17 Luglio 2024
Cultura

Un druido di nome Dante Alighieri, prima parte – Fabio Calabrese

Questo è il testo della mia conferenza tenuta al festival celtico di Trieste Triskell, per ricordare i settecento anni dalla morte del Poeta, evidenziando i suoi rapporti con il mondo celtico.

 

Era, direi, quasi ovvio che gli organizzatori del Triskell mi chiedessero di tenere una conferenza su Dante Alighieri e i suoi rapporti con il mondo celtico, dato che quest’anno ricorrono i settecento anni dalla scomparsa del Poeta, infatti, credo di essermi creato un precedente a questo riguardo. Diversi anni fa, infatti, avevo pubblicato sul portale celtico “Celticworld” un articolo dedicato a Dante il celta, Tolkien il latino. Era, s’intende, un articolo giocato sul paradosso, poiché si possono considerare l’autore del Signore degli anelli esponente di un mondo intellettuale celtico, germanico, nord-europeo lontano dalle nostre latitudini (Tolkien ha ripetutamente ammesso di aver tratto ispirazione per Il signore degli anelli dal poema finnico Kalevala, e non è che rispetto a noi la Finlandia sia proprio a due passi) e Dante il massimo esponente della cultura latina e italiana.

Tuttavia, si compende che, a parte il paradosso, qualcosa c’è, altrimenti la stesura dell’articolo sarebbe stata materialmente impossibile. Io ora accennerei brevemente al discorso della “latinità” di Tolkien, per concentrarmi poi su quello, ben più consistente, come vedremo, della celticità di Dante.

A lato dell’attività di narratore che l’ha reso universalmente famoso, Tolkien, docente di filologia germanica all’università di Oxford, era soprattutto un linguista, e proprio riguardo al linguaggio, nutriva idee che erano in totale contrasto con quelle della maggior parte dei suoi colleghi. Ad esempio, la maggior parte dei linguisti sostiene che i linguaggi sono convenzionali, cioè il rapporto fra una parola e ciò che designa, è stabilito da una convenzione, un accordo all’interno di una comunità di parlanti e non ha una connessione intrinseca con l’oggetto che designa. Questo spiega sia l’enorme varietà delle lingue umane, sia il fatto che esse si trasformino nel tempo. Shakespehare era dello stesso avviso: “Che cos’è un nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe lo stesso profumo”.

Tolkien era di opinione contraria, secondo lui esiste un legame che è ereditario, genetico, fra i suoni di una lingua e gli oggetti che da questi suono sono designati, ad esempio sarebbe tipicamente indoeuropeo ritrovare la radice CAR in parole che indicano il colore rosso. Così ad esempio nel Signore degli anelli troviamo la montagna chiamata Carhandras, il cui nome si traduce nella Lingua Comune come “Corno rosso”. Facevo osservare che se le cose stanno così, noi Italiani siamo messi piuttosto bene e che, per conseguenza i linguaggi parlati nella Terra di Mezzo tolkieniana sono più latini di quanto non sembrerebbe a prima vista. Abbiamo i nomi di due tipi di rosso: carminio e scarlatto, poi c’è la carne che ovviamente è rossa.

Ancora, la botanica inventata da Tolkien. E’ oggetto tuttora di discussione quali piante della Terra di Mezzo indicate con nomi elfici corrispondano a quali piante del nostro mondo reale, ma pare assodato che la pianta che egli chiama nenuphar non sia altro che quella che conosciamo come nannufero.

Un po’ poco, lo ammetto, per parlare di una latinità di Tolkien, che è certamente un discorso tirato per i capelli.

Ben diverso e di certo assai più consistente è il legame fra Dante e il mondo celtico.

Vorrei dire in premessa che Dante Alighieri è ancora oggi un personaggio molto più famoso che non conosciuto. Vi faccio un esempio forse banale, ma certamente indicativo del modo con cui i critici si sono perlopiù accostati a Dante. E’ noto che dopo essere stati cacciati da Firenze, cosa che costò l’esilio a Dante stesso, i bianchi si coalizzarono con i precedenti esuli ghibellini per tentare di rientrare in Firenze, tentativo a cui Dante si rifiutò di partecipare, dicendo di voler fare “parte a sé stesso”, e che si risolse per la coalizione bianca-ghibellina in una disastrosa sconfitta nella battaglia nota come battaglia DELLA Lastra. Clamoroso errore, in realtà si trattò della battaglia DI Lastra, Lastra a Signa, località vicino a Firenze che oggi venendo da nord corrisponde all’ultimo svincolo autostradale prima della città del Giglio. Possibile che la maggior parte dei presunti esperti di Dante non si sia degnata di visitare i luoghi della sua vita ma si siano limitati a copiarsi l’un l’altro tramandandosi anche gli errori?

