Le religioni, i sistemi spirituali e le filosofie parlano di un Principio, dal quale tutte le cose derivano e al quale le cose ritornano dopo l’esperienza terrena. Si dice che le parole non lo possano esprimere tanto è lontano e diverso dalle cose materiali del mondo terreno. Laozi, sapiente cinese che nel VI secolo a. C. fondò il taoismo, all’inizio del Tao Te King alludeva al Tao in una maniera originalissima: Laozi usava un linguaggio paradossale, che indica il Tao ma al tempo stesso si distanzia. Laozi affermava che il Tao non si può dire a parole e esprimeva questo mistero con uno stile paradossale, enunciando una cosa e dicendo subito il suo contrario. Laozi, infatti, chiamava il Tao “mistero” ma affermava subito dopo che il Tao è “uno”, come se fosse possibile conoscerlo.
Per la concezione indiana la prima manifestazione dell’Assoluto è la Parola, Vāc, intesa non come nominazione delle cose ma come Suono Assoluto, śabdabrahmana. Da questa iniziale cellula sonora si squadernano tutte le cose. Come il Dio biblico crea mediante la Parola, che Giovanni chiamerà Logos, così l’Assoluto, Brahman, degli indiani si manifesta nel mondo e vi pone fondamento attraverso un suono originario e misteriosissimo, che trova un’eco nella sillaba sacra AUṂ o OṂ.
Nella cultura indiana gli esseri potentissimi preposti a captare e a ridire in qualche maniera questa Parola originaria sono detti Rishi, i quali sono i creatori dei Veda, i testi sacri dell’induismo. Sono poeti ispirati che in un lontano passato hanno composto i Veda da quel suono originario. Ma i Rishi sono indicati anche come bhūtakṛt, “creatori d’esseri”. Quindi i sapienti indiani insegnano che i Rishi così come creano i Veda creano anche le cose del mondo, allacciandosi sacralmente a quella connessione divina primordiale per la quale la Parola crea anche il mondo. Nel Ṛg-Veda (10.25.3.7) la Parola dice di sé stessa: tāṃ mā devā vyadadhuḥ purutrā bhūristhātrāṃ bhūryāveśayantīm, “Gli dei mi hanno distribuito in molti luoghi: io sono colei che ha molte sedi e che assume molte forme”.
Qui sta la potenza e la bellezza del sacro, ma anche la sua pericolosità. Se dal sacro discende tutto e quindi anche il bene, giocoforza dal sacro discende altresì il male. Le culture antiche riconoscono nel sacro tanto il fascinosum quanto il tremendum. Il dio vedico Rudra è detto sia shiva, “benevolo”, sia ghora, “terribile”. È significativo che nel mondo latino e in quello iranico la parola “sinistro” è una vox media: indica sia il bene sia il male.
Nelle popolazioni antiche la salvezza è una prerogativa degli dei e quindi anche la medicina era amministrata da personaggi sacrali, che usavano le preghiere e le arti magiche. Esistevano anche metodi scientifici e chirurgici, ma sempre sotto la protezione degli dei. Nel Codice di Hammurabi, celebre testo legislativo della Mesopotamia del II millennio, leggiamo queste parole (art. 215): “Se un medico ha fatto (ipus) un’incisione (simmam) profonda (kabtam) ad un uomo libero (awilam) con un bisturi in bronzo (karsūilli siparrim) e ha guarito quell’uomo, prenderà dieci monete (sicli) d’argento”.
Le persone riconoscono spesso nella trama dei loro accadimenti un disegno nascosto. Parlano a volte di Destino. Non sempre i nostri sforzi determinano le cose che accadono. Il sapiente cinese Liezi scriveva nel suo celebre La scrittura reale del vuoto abissale (6.1): “Se tutto dipende dallo sforzo, perché alcuni vivono a lungo e altri muoiono prematuramente, perché i saggi falliscono e gli stolti ottengono il successo, perché i capaci sono umiliati e quelli da poco esaltati, perché i buoni vivono nella miseria e i malvagi nella ricchezza?”.
