17 Luglio 2024
Storia delle Religioni

Critica dell’orientalismo contemporaneo (3^ parte) – Stefano Manza

“La prima donna”, dice Vernant alludendo al mito della comunione dei pasti fra gli dei e gli uomini riportato da Esiodo nella Teogonia, “si presenta così come è stato per le parti del sacrificio e per la favola, con un aspetto esteriore ingannevole”. Sempre Vernant riporta anche una tradizione popolare greca secondo la quale l’estate è la stagione del risveglio dell’appetito sessuale femminile; al contrario del gentil sesso, l’uomo, per natura “secco”, si spossa. La donna, invece, fatta di natura umorale e acquosa (“ordinò all’illustre Efesto… che impastasse terra ed acqua”), sembra sbocciare.

L’estate è la stagione della mietitura, del sudore e della fatica, per il contadino esiodeo; e la donna, sembra affermare il poeta, con il suo appetito risvegliato in estate, non fa che svenare le forze del marito! L’apportatrice dei mali, però, se vogliamo attenuare l’acredine di Esiodo, non è giunta per portare i malanni in sé, quanto per riversarli, sedotta dalla sua stessa curiosità per volere di Zeus. Un passo dell’Iliade sembra costituire un precedente interessante al topos dei mali riversati dall’orlo di una giara:

Pandora

“…Due vasi sono piantati sulla soglia di Zeus / dei doni che dà, dei mali l’uno e l’altro dei buoni. / A chi mescolando ne dia Zeus che getta le folgori / incontra a volte un male e altre volte un bene; / ma a chi dà solo dei tristi, lo fa disprezzato, / e mala fama lo segue per la terra divina, / (e) va errando senza onore né dagli dei né dagli uomini.” (XIV, vv. 527-534)

Secondo un punto di vista analitico, il libro XIV dell’Iliade dovrebbe essere molto più tardo, per esempio, del libro II (il celebre Catalogo delle Navi), noto per la sua panoramica geografica su un mondo più pre-dorico che omerico; tardo al punto da essere per l’appunto influenzato dall’Odissea. Eppure, lo stesso libro potrebbe a sua volta stimolare l’ingresso in campo degli unitari, in quanto potrebbe suggerire che Omero avesse già in mente la futura stesura dell’Odissea mentre scriveva il libro contenente il rogo funebre di Patroclo e la ἱκεσία del vecchio Priamo. A questo punto ci si potrebbe chiedere: se l’immagine del vaso repleto dei mali dell’umanità era già stampata nella mente greca (forse in forma più popolare che poetica) tanto da essere inclusa in uno degli apologhi più importanti del poema, come si è incuneato in essa il mito di Pandora? Se la moglie dell’incauto Epimeteo altri non è che un surrogato greco dell’ebraica Eva, può dunque essersi verificato uno iato fra la fonte folklorica del passo omerico e la fonte “orientale” alla base del mito di Pandora? Se effettivamente, come suggerisce uno scolio pindarico, il termine “rapsodo” deriva da ῥάπτω, cioè “cucire assieme”, allora i rapsodi, tessitori di carmi e intessitori di tradizioni, avrebbero potuto certamente compiere un simile innesto. Eppure, per continuare sulla scia di quest’immagine, c’è da obbiettare che non si sutura facilmente lo strappo di una maglia di lana con una toppa d’altra stoffa. Se la mia supposizione (ispirata da un’intuizione dall’ottimo R. Jarrell, autore di Fallen Angels and Fallen Women: the Mother of the Son of Man) che la figura di Pandora derivi da una festività insita nel calendario greco, allora non si potrà arguirne l’origine orientale, ma al massimo la mera intromissione di una o più feature iconografiche dall’Oriente.

Ad ogni modo, la figura di Pandora sembra attenere a determinate usanze della grecità contadina. Questo però non deve indurci a credere che fosse un mito isolato. Il testo sanscrito della Manusmirti, la più importante collezione di leggi e precetti sacri dell’India, paragonabile per vetustà e importanza alle Leggi delle XII tavole, sembra rievocare, anche se con ancor più mordace misoginia, i versi concernenti la creazione di Pandora:

“Quando la creò, Manu assegnò alla donna l’amore per il letto, per lo star seduta, per gli ornamenti e per i desideri impuri: e poi le istillò collera, disonestà, malizia e cattiva condotta” (capitolo IX, verso 17).

La traduzione italiana del πίθος (“vaso, giara”) di Pandora non ha fortunatamente risentito dell’errore di traduzione di Erasmo (che negli Adagia usò πυξίς, cioè “scatola” al posto di πίθος), che riecheggia però ancora nella traduzione inglese (Pandora’s box) e in quella tedesca (Büchse der Pandora). Il vaso repleto dei malanni dell’umanità, come abbiamo visto, è già presente nel verso forse “popolareggiante” e sentenzioso di Iliade XIV. Esso è, per la precisione, una giara; già nell’Egeo minoico, i πίθοι erano utilizzati in funzione di tomba, e in essi veniva calato il morto nella tipica posizione fetale. Aprire il πίθος significava dunque, metaforicamente, risvegliare il sonno degli antenati defunti, e, possibilmente, lasciare che infestino la terra dei vivi. Significativo è, a tal punto, un rimando alla festa ionico-attica delle Antesterie, il cui secondo giorno (il dodicesimo del mese eponimo di Antesterione) era proprio il giorno cosiddetto “delle brocche”; il terzo, per giunta, quello “delle pentole”, era dedicato a Ermes “in memoria dei morti del diluvio universale” (Scoli ad Aristofane, Acarnesi, 1076-1077). Hermes sembra difatti il più importante e dispensatore tra gli dei che guarniscono Pandora di tutte le sue qualità e dei suoi disvalori, poiché è lui che “le impose nome” (v. 80, Opere e i Giorni), per poi infonderle una voce e una “indole dissimulatrice” (v. 78, ἐπίκλοπον ἦθος, letteralmente “un ethos ladronesco”). Pandora è in conclusione l’eterno femminino ctonio, sorto dall’elemento umorale e argilloso della terra, che ora sfida ora si concilia col superstrato patriarcale dell’Ellade indoeuropea. Ella, essendo la Terra che accoglie i morti nei πίθοι, può scoperchiarne a piacimento la dimora inviolabile, e scatenare così contro un’inerme umanità delle origini le forze della Notte e dell’Ade.

Stefano Manza
 

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