Altro aspetto della vita del Poeta che non è stato minimamente indagato: dopo l’espulsione da Firenze, Dante si trasferì a Verona sotto la protezione di Cangrande della Scala, quella del Poeta continuamente errabondo è un’immagine romantica alimentata soprattutto da Carducci, che non corrisponde alla realtà. Tra il 1316 e il 1318, Dante lascia improvvisamente Verona e si trasferisce a Ravenna, dove morirà di malaria nel 1321 (“per motivi mai chiariti” ci dice wikipedia). In realtà il busillis si chiarisce alla luce di due fatti: che quelli sono gli anni in cui è stata portata a temine la stesura della Divina Commedia e che i discendenti di Dante continuiamo a trovarli nel Veronese fino a quando la famiglia non si è estinta nel XVIII secolo. Facendo due più due, non è difficile ipotizzare, che, dato che la famiglia non l’ha seguito a Ravenna, sia intervenuta una separazione de facto con la moglie Gemma Donati, e il motivo di essa potrebbe risiedere proprio nella Commedia, in essa, come nella giovanile Vita nova ha molto spazio la figura di Beatrice, Beatrice Portinari, con cui Dante ebbe forse una casta relazione adolescenziale, mentre alla donna che gli diede tre, forse quattro figli, egli non dedicò mai neppure un rigo.

Tutto questo ci porta a una chiara conclusione: la figura dell’uomo Dante Alighieri è rimasta nascosta dietro la sua opera.

Ciò premesso, vediamo quali legami esistono fra Dante e il mondo celtico?

Un primo evidente, e direi ovvio legame, è rappresentato dal fatto che Dante, come tutte le persone mediamente colte della sua epoca, conosceva bene i poemi cavallereschi, in particolare quelli del Ciclo Bretone. Fra questi, in particolare i romanzi del Graal di Chretien de Troyes (dal punto di vista stilistico, Chretien è considerato una sorta di anello di congiunzione tra il poema e il romanzo) acquisirono all’epoca vasta popolarità e sono con ogni probabilità la fonte della conoscenza del Ciclo Bretone da parte di Dante.

L’episodio più noto della Divina Commedia in cui si ravvisa l’influenza del Ciclo Bretone è uno dei più conosciuti e considerato uno dei più belli del poema dantesco, quello di Paolo e Francesca nel V canto dell’Inferno: la vicenda è talmente nota che non varrebbe la pena di dilungarvisi. E’ precisamente leggendo la storia dell’amore tra Lancillotto e Ginevra, un amore diciamolo pure trasgressivo, che implicava per Ginevra l’adulterio e per Lancillotto la violazione del giuramento di fedeltà al proprio re, che i due cognati scoprono il sentimento reciproco, anch’esso illecito.

“Galeotto fu il libro”. Quante volte abbiamo sentito questa frase passata in proverbio, e il più delle volte usata senza alcuna idea di cosa significhi qui Galeotto che, ben s’intende, non vuol dire qui qualcuno detenuto in carcere. Bene, Galeotto non è altro che l’italianizzazione del nome di Galhaut, lo scudiero che fa da intermediario tra Lancillotto e Ginevra.

Un altro episodio della Divina Commedia ispirato al Ciclo Bretone, lo troviamo nel XXXII canto. E’ il penultimo canto dell’Inferno, e sappiamo che Dante ha costruito la prima delle tre cantiche in modo discendente, più si prosegue, più si scende verso il basso, nei gironi dove sono puniti i peccatori che si sono macchiati delle colpe più gravi, e infatti qui siamo nella Caina dove sono puniti i traditori dei parenti, e qui incontriamo Mordred, il figlio incestuoso che Morgana avrebbe avuto da Artù, poi divenuto traditore e parricida.

Dante qui si rifà alla leggenda tramandata da Chretien de Troyes, secondo la quale la battaglia di Camlan tra Artù e il figlio ribelle e i rispettivi sostenitori, si sarebbe conclusa con il duello finale tra padre e figlio in cui i due si sarebbero uccisi a vicenda. Dante riporta il particolare secondo cui la spada di Artù, la magica Excalibur, avrebbe aperto nel corpo di Mordred uno squarcio talmente largo da permettere alla luce del sole di attraversarlo, sì che oltre al corpo sarebbe rimasta squarciata anche l’ombra di Mordred.

Questo particolare, che può apparire di scarso rilievo e, diciamolo pure, alquanto macabro, è stato al centro di numerose interpretazioni del pensiero di Dante in chiave esoterica, vi si è infatti voluto vedere il simbolo della “luce” del potere legittimo, dell’autorità, che squarcia “l’ombra” del potere tirannico basato sulla forza.

