Un ricordo di parecchi anni fa: eravamo negli anni ’70 dello scorso secolo, l’epoca della contestazione, io ero allora uno studente di liceo. Nel corso di un’assemblea studentesca riuscii a portare il discorso sulle foibe. Io sapevo che in quel periodo la contestazione rossa stava prendendo piede dappertutto, ma mi sembrava impossibile e mi sembra ancora oggi paradossale che essa potesse attecchire in una città con un retroterra storico come quello di Trieste.
Mi fu bruscamente risposto: “E i campi di concentramento, allora?” (a quel tempo non si usava ancora il termine “olocausto”, poi entrato nell’uso con il romanzo di Joseph Green e la sua riduzione cinematografica e televisiva).
Rimasi stupito: l’argomentazione era totalmente illogica: come poteva un crimine, vero o presunto, assolverne un altro? Io allora non ero al corrente di tutta la tematica revisionista, ma non era di questo che si stava parlando. I campi di concentramento non erano certamente imputabili alle genti istriane e giuliane che hanno subito il martirio delle foibe, e poi si trattava della nostra gente, massacrata appunto per la colpa di essere italiana.
Imparai in quella circostanza che la mentalità di sinistra è fatta tutta di questi cortocircuiti mentali nei quali è impossibile trovare un filo logico, discutere coi “rossi” significa solo sprecare tempo e fiato, oltre, spesso, mettere a rischio la propria incolumità.
Nei lunghi anni che separano quella tragedia dall’istituzione ufficiale della giornata del ricordo del 10 febbraio, (avvenuta, ricordiamolo in un raro momento in cui al governo non era l’immarcescibile centrosinistra che ci regge ininterrottamente da sessant’anni a dispetto di qualsiasi risultato elettorale, come una maledizione biblica), a ricordare quegli eventi dolorosi è stata soltanto la nostra parte politica, anzi, solo il fatto di parlarne etichettava immediatamente come “fascisti”.
Il 10 novembre 1975 veniva firmato a Osimo un accordo che nelle intenzioni dei firmatari doveva chiudere definitivamente la questione triestina. L’Italia riconosceva alla Jugoslavia la sovranità sulla Zona B, e la Jugoslavia all’Italia quella sulla Zona A. La fregatura? L’ennesima coltellata alla schiena ai triestini e all’italianità di Trieste? Naturalmente, c’era. Il fatto è che già dal 1948 una pronuncia delle Nazioni Unite aveva riconosciuto che non essendo mai stato costituito il Territorio Libero di Trieste, la sovranità italiana su entrambe le zone non era mai venuta meno, quindi la cessione della sovranità sulla Zona B era di fatto l’ennesima elargizione liberale dell’Italia antifascista verso i boia jugoslavi. Era, s’intende una sovranità puramente formale, ma senza Osimo, quando negli anni seguenti dallo smembramento dello stato jugoslavo sono emerse le nuove repubbliche bisognose di riconoscimento internazionale, se non fosse stata improvvidamente ceduta, con qualcosa la si sarebbe potuta scambiare: una maggiore tutela della superstite minoranza italiana, qualche forma di risarcimento agli esuli.
Ma non è nemmeno vero che l’accordo di Osimo sia stato semplicemente il riconoscimento di una situazione di fatto. Fino ad allora le acque antistanti la Zona B erano rimaste libere. Ora che diventavano acque territoriali jugoslave, il golfo di Trieste restava collegato alle restanti acque territoriali italiane solo da uno stretto budello intransitabile alle navi di grosso tonnellaggio. In conseguenza di ciò, la decadenza del porto e della città di Trieste ha subito una notevole accelerazione.