Calasso ne Le nozze di Cadmo e Armonia scriveva: “Nell’Iliade, tutti, persino il cavallo Xanto, persino il fiume Scamandro, dichiarano di non essere ‘causa’ e responsabili di nulla, ma non per scaricarsi di una colpa. Quel riconoscimento è l’atto supremo della devozione omerica, un farsi da parte di fronte alla potenza soverchiante (del dio di turno). Ogni affermazione di un io apparirebbe rozza, qui dove sottilissimo è il discrimine fra quanto ciascuno riesce a fare da solo e quanto un dio gli permette o gli dona”.
Proclo nella Lettera all’inventore Teodoro (34) scriveva: “Coloro che sono veramente sapienti … ritengono che la causa delle cose che accadono sia dio, dal quale proviene a tutti il bene. Pongono quali cause successive all’intervento divino il movimento cosmico e il tempo, nel quale le cose che accadono sono legate al tutto e armonizzate con esso poiché non è possibile che una nuova realtà si aggiunga improvvisamente alla totalità. Infine pongono loro stessi come terza causa di tutti quei fatti che si verificano come loro li avevano progettati”.
Le persone religiose riconoscono nei nostri avvenimenti la volontà di Dio, a volte un Dio personale, che dirige tutta la nostra vita. Nel Padre nostro diciamo “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Quel suono originario di cui parlano i sapienti indiani ha per i cristiani un volto: un Dio Padre, che ci protegge come la pupilla dei suoi occhi. Addirittura ha dato al mondo suo Figlio, Gesù Cristo, per morire in espiazione dei peccati degli altri esseri umani. La forza straordinaria del cristianesimo non è solo basata sul riconoscere una divinità, ma nel dire che Dio si è incarnato mediante lo Spirito Santo per redimere l’umanità intera nella morte di croce. Non si tratta delle divinità degli epicurei che esistono ma non si interessano degli esseri umani. Cristo è per i cattolici il Dio fatto uomo per salvare l’intera umanità.
La tradizione giovannea vede in Cristo il Logos, la Parola-Pensiero con cui Dio Padre ha creato il mondo e tutti i suoi abitanti. Dio Padre genera il Figlio e mediante la Sapienza razionale del Figlio crea ogni cosa per amore, mediante l’azione dello Spirito Santo. Questo fa della Parola creatrice e di ogni altra parola una effige nientemeno che di Dio.
Il cristianesimo afferma però, in un certo modo, una dicotomia tra il “mondo” (opera del Principe di questo mondo) e le realtà dello spirito, che le eresie estremizzano, così come lo gnosticismo, che vede tutta la realtà terrena intrinsecamente malvagia. Oracoli Caldaici (116): “Le cose divine non sono accessibili ai mortali che conoscono mediante il corpo, ma a quanti si affrettano verso l’alto ignudi”. Per la riflessione indiana, l’amore (bhakti) verso Dio “è esclusivo interesse verso l’Assoluto e indifferenza verso ogni altra manifestazione”, tasminn ananyatā tad-virodhisūdāsīnatā ca (Nāradabhaktisūtra 9). La parola sanscrita bhakti indica propriamente il “dono”: che l’officiante del rito ottiene dagli dei o che l’officiante dà agli dei nel rito. Ṛg-Veda (X. 51.7) è scritto: “Porta benevolmente agli dei la loro parte (bhāgam) del sacrificio”. Come a dire che il massimo atto di amore verso Dio è il dono di sé stessi nella dedicazione della propria vita all’Assoluto e quindi nell’allontanamento dal mondo materiale.
