà con la quale ci siamo identificati, è necessario riconoscere le occulte identicità tra noi piuttosto che le evidenti differenze. Necessario riconoscere che siamo dei Truman Burbank. Che i saperi cognitivi uccidono la conoscenza. Che questa è già in noi. Perché se non lo faremo seguiteremo, a testa alta e petto in fuori per mostrare la collezione di mostrine, ad avanzare nella direzione opposta a dove corrono i cavalli.
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