Ma non è tutto, infatti l’accordo prevedeva l’istituzione di una “zona franca” a cavallo del confine. Fu subito chiaro cosa sarebbe successo se tale zona franca fosse stata attuata. L’intento dichiarato era quello di attirare industrie sia italiane sia jugoslave grazie alle agevolazioni fiscali, ma i salari dei lavoratori sarebbero stati quelli previsti dai contratti sindacali dello stato della parte di zona franca dove gli stabilimenti sarebbero stati ubicati. Nella parte italiana non sarebbe stato costruito nulla, a che pro, se poco più in là si poteva praticare un regime salariale molto inferiore? Né alcun italiano vi avrebbe trovato lavoro, perché coi salari jugoslavi non si poteva vivere in Italia. In pratica, questa “zona franca”, oltre a non arrecarci nessun beneficio, avrebbe attirato gente dall’interno della Jugoslavia, creando una “bomba demografica” a ridosso di una città italiana già demograficamente in declino.
Le proteste, la civile ribellione dei triestini, proteste nelle quali “i neofascisti” furono in prima fila, fecero sì che almeno il progetto di zona franca venisse ritirato. Il che dimostra che nonostante la democrazia antifascista, nonostante la costituzione “più bella del mondo” che vieta i referendum sui trattati internazionali, e le mille trappole contenute in essa per vanificare la volontà popolare, quando una popolazione si muove compatta, fa sentire la propria voce per difendere non solo i propri interessi, ma la propria sopravvivenza, qualcosa si riesce a ottenere.
Josip Broz, in arte maresciallo Tito, despota jugoslavo e massacratore di italiani morì nel 1980. La cosa che mi seccò fu che in quel periodo stavo facendo il servizio militare. Avevo sperato di essere a casa e stappare una bottiglia di spumante per festeggiarne la dipartita.
Ai funerali dell’assassino di italiani, l’allora presidente della repubblica italiana, Sandro Pertini fu visto (e fotografato) baciarne la bara, ma Pertini, oltre che un “compagno” era un individuo della stessa genia. Durante il suo mandato presidenziale si è riusciti a costruirgli una figura di nonno bonario, a far dimenticare che durante la “resistenza” era stato uno dei capi partigiani più feroci, tra l’altro, facendo assassinare l’attrice Luisa Ferida, che era incinta, e il suo compagno Osvaldo Valenti facendoli passare per spie dei tedeschi, ma in realtà per nessun altro motivo se non che la Ferida gli si era rifiutata.
La disgregazione della Jugoslavia, di colpo diventata ex, non poteva non peggiorare la situazione della superstite minoranza italiana sopravvissuta, rimasta oltre l’innaturale confine stabilito nel 1945, questo sia perché la comunità italiana veniva a essere spaccata in due tronconi separati dal fiume Dragogna che divide la parte slovena da quella croata dell’Istria, sia per la massiccia dose di sciovinismo etnico che è stata artificiosamente iniettata nelle popolazioni che hanno costituito lo stato jugoslavo.
Occorre capire quale sia la vera origine della crisi che ha portato allo smembramento della Jugoslavia. Tutto parte dal 1989, dalla decisione del leader sovietico Michail Gorbacev di non sostenere più militarmente i “Paesi fratelli” di affidare la sopravvivenza dei regimi comunisti unicamente al consenso delle rispettive popolazioni, ammesso che ne avessero un minimo.
Il risultato è stato di una chiarezza solare, appena ha potuto appena non sono stati più sostenuti dalle armi sovietiche, la gente ha cacciato a calci i regimi comunisti. La caduta del muro di Berlino e la scomparsa della DDR sono stati gli esempi più eclatanti, ma il vento della rivolta ha soffiato forte in tutto l’Est europeo.
Per evitare di fare la stessa fine, di essere cacciati a furor di popolo, i vertici dell’ “Alleanza dei Socialisti”, così si chiamava il partito comunista jugoslavo, la malefica covata dell’assassino Tito, hanno architettato un piano diabolico: cambiare la casacca comunista con quella del più esasperato sciovinismo etnico e rimanere al potere, mettendo i popoli della ex Jugoslavia uno contro l’altro. Divide et impera, letteralmente.