Non sempre l’amore per la divinità richiede il distacco dal mondo. Nel culto indiano detto Sahaja si ottiene la liberazione adorando le belle fanciulle: sia ritualmente sia mediante un amore romantico. Dio si può esprimere da per tutto, Ignazio di Loyola diceva che bisogna cercare e trovare Dio in tutte le cose: nella vita familiare, nella diaconia, nelle pratiche religiose, nella gioia, nel dolore. I santi insegnano che “tutto è grazia”: ogni cosa che capita è un dono della infinita misericordia di Dio e in essa possiamo rinvenire il Creatore. Salmo 34, 19: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito”. Addirittura per i primitivi persino le pietre stesse hanno uno scopo ultimo: sono dotate di un’anima, vivono e si riproducono, pertanto possono esercitare anche una forza magica verso le persone. Sono dette imunu dai Papua del delta del Purari, wakan dagli Indiani delle pianure dell’America del Nord, e così via. Un detto rosacrociano afferma: “Non c’è spazio vuoto”, tutto è soggetto alle leggi divine, ogni cosa può essere trasmutata dalla grazia divina e divenire perfettamente compiuta.
In definitiva però l’uomo deve staccarsi dal mondo materiale e ritornare in quel Principio divino dal quale è scaturito. Il filosofo medioplatonico Alcinoo scriveva (Didascalico XXVIII): “Platone pone come fine (della vita umana) l’assimilazione a dio, omoiōsin teōi … Egli sostiene che l’assimilazione a dio consiste nell’essere saggi, giusti e santi, come nel Teeteto; bisogna quindi anche sforzarsi di rifuggire al più presto il mondo terreno in vista di quello superiore”.
Se per un istante vogliamo guardare a cosa è Dio, è sufficiente guardare la sublimità delle parole dei poeti e dei santi. Per le scritture sacre come i Veda o come i Vangeli persone di tutto il mondo hanno dedicato la vita attratte da una sapienza che le colpisce diritto al cuore. Quale è stata la forza propulsiva dei poeti e dei cantori di ogni epoca? La parola del poeta può esprimere gli archetipi divini, collegandosi alla essenza della divinità.
È vero che il tempo scorre in una maniera impressionante e che gli avvenimenti che accadono trovano la loro migliore ragion d’essere in quell’istante perduto per sempre. A ragione Bloch scriveva che “mai un fenomeno storico si spiega pienamente al di fuori dello studio del momento in cui avvenne”. Però solo il poeta sa far rivivere quel passato perduto mediante l’intuizione artistica. In Dio il tempo è un Eterno Presente: la Lettera di Giacomo (1, 17) rivela che presso Dio “non c’è cambiamento né ombra di trasformazione”, ouk eni parallaghē ē tropēs aposkiasma. E così nella intuizione del grande artista quel lontano passato può far riaccendere gli animi delle persone come fiaccole. L’arte (letteraria e in genere) deve avere un contenuto e deve trasmettere un contenuto che infiammi gli animi: altrimenti, come osservava Hegel, un’arte senza contenuto costituisce la morte dell’arte stessa.
Nietzsche scriveva che è dell’uomo filosofico riconoscere che questa realtà sia una illusione, ma anche la realtà che si cela dietro a questa. È insomma il concetto del Velo di Maya, una illusione che governa il mondo sensibile. Ma, nonostante questi pensieri, gli stessi indiani dovevano riconoscere che l’illusione si squarcia e dietro le apparenze esiste la Realtà Assoluta o Brahman. È l’amore che ci connette a quel Tutto che è celato dalle illusioni sensibili. L’artista opera un fuoco di amore: egli lo accende nel cuore del lettore quando fa rivivere il passato.
Secondo quanto ricordava Calasso ne L’ardore, “il rito, come la poesia, ha una capacità altissima di dilatarsi o contrarsi”. Questo perché sono entrambi fuori dal tempo in quanto toccano l’Assoluto, anche se in modi diversi.
