10 Ottobre 2024
Filosofia

La morte non è un diritto – Roberto Pecchioli

La morte non è un diritto. Avreste mai pensato di leggere una frase del genere? Dobbiamo ringraziare Jorge Mario Bergoglio per averla pronunciata. Dinanzi all’attacco furioso della cultura di morte mascherata da diritti universali, l’uomo di Santa Marta ha parlato da Papa. La vita è un diritto, non la morte, ha dovuto aggiungere, riferendosi a una civiltà agonizzante e tuttavia assassina. Nello specifico parlava delle norme a favore dell’eutanasia, pudicamente (o furbescamente) chiamate suicidio assistito, in discussione presso il parlamento italiano. La morte va accolta, non somministrata. La cosa incredibile è che questi principi sono rubricati come cattolici, mentre rappresentano il senso comune di ogni umanesimo: primum vivere. A questo siamo.

La morte è il mistero massimo della nostra presenza nel mondo. Non vi è soluzione, umana o scientifica, solo due possibilità: il rassegnato materialismo che attribuisce al caso, al caos o all’evoluzione l’enigma della vita, oppure la speranza trascendente, il progetto insondabile di una forza o entità che chiamiamo Dio.

L’esperienza del fine vita è tragica e non può essere affrontata o descritta con granitiche certezze. La sofferenza accompagnata dalla sua inutilità, dall’impotenza e dal senso di ingiustizia del male non conosce spiegazioni, tanto meno soluzioni. L’uomo moderno vuole avere nelle sue mani il controllo di ogni circostanza e di ogni situazione; non è disposto a credere che la vita non sia esclusivamente e totalmente sua. Ripetergli che appartiene a Dio è del tutto vano. Eppure ha senso. Chi scrive fece il primo pensiero “filosofico” (se può permettersi un termine tanto impegnativo) attorno ai dieci, undici anni di età, allorché, dopo le rimostranze per aver ricevuto un paio di meritati ceffoni, la mamma sbottò: io ti ho messo al mondo, posso ben darti quattro schiaffi. Per la prima volta, presi atto che la vita non è una nostra scelta: siamo stati concepiti – per amore o per caso – in nostra assenza, l’atto di volontà di due persone che la follia contemporanea designa come genitore uno e genitore due.

Dunque, la “mia “vita non è del tutto mia, giacché non è stata voluta da me: nasciamo – come dire – in nostra assenza e la morte è appunto assenza. Non sappiamo se in tutto questo c’entri o meno Dio, ma l’eventualità non può essere scartata. La vita ci è donata e non possiamo gettarla via. Altra cosa è la relazione drammatica con il dolore, la malattia, il declino fisico e mentale. In altri tempi era considerata una fortuna morire di vecchiaia, circondati dai volti e dalle cure delle persone care. Che l’attuale insana passione per l’eutanasia sia uno degli effetti della solitudine esistenziale?

Nel racconto L’uomo della folla, Edgar Allan Poe descrive – agli albori dell’urbanizzazione e della rivoluzione industriale – un vecchio malridotto, il cui abbigliamento testimoniava passati tempi migliori, che si aggirava senza posa nella metropoli cercando la folla. Atterrito dalla solitudine, tentava in ogni maniera di mischiarsi alla massa. Probabilmente esorcizzava la morte incombente e insieme si illudeva di non pensare, di non rimanere a tu per tu con se stesso.

No, la morte non è un diritto, è un dramma. Per questo non può diventare un servizio medico, la soluzione finale a carico del sistema sanitario per chi non ce la fa più, talvolta perché il destino avverso gli è piombato addosso, altre volte perché solo e sgomento dinanzi al male. Nelle società tradizionali, la famiglia si prendeva cura del parente sulla soglia dell’addio e la presenza, lo sguardo, la mano tesa rendevano più sopportabile l’ineluttabile. Oggi, solitari, distanziati, impauriti, disperati nel senso etimologico (privi di speranza) arriviamo a invocare la morte, ovvero la nostra assenza definitiva. Un esito terribile per una società superba, orgogliosa dei “diritti”, intenta alla ricerca della felicità prescritta non da filosofi edonisti, ma dalla costituzione degli Stati Uniti, la nazione simbolo della modernità, del progresso e della tecnica.

E’ la società di Lucifero, l’angelo bellissimo e orgoglioso che cadde nel profondo degl’inferi. Ne sono simboli Frankenstein, la creatura di uno scienziato che volle farsi Dio e Mister Hyde (hide, nascosto, oscuro), l’esperimento prometeico del mite dottor Jeckyll di separare nell’uomo il bene e il male. Tutti tentativi di innalzarsi al cielo, atti di superbia, di quell’hybris – arroganza, dismisura – che per il mondo classico era il peccato più grande dell’essere umano. Al male l’uomo occidentale moderno risponde affidandosi alla tecnica. Poiché la natura è più forte, prova a modificarla, cancellarla, negarla. Se non c’è modo di uscire dalla sofferenza, dalla malattia, dal male di vivere, il rimedio definitivo è la morte. “Buona” non più nel significato cristiano, l’accettazione dell’inevitabile accompagnata dai sacramenti e dalla speranza trascendente, bensì l’atto deliberato – proprio o altrui – di chi pone fine alla presenza nel mondo e si tuffa nel nulla.