Le prove di questa cospirazione che ha provocato una serie di guerre civili, “pulizia etnica” e migliaia di morti, sono state raccolte in maniera indipendente dall’avvocatessa belgradese Jagoda Savic e dal giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz. Ci sono le prove che la crisi della ex Jugoslavia è stata costruita a tavolino, prima con campagne di stampa per aizzare i popoli dello stato balcanico l’uno contro l’altro, poi arruolando le prime bande di miliziani nelle prigioni, tra i detenuti per crimini violenti.
Le feroci pulizie etniche, i massacri, le fosse comuni, ci hanno inorridito ma non sorpreso: un aspetto dell’animo slavo che avevamo ben sperimentato mezzo secolo prima. In questa situazione, la superstite minoranza italiana rimasta oltre l’innaturale confine, non poteva non trovarsi a essere il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro.
Ricordiamo che la crisi della ex Jugoslavia è stata accuratamente progettata a tavolino. Uno degli ultimi provvedimenti presi dal governo federale jugoslavo prima dello scioglimento della federazione, è stata una riforma scolastica che ha moltiplicato gli indirizzi delle scuole superiori. Questo ha avuto l’effetto, che con ogni probabilità era proprio quella voluto, di far sparire le scuole superiori di lingua italiana che fin allora esistevano per la minoranza superstite dei nostri connazionali, perché per ciascuno dei nuovi indirizzi, il numero degli studenti risulta troppo esiguo per una scuola di lingua italiana. Va da sé che è lo stato italiano a finanziare sia le scuole italiane nella ex Jugoslavia, sia le scuole slovene in Italia. L’Italia è sempre, in ogni caso, il solito Pantalone che paga per tutti (anche se questo non impedisce alla minoranza slovena in Italia di chiedere “reciprocità”, cioè sempre nuovi privilegi, mentre tiene la sua effettiva consistenza numerica come un segreto di stato. Qualcuno ha osservato che se dovessimo davvero trattarla con reciprocità, dovremmo cominciare a buttare gli sloveni nelle foibe).
Si può anche ricordare il fatto che allora il primo stato dell’Europa occidentale a riconoscere gli stati indipendenti di Slovenia e Croazia è stato il Vaticano, seguito a ruota, a un giorno di distanza proprio dall’Italia. Allora, sul soglio pontificio c’era Karol Wojtila, un papa astuto politicante, che certamente avrà fatto le debite pressioni sullo stato italiano per un frettoloso riconoscimento in modo che in cambio di esso non avessimo a rivendicare nulla. Per il papa slavo, i Croati, cattolici, erano i nuovi crociati contro la Serbia ortodossa.
Ma questo, naturalmente, era solo l’inizio. Nella crisi della ex Jugoslavia, per motivi che non hanno nulla a che fare con la situazione in Adriatico, gli Stati Uniti hanno deciso che “i cattivi” sono i Serbi e “i buoni” tutti gli altri, si è probabilmente trattato di uno scambio di favori con l’Arabia Saudita, intenzionata a favorire i mussulmani di Bosnia e l’islamizzazione dei Balcani, in cambio dell’isolamento dell’Irak di Saddam Hussein in previsione delle guerre del Golfo. I Paesi della NATO che dal 1945 non hanno più una politica estera, e l’Italia meno di tutti, ovviamente, hanno seguito a ruota.
Possiamo ricordare che il casus belli che servì a giustificare l’aggressione della NATO contro la Serbia, fu il cannoneggiamento della città bosniaca di Sebrenica, che anni dopo si scoprì essere stato opera dei Bosniaci stessi su indicazioni NATO, precisamente allo scopo di giustificare l’intervento del Patto Atlantico, un classico esempio di quella che nel gergo militar-politichese si chiama false flag.
Sarà forse ironico, sarà forse paradossale che a mettere a disposizione della NATO le basi aeree del nord-est italiano per l’aggressione alla Serbia e il bombardamento di Belgrado, fosse proprio il governo presieduto dall’ex comunista D’Alema, ex comunista, ma infido e vigliacco, sempre.
