Sessantacinquesima parte. Torniamo indietro con la numerazione? Il fatto è che se andate a controllare la lista delle Eredità degli antenati fin qui apparse su “Ereticamente”, vi accorgete che si passa dalla sessantaquattresima alla sessantaseiesima parte. In mezzo c’è un “buco”, un articolo che mi sono dimenticato di inviare, e allora, meglio tardi che mai, eccolo qui. Nessuno è immune dall’errore, e Fabio Calabrese meno che mai.
Io mi sono accorto della cosa in dicembre, preparando il riepilogo di fine anno, ma l’articolo si riferisce al periodo di aprile-maggio 2021. C’è da dire a mia discolpa che la scorsa estate mi sono dedicato a una frenetica revisione delle Eredità degli antenati già pronte e in attesa di pubblicazione, espungendo qualsiasi riferimento alle Isole Britanniche, sentendomi profondamente offeso come italiano dall’atteggiamento tenuto dagli Inglesi nei nostri confronti in occasione della finale dei campionati europei di calcio. Non si può provare amicizia verso chi ci disprezza.
E lavorando in queste condizioni, era facile che un errore ci scappasse, e infatti l’ho commesso.
In ogni caso, queste sono questioni che, a differenza della politica di partito, dello sport, del gossip, non perdono di attualità.
Inizio a stendere queste nuove note sulla nostra origine ancestrale proprio all’indomani del natale di Roma. Noi sappiamo che da tre quarti di secolo, il 21 aprile non è più una festività, mentre lo è, quattro giorni più tardi, la servile e ridicola celebrazione della nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale, che continuo a chiedermi quanto sarcasmo alle nostre spalle ci procuri all’estero, mentre abbiamo deciso di ignorare un fatto fondamentale, non solo per la storia della nostra Italia, ma dell’intera civiltà umana come la nascita della Città Eterna.
Non vale nemmeno dire che la data del 21 aprile è attestata dalla tradizione ma da nessun documento. Vi sono eventi in cui significato simbolico trascende la realtà fattuale.
Rimaniamo per il momento su “Ancient Origins”. Una cosa che non cessa di stupirmi, è la capacità che hanno a volte i ricercatori di scoprire come qualcosa di inedito, ciò che è del tutto ovvio. Per esempio, come ha fatto la nostra specie, che non ha né artigli né zanne, non solo a sopravvivere ma a diventare la specie dominante di questo pianeta? Magari sospettate che ciò sia dovuto all’intelligenza, alla creatività, all’elasticità mentale che le hanno permesso di elaborare strategie sempre più efficienti per risolvere i vari problemi?
Bene, rimarrete sorpresi, leggendo l’articolo di Prisha Ago del 22 aprile, nello scoprire che è proprio così, ce lo conferma un team di ricercatori dell’università di Granada che avrebbe individuato una sequenza di 267 geni presente nell’uomo e non nello scimpanzé, che parrebbe appunto connessa all’intelligenza e alla creatività.
Io vi ho spiegato più volte il concetto che se, come è ormai accertato dalla paleogenetica, gli uomini “anatomicamente moderni” si sono ripetutamente incrociati con gli uomini di Neanderthal e di Denisova dando luogo a una discendenza fertile, noi, questo significa che appartenevano tutti e tre alla stessa specie, Homo sapiens, non ha quindi alcun senso pretendere che essa sia “uscita dall’Africa” alcune decine di migliaia di anni fa, quando già popolava l’Eurasia da centinaia di migliaia di anni.
Bene, a quanto pare, le prove in questo senso si stanno facendo sempre più chiare ed evidenti. Un articolo del 24 aprile di Nathan Falde ci racconta di una ricerca condotta da un team di genetisti dell’Istituto Pasteur di Parigi sul DNA di 317 persone provenienti da 20 popolazioni diverse isolane del Pacifico, e hanno riscontrato in tutti i casi la presenza di una componente di DNA denisoviano. Gli incroci più recenti, datati attorno a 15.000 anni fa, non sembrano provenire da incroci avvenuti in Asia prima che gli antenati di questi isolani imboccassero la via del mare, ma nelle isole stesse, il che fa pensare che gli uomini di Denisova già disponessero di qualche forma di navigazione.
