Questo articolo, così come la settantasettesima parte che lo precede, avrà una fisionomia particolare.
Come vi ho raccontato, ero venuto alla determinazione di cessare questa serie di articoli (o rubrica) per una serie di motivi che ora non sto a ripetervi, prima però di (metaforicamente) abbassare la serranda, ho pensato di stilare una sorta di articolo riassuntivo, che è appunto la settantasettesima parte, esponendovi in sintesi le conclusioni di questi anni di ricerche, conclusioni che, per quanto riguarda le nostre remote origini, sono essenzialmente due: l’insostenibilità della tesi dell’origine africana della nostra specie (Out of Africa) che a dispetto di tutte le smentite che abbiamo più volte considerato, rappresenta la teoria “ufficiale” sulle nostre origini, per motivi ideologici, cioè politici e non scientifici, e perlomeno il dubbio sulla teoria evoluzionista come viene comunemente presentata, alla luce del fatto che gli australopitechi africani erano, con ogni evidenza semplici scimmie con nessuna tendenza verso l’umanità, e che l’Homo erectus, il nostro antenato più remoto che possiamo riconoscere come umano, si è rivelato molto più umano di quanto avessimo supposto. In sostanza, non sembrano mai essere esistiti uomini-scimmia, anelli di transizione fra l’animalità e l’umanità.
Su queste conclusioni che sono palesemente in aperto contrasto con la visione corrente, mi è sembrato opportuno chiedere il parere dell’amico Michele Ruzzai, che è forse oggi uno dei più interessanti studiosi di queste tematiche alla luce del pensiero tradizionale (Ricordiamo che alcuni suoi articoli hanno superato la dimensione nazionale, venendo pubblicati in Spagna).
Per prima cosa, gli ho sottoposto una sorta di questionario che adesso non vi riproduco per esteso, ma di cui vi do un sunto.
La prima domanda concerneva il fatto che l’Out of Africa è insostenibile perché la paleogenetica ha dimostrato che gli uomini di Neanderthal e di Denisova si sono ripetutamente incrociati con i nostri antenati di tipo Cro Magnon, dando luogo a una discendenza fertile, noi, quindi rispetto ad essi non c’era una barriera di specie, ma al massimo una differenza di tipo razziale, non ha quindi alcun senso sostenere che l’Homo sapiens sarebbe uscito dall’Africa alcune decine di migliaia di anni fa, quando era già presente in Eurasia da centinaia di migliaia di anni.
Ecco la risposta di Ruzzai:
“Oltretutto vi sono in giro per il mondo anche diversi ritrovamenti Sapiens talmente antichi che non vengono considerati dalla paleoantropologia ufficiale perché “non dovrebbero” trovarsi a quei livelli sedimentari”.
Altra questione che viene subito dopo: se neanderthaliani e denisoviani non erano “altre” umanità ma razzialmente diversi da noi, si ripropone la domanda sul concetto di razza: è tassonomicamente valido? A questo riguardo bisogna notare che i “buoni” democratici fanno terrorismo psicologico, hanno spostato il concetto di razzismo dal voler sostenere la supremazia di una razza sulle altre o addirittura volerne sopprimere qualcuna, alla semplice constatazione che le razze umane esistono. Pronunci questa parola, e loro sentono subito odore di camere a gas.
Ecco la risposta di Ruzzai:
“La stessa esistenza della disciplina chiamata “genetica delle popolazioni” è, implicitamente, un riconoscimento che l’umanità si divide in un sotto-unità discrete: non vi è né perfetta omogeneità molecolare, ma nemmeno una variazione perfettamente lineare delle frequenze rilevate tra un capo e l’altro del pianeta. Al contrario, vi sono “crinali” e “frontiere” genetiche, aree più omogenee ed aree meno: quindi raggruppamenti. Il fatto che, adottando approcci più o meno “analitici” o più o meno “sintetici”, questi raggruppamenti possano essere sistematizzati e gerarchizzati in vari modi, non implica che questi non esistano: come il fatto che si possa discutere sulle varie modalità di catalogare le nuvole a seconda della diversa forma, densità, colore, altitudine, ecc… non implica che il concetto di “nuvola” sia, in sé stesso, destituito di fondamento”.