La scelta di campo della NATO, degli USA, ovviamente, perché gli “alleati” europei vi contano quanto il due di picche, la trovai, in una parola, ripugnante, perche autori dei massacri delle foibe e responsabili della disperata fuga dell’esodo, erano stati i nostri “cari vicini” sloveni e croati, e croato era lo stesso maresciallo Tito, mentre non è che con tutto ciò i Serbi avessero avuto a che fare, e adesso, in quanto membri della mefitica Alleanza Atlantica, ci trovavamo schierati dalla parte dei boia dei nostri connazionali, senza d’altronde la prospettiva di ricavarne alcunché. Senza contare la funzione che la Serbia aveva sempre avuto di barriera contro l’islamizzazione dei Balcani e del nostro continente, per non tacere del fatto che con ogni probabilità era proprio questo il motivo per cui gli USA ne avevano deciso l’annientamento per conto dei sauditi.
Il peggio, però, è avvenuto poco dopo. Forse reso sicuro proprio dall’appoggio NATO, il rais croato Frane Tudjman, degno erede di Tito, ha deciso un ulteriore giro di vite. Tolse agli italiani di Fiume lo status di minoranza etnica per ridurlo a quello di immigrati. Immigrati i superstiti del ceppo originario degli abitanti della città, ed è stato solo l’inizio di una vasta opera di cancellazione delle tracce della presenza italiana e veneziana in quella Dalmazia che è stata per tanti secoli parte integrante della Repubblica Serenissima. Si è arrivati a cancellare o alterare i nomi dei vecchi registri parrocchiali e delle lapidi dei cimiteri, a scalpellare via il leone di San Marco dai campanili, si è attuato fino in fondo il concetto orwelliano secondo cui ciò che non si conosce non è mai avvenuto, e ciò che si riesce a far credere a tutti quanti è “la verità”. Ora, dopo aver alterato chiese, campanili, lapidi dei cimiteri si pretende di presentare al mondo gli edifici eretti dalla Serenissima sulla costa dalmata come “arte croata”, quando è verosimile che i croati dei tempi in cui essi furono edificati, pastori e caprai dell’interno, non vi abbiano contribuito nemmeno con una pietra.
Non dovete però fare lo sbaglio di pensare che gli sloveni siano da meno. Ce lo ha spiegato molto bene Giorgio Rustia nel libro dal titolo chilometrico di cui vi ho più volte parlato. Questo testo è del 2011 e Rustia riporta un estratto di un documento molto interessante. Qualche tempo prima si era concluso il semestre sloveno di presidenza di quella pagliaccesca istituzione che usurpa il nome di Unione Europea. A conclusione di esso, il governo sloveno ha presentato un documento di presentazione dell’entità storico-politica slovena, dove si sostiene che a conclusione del secondo conflitto mondiale le aspirazioni nazionali slovene non furono affatto soddisfatte, estendendosi a tutto il Friuli e almeno a parte del Veneto (Slavia friulana e Slavia veneta, secondo loro). Bisogna notare che questo non è il punto di vista di qualche sciovinista esaltato, ma quello del governo sloveno, espresso in sede internazionale.
In altre parole, noi pensiamo che il nazionalismo sia una cosa superata, d’altri tempi, ma, appunto, lo pensiamo soltanto noi in Italia, gli altri vedono le cose in modo molto differente.
Bene, forse voi penserete che con l’istituzione, nel 2004 della Giornata del Ricordo del 10 febbraio (in ricordo del 10 febbraio 1947 in cui è avvenuta la firma del Trattato di Pace), si sia cominciato a rendere alle vittime delle foibe e a quanti hanno vissuto il dramma dell’esodo, almeno il tributo della memoria. In realtà, le cose non sono così semplici, ma vi chiedo di pazientare, ne parleremo la prossima volta.
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