Un articolo di Rudra Bushan del 22 apirle ci racconta che nel sito del castello di Wildenberg nella regione Nord Renania-Westfalia (Germania), qui è stata ritrovata una vera e propria armeria dell’Età del Ferro, comprendente 150 oggetti datati tra il III secolo avanti Cristo e il I d. C., fra cui 40 punte di lancia, spade, umboni di scudo, fibule, finimenti per cavalli. Il ritrovamento è opera della Associazione Regionale della Westfalia-Lippe (LWL) di Lippstadt. Secondo Michael Waales, portavoce della LWL, si tratterebbe del più grande deposito di armi di età preistorica mai rinvenuto in questa parte della Germania, al termine di un lavoro di tre anni. Parrebbe trattarsi di un bottino di guerra, alcune spade sono piegate in un modo che non può essere avvenuto in battaglia, si suppone che in tal modo fossero “sacrificate” agli dei, e questo è un uso tipicamente celtico.
Approfondiamo il discorso sulla metallurgia. Un articolo di Ashley Cowie del 23 aprile ci porta nel sito di Ribe in Danimarca, esattamente nello Jutland sud-occidentale. Ribe è considerata la più antica città della Scandinavia, e doveva essere un centro specializzato nella metallurgia. Qui sono stati rinvenuti numerosi crogioli di età vichinga, risalenti all’VIII e IX secoli. Le tracce di fusione in essi conservate hanno permesso di seguire l’evoluzione delle tecniche di lavorazione dei metalli. Esse sono state analizzate da un team di ricercatori dell’università di Aarhus guidato dalla dottoressa Vana Orfanou. Si è notata una sostanziale evoluzione, con il passaggio da leghe casuali dovute all’impurità dei minerali, a un uso sempre più raffinato, ad esempio, nell’ottone largamente usato per la produzione di fibule e spille, diminuisce man mano la quantità di piombo e aumenta quella di zinco.
Non vi è dubbio che i vichinghi fossero non solo eccellenti guerrieri, ma anche abili artigiani.
Di nuove scoperte riguardanti l’area centroeuropea, in questo periodo si occupa anche “The Archaeology News Network”. Un articolo del 23 aprile (Fonte: Swissinfo) ci parla del ritrovamento dei resti di un villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo, datato all’incirca al 1000 avanti Cristo, sul fondo del lago di Lucerna. La scoperta è avvenuta ad opera dei ricercatori del Centro di Archeologia Subacquea di Zurigo/Cantone di Lucerna, ed è stata determinata dalla posa di una conduttura sul fondo del lago. Essa dimostra che l’area di Lucerna era abitata già 3000 anni fa.
Se ci spostiamo più a sud, nell’area mediterranea, apprendiamo che anche qui le novità non mancano. Sempre “The Archaeology News Network” in un articolo del 21 aprile (Fonte: Università Autonoma di Barcellona) da notizia dei risultati di uno studio condotto dai ricercatori della stessa università sui resti ovini rivenuti nella grotta di Chaves vicino a Huesca (Pirenei centrali), diretto da Maria Sana, coordinatrice del dipartimento di archeologia dell’UAB. La grotta era utilizzata come ovile naturale nel periodo neolitico oltre 7500 anni fa (5600-5300 avanti Cristo). Si è riscontrato che i pastori di allora erano già riusciti a modificare i cicli naturali di riproduzione degli ovini allungando i periodi di fertilità, con la nascita di agnelli anche in autunno-inverno, questo probabilmente grazie al fatto che avevano imparato a nutrire il bestiame nella brutta stagione con foraggio, come avrebbe dimostrato una ricerca sui coproliti.
Le tecniche di zootecnia appaiono dunque essere considerevolmente più avanzate di quanto si ritenesse riguardo all’età neolitica.
Come avete visto, negli articoli precedenti mi sono concetrato soprattutto su quelli che nel campo dell’informazione archeologica sono i siti maggiori: “Ancient Origins” e “The Archaeology News Network” e ho trascurato diverse cose provenienti da fonti “minori” ma comunque interessanti. Ora vedremo di rimetterci in pari ripercorrendo un po’ tutto il mese di maggio.