Temi assoluti, totalizzanti, che chi scrive è incapace di sfiorare senza chinare il capo e rispettare ogni sensibilità, ai quali, una volta tanto, ci ha richiamato l’autorità spirituale del capo visibile della chiesa cattolica. Non verrà ascoltato, la società della cancellazione, il gaio obitorio procederà a grandi passi verso la dissoluzione. Potremo suicidarci con assistenza di medici e infermieri, a spese del sistema impropriamente detto sanitario. La vita viene bloccata con indifferenza prima della nascita, il grumo di cellule estirpate dal corpo materno a spese di tutti, nelle more di definire l’aborto un diritto fondamentale degli europei superstiti, anzi delle europee.

Atterrisce non solo il merito di ciò che accade, percepito dalla maggioranza come progresso e normalità (un’altra faccia della banalità del male?), ma la tenace volontà di dare per scontata, lecita, giusta ogni deroga al principio della civiltà di ieri, il primato della vita.  San Francesco d’Assisi è ammirato per la sua bontà e il suo preteso ecologismo. Non ricordiamo mai tra le sue Laudi, quella a Sorella Morte corporale, preludio al transito oltre il tempo e alla visione di Dio. Troppo dura da digerire, meglio ridicolizzare, parlare di favole del passato oscuro. Gran bella luce, quella di una civiltà che uccide se stessa in ogni possibile modo e arriva a considerare la morte un diritto. Oltre alla solitudine esistenziale e al terrore per la tribolazione, non sarà che c’entrino anche la corsa produttivistica, il mito dell’efficienza, della performance, l’ansia da prestazione, l’equivoca categoria di qualità della vita che scaccia la dignità essenziale dell’essere umano?

E’ pressoché impossibile convincere l’uomo moderno che le sue idee non sono definitive, uniche e migliori, e che tutto ciò che venne “prima”, in sua assenza, non fu il balbettio di un’umanità bambina. Il consenso per l’eutanasia è stata provocato da qualcuno; c’è chi ha finanziato e imposto campagne politiche, mediatiche e culturali. Non stupirà sapere che si tratta per lo più di assicurazioni, fondi pensione, potentati economici. Quasi nessuno è sfiorato dal dubbio che vogliano semplicemente toglierci di mezzo per interesse e perché ostacoli di carne e spirito ai loro progetti. Scrisse Nicolàs Gòmez Dàvila che convincere chi ha opinioni proprie è facile, ma nessuno convince chi sostiene opinioni altrui ripetute sino all’estenuazione. Il papa ha battuto un colpo, ma l’eco delle sue parole se lo porta il vento gelido della cultura dominante, la post moderna compagnia della buona morte con sede nella rue Morgue, la via dell’obitorio dei racconti di Poe.

L’unica speranza di sopravvivenza è riposta nella Dea Scienza, nel transumanesimo avanzante, il pensiero convinto che sarà possibile sviluppare facoltà capaci di oltrepassare la condizione umana. Mentre sfoltiscono i ranghi della vecchia umanità, costruiscono l’uomo che trascende se stesso attraverso la tecnologia, la cibernetica e l’ibridazione con la macchina, in vista dell’allungamento della vita e della modificazione del patrimonio genetico. La promessa è addirittura l’immortalità, nel segno della conservazione a freddo e del cosiddetto “mind uploading”, l’archiviazione digitale delle funzioni cerebrali.

Ecco il destino finale dell’uomo, la mente alveare. Sarò ancora “io”, riconoscerò il mio “sé”? Domande inevase e tremende, che tendiamo a sfuggire in preda all’angoscia. Meglio seguire la corrente e accettare le idee dominanti. Sono vecchio, malato, depresso, non più performante? La soluzione c’è, la punturina che mi cancella, previa istanza all’autorità competente (sulla “mia” esistenza!), assistenza di un psicologo dell’ASL – surrogato dei conforti religiosi – testamento economico e biologico debitamente protocollati, espianto degli organi riutilizzabili. Quel che resta del fugace transito sulla terra del superbo Homo sapiens Dio di se stesso.

Vinceranno anche la battaglia dell’eutanasia, la chiameranno avanzamento di civiltà; sarà sempre più difficile opporre argomentazioni alternative, fastidiosi rigurgiti del barbaro passato, indegni delle magnifiche sorti e progressive della Rue Morgue. La rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica ha espresso la rassegnazione dei perdenti accettando di fatto l’eutanasia legale – pardon il suicidio assistito – con qualche correttivo. Forse per questo Bergoglio – gesuita anch’egli – ha dovuto ribadire la dottrina di sempre. Su un tema tanto profondo, che attiene alla fibre più intime, è assai difficile assumere una posizione apodittica, assoluta. Tuttavia, l’aspirazione dell’uomo, di ciascun uomo, è la vita, non la morte. Per Hannah Arendt, rassegnarsi al male minore – una società “moderatamente “ suicida – è comunque scegliere il male. Parole forti per coscienze lacerate, come la nostra.

Prima la vita, però, prima la speranza, prima un’idea alta dell’uomo. Soprattutto, nessuna rinuncia a testimoniare la verità in quanto non ha possibilità – oggi – di trionfare. Etiam si omnes, ego non. Anche se tutti, io no.

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