Si può notare un interessante parallelo fra Dante e Tolkien. Come è generalmente noto, Il signore degli anelli ebbe grande diffusione negli Stati Uniti negli anni ’70 del secolo scorso diventando una sorta di “bibbia” degli hippies californiani: costoro interpretavano il bruto potere di Sauron come una metafora del potere tout court, a cui contrapponevano quello che secondo loro era uno stile di vita “hobbit” cioè anarcoide. La Società Tolkieniana Italiana su questa questione ha fatto un importante lavoro di ermeneutica, ma che in ultima analisi va a confermare quello che comprende qualsiasi lettore un po’ avvertito: l’interpretazione che essi davano del Signore degli anelli, era del tutto falsata, infatti Tolkien non propende affatto per l’anarchia, ma contrappone al bruto potere tirannico di Sauron il potere legittimo, nella sua doppia forma, regale incarnata da Aragorn, e sacrale incarnata da Gandalf, una concezione a cui Dante sarebbe stato senz’altro vicino.

Gandalf è nel Signore degli anelli una figura druidica, così come lo è Merlino nel Ciclo Bretone. Un ruolo analogo lo svolge nella Divina Commedia Virgilio. Bisogna notare che nella tradizione medioevale Virgilio era considerato più di un poeta, forse un mago, comunque un uomo dotato di facoltà profetiche. Il motivo di ciò è un verso che si trova nell’ode scritta da Virgilio in occasione della nascita di Asinio Gallo, figlio del suo protettore Asinio Pollione: “Renovatur magnum ordo saeculorum”, cioè  “Si rinnova un grande ordine di secoli”, che fu visto come la profezia del cambiamento epocale e di date che sarebbe di lì a poco avvenuto con l’avvento del cristianesimo, e con l’introduzione di una nuova misurazione degli anni, in avanti Cristo e dopo Cristo.

Qui c’è un’ulteriore analogia con la tradizione druidica, per la quale quella di bardo, cioè poeta, era il primo passo dell’iniziazione per diventare druido.

Un’altra opera proveniente dal mondo celtico che Dante probabilmente conosceva e che pare averlo influenzato nella stesura della  Divina Commedia  è la Navigatio Sancti Brendani. Si tratta di un’opera irlandese scritta in prosa latina del X secolo che narra di un favoloso viaggio per mare che san Brandano o Brendano (il nome originale irlandese è Brandon), verso occidente fino a raggiungere, si suppone, quello che per noi è il continente americano.

Sappiamo da tempo che Cristoforo Colombo non è stato il primo europeo a raggiungere le Americhe, che i vichinghi l’abbiano preceduto è ormai cosa certa. Attorno al 1000, un avventuriero vichingo, Eric il Rosso, raggiunse la Groenlandia e fondò una colonia sull’estremità meridionale dell’isola (si era allora nell’optimum climatico medioevale con temperature più elevate di quelle attuali). Suo figlio, Leif Ericcson, guidò una spedizione verso occidente, fino a raggiungere una terra che chiamò Vinland e pare corrispondere all’isola di Terranova (contariamente a molte elucubrazioni che sono state fatte, Vinland non ha nulla a che fare col vino, Vin- in lingua norrena significa prato).

I resti di un insediamento vichingo sono oggi riemersi a Terranova nella località nota come L’Anse aux Medows, ma ancora più impressionanti sono le prove di tipo genetico. Molti islandesi hanno oggi un DNA mitocondriale, quello che si eredita soltanto per via materna, di tipo amerindio, sono i discendenti di una donna amerindia vissuta mel medioevo, che deve aver seguito in Europa gli uomini di Leif Ericcson, non sappiamo se come schiava o come una Pochaontas ante litteram.

Tuttavia, a quanto pare, la spedizione di san Brandano sembra aver preceduto anche quella di Leif Ericcson. Che questo viaggio fosse almeno possibile, lo ha dimostrato nel 1976 un ricercatore che, dopo aver costruito un’imbarcazione simile per forma e dimensioni a quella descritta nella Navigatio Sancti Brendani e imbarcato lo stesso numero di compagni, ha raggiunto Terranova partendo dall’Irlanda, toccando le Faer Oer, l’Islanda, la Groenlandia e rifacendo poi il percorso inverso. Fra andata e ritorno, il viaggio ha richiesto un anno e mezzo.

Nella Divina Commedia, Dante non menziona esplicitamente la Navigatio, tuttavia vi sono evidenti analogie fra essa e il suo racconto del viaggio di Ulisse. E’ improbabile che il Poeta conoscesse la cronaca di Leif Ericcson redatta in lingua norrena e rimasta sconosciuta fino all’età moderna, mentre è verosimile che conoscesse la Navigatio Sancti Brendani compilata in latino e che già in età medioevale aveva avuto una certa circolazione.

 

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