Cominciamo con una questione singolare: un mistero che da tempo imbarazza i geologi e gli archeologi, è quello del cosiddetto Dryas recente. Si tratta di un periodo caratterizzato da un improvviso abbassamento delle temperature terrestri in tutto il globo, di durata relativamente breve (1300 anni approssimativamente) avvenuto attorno a 12.800 anni fa, praticamente un ritorno alle condizioni climatiche dell’età glaciale, che avrebbe avuto effetti disastrosi sulle culture neolitiche, provocando l’estinzione di alcune di esse, dalla cultura natufiana in Medio Oriente a quella Clovis nell’America settentrionale, coicide anche piuttosto bene con l’epoca in cui Platone colloca lo sprofondamento di Atlantide, avvenuto – racconta – 10.000 anni prima della sua era.
Di Gobeckli Tepe parla anche un articolo di focus.it del 23 maggio a firma di Elisabetta Intini: Le geometrie nascoste del tempio più antico del mondo. In sostanza, un team di archeologi israeliani dell’università di Tel Aviv avrebbe analizzato il monumento con una tecnica di analisi basata su algoritmi spaziali. Il tempio è compsto da più strutture, la principale delle quali è una sorta di trifoglio formato da tre recinti. Gli archeologi israeliani hanno scoperto che sebbene i tre recinti sembrino disposti a caso, i loro centri geometrici formano un perfetto triangolo equilatero. Questo fa supporre che l’edificazione di questo antico santuario abbia seguito un piano architettonico più raffinato di quel che si era finora pensato, e infittisce il mistero di questo complesso templare che risalirebbe all’epoca paleolitica quando la regione anatolica e tutto il globo terrestre si dice fossero percorsi soltanto da cacciatori-raccoglitori che non avevano insediamenti stabili e che per sopravvivere dovevano dedicare tutte le proprie energie alla caccia e alla raccolta.
Visto che siamo in argomento su quanto scritto in questo periodo da altri collaboratori di “Ereticamente” sulla tematica dell’eredità ancestrale, sarà opportuno dare almeno un’occhiata a un altro paio di cose. Il 24 maggio Giovanni Sessa ha pubblicato l’articolo I miti di Atlantide, Frobenius, l’Africa ed il continente perduto.
Come Sessa evidenzia:
“Dalla notte dei tempi gli uomini si sono interrogati attorno alle proprie origini e a quelle della civiltà. A tale domanda hanno fornito risposte disparate. L’attenzione per l’origine, l’ineliminabilità di tale interrogativo, la si evince dal costante ripresentarsi nella storia dell’immaginario europeo del mito di Atlantide”.
Nello specifico l’articolo fa riferimento al libro dell’etnologo tedesco Leo Frobenius I miti di Atlantide, recentemente ristampato dalla Iduna editrice. Frobenius riteneva che il mito platonico di Atlantide non fosse puramente leggendario, e che prove di ciò si ritroverebbero nelle tradizioni dei popoli dell’Africa orientale che sarebbero venuti a contatto con sopravvissuti allo sprofondamento di Atlantide.
Sicuramente connesso alla nostra tematica è anche l’articolo di Marco Calzoli del 25 maggio La natura della parola. Io adesso non vi riassumerò l’articolo che è molto ampio e molto tecnico, e che comunque potete leggere su “Ereticamente” (anzi, vi invito a farlo), mi soffermerò solo su un punto: la scoperta avvenuta nel tardo XVIII secolo della comune origine delle lingue indoeuropee:
“Nel 1786 William Jones annuncia alla comunità scientifica che probabilmente sanscrito, celtico, gotico e antico persiano siano tra di loro imparentati. Nell’Ottocento Friedrich e Wilhelm von Schlegel e Franz Bopp approfondiscono i rapporti tra sanscrito, greco, latino, persiano e tedesco scoprendo numerose corrispondenze. Questi studi portano alla nascita della ipotesi indoeuropea”.
Bisogna osservare che origine comune delle lingue indoeuropee significa origine comune dei popoli indoeuropei. Società multietniche e popoli che parlano lingue estranee alla loro origine etnica, come gli afroamericani che parlano inglese, una lingua germanica, sono mostruosità tipicamente moderne. La scoperta (l’auto-scoperta) degli indoeuropei è stata forse la più grande idea rivoluzionaria del XIX secolo, una prima confutazione dell’auto-rappresentazione storica basata sulla bibbia, che poneva una chiara distinzione tra l’Europa e quel mondo biblico-mediorientale che l’aveva fin allora ipnotizzata e sottomessa mediante il cristianesimo.