Nella letteratura e nelle altre arti ogni classicismo si configura come imitazione di un modello ritenuto insuperabile. Il classicismo rinascimentale si fondava sugli antichi scrittori latini (pensiamo a quanto Ariosto si sia ispirato ad essi). Ma già con il Manierismo del Cinquecento l’artista rivendicava in qualche modo la sua autonomia pur non distaccandosi del tutto dai modelli del passato. Pensiamo all’autoritratto del Parmigianino, fatto sullo stile di Raffaello ma con un ingigantimento della figura, segno che Raffaello non bastava più. La parola dell’artista e l’arte in genere a volte vuole far rivivere un passato a volte crea da sé nuovi paradigmi. Nella prima ondata ritorna indietro nel tempo in quel passato ove solo Dio impera, nella seconda ondata si fa creatore alla stregua di Dio. Il Tasso è un grande esponente del Manierismo letterario, che si pone tra Rinascimento (Quattrocento) e Barocco (Seicento). Nelle sue poesie note come Rive si vede tutto un lavorio e un esercizio letterario che lo avvicina molto al Barocco come necessità di trovare in sé l’ispirazione e non può nel passato. Scrive Caretti: “Anche per il Tasso ci soccorre ogni volta l’avvertimento insistente di Valéry: ‘La perfezione è lavoro’, dov’è offerto al critico l’invito ad entrare nel lavoro proprio per conoscere sempre meglio quella perfezione”.
L’arte sembra sempre sostituirsi a Dio. I grandi artisti colgono con la parola quel suono originario dove tutto è presente e incitano gli animi facendo rivivere nel lettore forti sentimenti di realtà. È Dio che continua la creazione facendola rivivere nell’animo del lettore oltre i limiti del tempo! Ma Dio crea anche ex novo e il Barocco testimonia ancora questa vena di novità, nella quale l’ispirazione è staccarsi da quanto è stato già detto.
Nel Settecento ritorna il classicismo, pensiamo solo a Foscolo e alla sua passione per il mondo del passato. Ma ecco subito subentrare il secondo afflato, quello della creazione svincolata da tutto ed è il Romanticismo. Nel Romanticismo la parola si fa auriga di sé stessa e nulla vuole di più che l’amore puro svincolato da tutto. I teorici del Romanticismo si fanno strada oltre le macerie del passato: Benjamin Constant, Guizot, Jouffroy, Ballanche, Lamennais, il movimento neocattolico, Saint-Simon, Auguste Comte, sansimonismo, positivismo, e quant’altro. Il Romanticismo nasce con la Restaurazione, dove si parlava di libertà e non solo in senso politico ma come adesione ai valori della Rivoluzione francese. Pertanto il poeta romantico vuole essere libero come Dio: la sua parola ha quella scintilla divina tipica del Dio biblico che crea dal nulla.
Nella teosofia iranica l’Arcangelo Gabriele appare con il colore rosso. Questo perché il rosso allude al cuore: il corpo sottile della fisiologia mistica ha sette livelli, quello del cuore è rosso. Ora, nel cuore esiste il germe della conoscenza. Quindi l’Arcangelo Gabriele è rosso perché annuncia alla Madonna il parto divino (Cristo).
Il detentore della conoscenza è un Arcangelo, quindi conoscere è un atto divino. La creazione va di pari passo con la conoscenza perché Dio nel creare deve conoscere ciò che crea prima che il creato esista. Nella religione iranica, detta mazdeismo o zoroastrismo, il Dio assoluto è chiamato Ahura Mazda, letteralmente “Signore (Ahura) che crea (da) con il pensiero (maz)”. Nel testo sacro di questa religione, gli Avestā, Ahura Mazda è definito propriamente: Buon Pensiero (Yasna 31). Quindi non solo è saggio ma è la Sapienza in Persona. Ebbene, l’artista, come Dio, ha la intuizione profonda delle cose e per questo può creare dei capolavori. In cinese il carattere per “sapere”, zhīdao, è formato da una freccia e da una bocca: la conoscenza dà una superiorità su tutto.
Rifacendoci a Plotino, possiamo dire che l’Assoluto ha quattro livelli:
- Uno: l’Assoluto indeterminato, che non si può dire a parole, senza attributi né autocoscienza né alcuna determinazione; Plotino parlava in greco di En epekeina ontos, Uno oltre l’ente esistente;
- Nous: l’Assoluto con attributi, è determinato come una dualità e mediante questa dualità pone le fondamenta dell’intero mondo esistente;
- Mente: è l’Assoluto delle forme ideali, crea la serie infinita delle realtà mentali come i concetti;
- Natura: crea le cose materiali.