Non si potrebbe non parlare del nuovo articolo di Maurizio Blondet “Noi” non veniamo dall’Africa pubblicato il 20 maggio sul suo sito “Blondet & friends”, tuttavia devo dire che, con tutto il rispetto, soprattutto per la splendida qualità di polemista di Blondet, ho trovato l’articolo abbastanza deludente. Quel “noi” virgolettato si riferisce ai popoli indoeuropei. Che gli Indoeuropei in quanto tali, dopo la separazione da altri gruppi umani, possano aver avuto un’origine africana, questo mi pare che non lo sostenga per ora nessuno, anche se non metterei le mani sul fuoco per quella fogna intellettuale che sono gli Stati Uniti, psichicamente devastati dalla democratica tirannide del “politicamente corretto” e dove ogni stramberia antistorica riceve cittadinanza, purché anti-bianca e anti-europea.
L’Out of Africa, la “teoria”, la favola dell’origine africana non riguarda quella degli indoeuropei alcune migliaia di anni fa, ma quella della specie umana decine o centinaia di migliaia di anni fa. L’ho rilevato più volte, e vi ho dedicato ampio spazio soprattutto nella cinquantasettesima parte de L’eredità degli antenati: con questa confusione di ordini di grandezza temporali, si presta il fianco all’avversario, si permette non soltanto di dichiarare “non scientifiche”, ma perfino di ridicolizzare le posizioni di chi non accetta i dogmi del “politicamente corretto”.
Tuttavia, l’articolo ha qualche contenuto apprezzabile, ad esempio:
“[Gli indoeuropei] venivano dal Nord. Da una sede alquanto precisa, visto che nella loro lingua-madre nominano il faggio, un albero che non cresce al di là della linea dell’Oder-Kaliningrad e che gli slavi non conoscono; dunque sulle rive del Baltico e Mare del Nord”.
Questo è perlomeno un utile scrollone alle tesi di Marija Gimbutas e di quanti altri hanno postulato un’origine asiatica degli Indoeuropei, quando si lascia la bussola della ricerca delle nostre origini libera di ruotare, l’ago non punta verso nord-est, ma verso nord.
Non è probabilmente un caso che pochi giorni dopo, il 23 maggio, a completamento del discorso iniziato qui, Blondet abbia postato sul suo blog un nuovo articolo, Sperare in Agartha, che è in sostanza una sintesi delle tesi di Tilak sull’origine polare degli Indoeuropei.
E sempre del 24 una notizia riportata da msn.com che a sua volta l’ha ripresa da “La Repubblica”. Il Consiglio d’Europa ha riconosciuto fra gli itinerari certificati la presunta rotta di Enea descritta nell’Eneide virgiliana fra gli itinerari culturali certificati. Peccato solo che l’eroe inventato da Virgilio non sia probabilmente mai esistito. A mio parere, il vezzo di volersi attribuire un’origine troiana da parte dei Romani, non è che un’ulteriore riprova del fascino (alquanto malsano, a mio modo di vedere) che tutto ciò che appariva esotico e orientale, ha esercitato sui nostri avi fin da tempi remoti, ed è stato sempre esso a favorire la diffusione del cristianesimo in Europa.
C’è ancora da dire che questo periodo ci ha mostrato alcune interessanti novità librarie concernenti la nostra tematica. Possiamo citare La stirpe di Wotan, metastoria dei popoli d’Europa di Alex Woodland edito da Psiche 2, una rilettura della storia e dei miti europei sotto l’angolo visuale del paganesimo norreno. Poi abbiamo editi da Thule Italia, di Karl Georg Zschaetzsch Atlantide, la patria ancestrale degli ariani e Realtà razziali in Europa di Lothrop Stoddard, e non dimentichiamo neppure I miti di Atlantide di Leo Frobenius.
Insomma un periodo più che mai ricco di novità riguardo alle nostre origini ancestrali.
NOTA: Nell’illustrazione, una ricostruzione di Atlantide basata sul racconto di Platone.
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