L’emanazione di tutte le cose dall’Uno verso una degradazione sempre maggiore si attua nella dialettica tra questi quattro tipi di Assoluto. È così che le intelligenze superiori creano il mondo. Anche l’artista crea in questa maniera quando nella materia dell’opera d’arte fa trasparire un germe di Assoluto, di Dio.
In questa maniera l’Assoluto è ciò da cui deriva il mondo materiale ma, per emanazione, è anche ogni singolo ente, materiale e spirituale, che esiste. Mentre per il buddhismo vale la asserzione in pali sabbe dhamma anatta, “tutte (sabba) le cose (dhamma) non hanno consistenza (anatta), quindi sono pura relazione, invece per l’induismo tutte le cose sono l’Assoluto, Brahman. Questo è tanto più vero per le opere d’arte, dove il grande genio fa risplendere meglio il segno di Dio.
Per il pensiero cinese abbiamo da una parte il Principio (li) e dall’altra il fenomeno (shi): ma chi li vuole vedere separati è nell’errore in quanto tra principio e fenomeno non vi è nessuna alterità ma solo intrinseca relazione (lishi wuai).
Ma cosa è questo Assoluto, detto anche Tao oppure Principio oppure Dio? Per alcuni è una grande coscienza che dirige ogni cosa, alla quale tutti gli esseri partecipano. Nel Timeo Platone parlava dell’Anima del Mondo. Plotino (Enneadi IV, 4, 32) dirà che il mondo è un grande essere dotato di anima che contiene in sé tutti gli esseri dotati di anima. Allora l’artista avrebbe una consapevolezza maggiore del suo rapporto con questo Assoluto e riuscirebbe a esprimerlo meglio dell’uomo comune proprio nell’opera d’arte.
Per altri Dio è un fluire inconscio di idee di illuminazione profonda e, secondo questi ultimi, la autocoscienza dell’uomo sarebbe invece una illusione. Nel classico taoista Zhuang Zi (2) è scritto: “Quello seduto qui sono io che ho perduto me stesso” in quanto ho consapevolezza di stare qui seduto. È un concetto affine al satori giapponese: il samurai si esercitava tutta una vita nell’arte del combattimento per imparare, alla fine, a staccarsi dalle illusioni del proprio io, cioè ad essere Non-mente, vale a dire a divenire mente inconscia. Secondo tale prospettiva, l’artista riuscirebbe a scardinare i limiti dell’io cosciente e a entrare in contatto con il proprio inconscio, così da far risplendere Dio nell’opera d’arte.
In ogni modo l’Assoluto è così importante che il Corano fa una riflessione molto profonda. In Corano 7, 172 si dice che l’uomo, prima ancora di avere un corpo, testimonia riguardo a Dio: “Non sono forse Io il vostro Signore?”, in arabo alastu birabbikum? L’accettazione di questo Patto è collegata da una parte al dono dell’esistenza e dall’altra al vincolo di servitù che lega l’uomo a questo Assoluto. Il primo atto dell’Intelletto umano è il riconoscimento dell’Assoluto: la sua unicità (tawhid) e la sua signoria (rububiyya). Pertanto si può dire che ogni opera umana, da quella artistica in poi, è collegata strettamente all’Assoluto da cui trae origine e per il quale è al servizio.
Per la riflessione indiana, la poesia è tale per via del dhvani, vale a dire il significato implicito, allusivo delle parole. In una comunicazione ordinaria il mittente invia un messaggio chiaro, invece nell’arte il grande poeta usa una serie di allusioni che rendono la poesia densa di significati ulteriori, sia nella forma sia nel contenuto. Ora, se l’anima della poesia è il dhvani, l’anima del dhvani è il rasa, cioè una forte emozione che il poeta comunica al lettore e che genera in questi felicità e appagamento. Mediante il linguaggio allusivo il poeta è in grado di “dilettare” e “appagare” il fruitore. Il fine ultimo della poesia è la rasasamkrānti, cioè la comunicazione della emozione (rasa) che il poeta prova in prima persona, al lettore che partecipa alla performance poetica.
Ebbene, questa emozione provata dal poeta e comunicata al lettore, è la illuminazione che il poeta avverte. È il suo contatto con l’Assoluto, personale e frutto di una vita di ricerca ma anche della intuizione spontanea, e che il grande artista dona a chi partecipa di questa esperienza estetica, cioè il lettore. In sanscrito rasa significa “succo”. Quindi il succo, cioè l’essenza dell’opera d’arte sta nella comunicazione di questo Assoluto, cioè di Dio. Per questo gli indiani dicono anche che il rasa può portare alla liberazione.
Proprio per il contatto con il divino i grandi artisti sono a volte folli o comunque personaggi “strani”. Chi supera le porte della conoscenza non è più una persona come le altre. Si isola dal mondo delle persone che non la varcano e diviene un faro per illuminarle, comunicando l’intuizione divina. È un motivo ricorrente in tutte le culture che i grandi poeti e i grandi profeti siano esclusi, siano messi in croce, dalla caverna di Platone (quelli dentro la caverna non vedono di buon occhio chi si avvicina alla luce) a Cristo crocifisso dagli uomini.
Un delizioso libricino biblico dell’Antico Testamento, la Sapienza, al capitolo 3, offre queste parole: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero: la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità, ē elpis autōn athanasias plērēs”.
La conoscenza che il giusto ha, è volta alla propria salvezza e a quella degli altri. La vera conoscenza è data da Dio. Esiste quindi nella tradizione biblica, ma non solo, un rapporto stretto tra conoscenza e azione. L’artista fa qualcosa di analogo: la sua intuizione dell’Assoluto viene portata, mediante l’opera d’arte, a tutti i fruitori del prodotto artistico.
Anche nel pensiero cinese vi è un rapporto molto stretto tra conoscenza e azione. Secondo una via, l’azione è l’orizzonte della conoscenza, per cui vale solo quella conoscenza data da prove pratiche (azione) e volta all’azione (direzione etica della propria vita). Secondo una via alternativa, si nega del tutto la validità di una conoscenza fondata e volta all’azione. Il primo orientamento, eminentemente rappresentato dalla tradizione confuciana, è interessato esclusivamente al passaggio da conoscenza a azione, vale a dire al passaggio tra latente e manifesto. Il secondo orientamento, rappresentato dalla tradizione taoista, focalizza l’attenzione solamente sul visibile. Il primo orientamento quindi si basa sul giusto governo politico dello stato mediante principi universali, invece il secondo si basa su una visione artistica, nel senso di una partecipazione dell’uomo alla gestazione del mondo. Non è raro trovare nella tradizione cinese personaggi eminenti che unificano in sé stessi le due vie: un solo individuo può essere nel modo più naturale del mondo poeta-pittore-calligrafo e, insieme, consigliere del principe o uomo di stato.
Bibliografia
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- R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 1988;
- L. Caretti, Studi sulle Rime del Tasso, Roma 1950;
- A. Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. 1, Torino 2000;
- A. K. Coomaraswamy, La tenebra divina, Milano 2017;
- H. Corbin, Nell’Islam iranico, vol. 2, Milano 2015;
- A. Gargano (a cura di), La fine del Rinascimento nelle letterature europee, Pisa 2016;
- Giuliano il Teurgo, Oracoli Caldaici, Milano 2016;
- L. Lévy-Bruhl, L’anima primitiva, Torino 2013;
- Liezi, La scrittura reale del vuoto abissale, Torino 2008;
- F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Varese 1996;
- Proclo, Tria Opuscula, Milano 2014.
copertina: Luca Giordano, Gli Inferi (1682-1685)
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 39 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.