Svariate prove si sono accumulate sul fatto che l’Homo erectus, ben lungi dall’essere un uomo-scimmia come era stato inizialmente considerato, fosse in realtà molto simile a noi. Fra queste, citavo il ritrovamento di asce acheuleane, cioè tipiche di erectus nell’isola di Creta, rimasta separata dalla terraferma da milioni di anni, e per raggiungere la quale questi nostri predecessori devono aver disposto di una qualche forma di navigazione.
A questo riguardo, Ruzzai risponde:
“E forse si potrebbe addirittura arrivare ad una sola specie del genere Homo, se consideriamo che le frequenze “fantasma” nell’attuale genoma Sapiens subsahariano potrebbero derivare da antichissimi incroci con Erectus africani, ne deriverebbe che anche questi ultimi non sarebbero stati geneticamente troppo distanti da noi, altrimenti tra le due popolazioni non vi sarebbe stata la necessaria interfertilità che ha consentito di portare quelle tracce fino alle popolazioni attuali”.
Rimaneva la domanda forse più impegnativa, quella concernente i dubbi sull’evoluzione, vi trascrivo la sua risposta:
“Personalmente, l’unico “trasformismo” delle specie che posso ammettere (e comunque non oltre certi limiti, che biologicamente potrebbero essere quelli della “famiglia” tassonomica) è quello di una involuzione, nel senso che siccome “nel più sta il meno”, ciò che si ha, può al limite essere perso, ma ciò che non si ha non può mai arrivare per “lento accumulo” di caratteri. La stessa selezione naturale è un fattore che può spiegare alcune specializzazioni, molto spesso alcune perdite, alcune atrofizzazioni, o anche alcune parziali modifiche organiche – e comunque sempre nell’ambito della specie (“microevoluzione”) – ma mai delle acquisizioni “ex novo” che arrivino addirittura a produrre dei “salti di specie” (“macroevoluzione”)”.
Dopo aver stilato la settantasettesima parte, gliel’ho sottoposta attendendo un suo commento, e mi ha risposta con un corposo scritto di cui vi riporto un estratto:
“Come mio breve commento al tuo bell’articolo, ti direi che ho trovato molto efficace l’esempio della realtà guardata con il binocolo girato dalla parte sbagliata e credo che valga la pena spenderci qualche parola in più (…).
Secondo me le implicazioni di questo errore di prospettiva non sono solo di carattere geografico – cioè il privilegio dell’Africa come iniziale culla umana, a discapito di quanto invece tramandato nei Miti e Tradizioni di tantissime popolazioni del pianeta, che invece notoriamente guardano a Nord – ma anche storico e logico-deduttivo. Come ad esempio nella difficoltà, chiaramente ammessa, di individuare il “momento” preciso dell’ominazione, ovvero quello che avrebbe fatto passare da un “prima” ad un “dopo”: anche qui si tratta di un errore di prospettiva, per il semplice motivo che non si vuole ammettere come la forma umana sia invece eterna. Reperti praticamente Sapiens di antichissima datazione sono stati infatti del tutto ignorati perché, appunto, non spiegabili nella preconcetta prospettiva ascendente (…).
io credo che qui l’approccio da seguire non dovrebbe essere quello di collocarci in una sequenza cronologica lineare, concezione che in verità non è molto consona alle civiltà europee pre-cristiane, ma in una propettiva molto diversa, ovvero quella ciclica (…).
E nell’ambito di una prospettiva ciclica, ecco allora che si può benissimo ammettere una diversa conformazione e transitorietà delle forme animali, appunto più avviluppate nelle spire del tempo, e gli eventi, se non per tutte almeno per molte di queste, connessi alle loro estinzioni: il che non ci autorizza quindi a pensare necessariamente ad una loro “trasformazione” in altre successive (come ad esempio si può notare per l’uro o il mammuth), ma ad una pura e semplice scomparsa perché evidentemente si era compiuto il loro tempo”.
Ho sintetizzato molto il lungo scritto di Michele, e spero di non averne tradito il significato.
Un giorno il filosofo Immanuel Kant scrisse a un amico spiegando che a suo parere gli empiristi sbagliavano confondendo gli oggetti della percezione come percezioni vissute da noi con l’oggetto come ente in sé che esiste indipendentemente da qualsiasi percepirlo, e si riprometteva di scrivere “due o tre paginette” sull’argomento. Quelle “due o tre paginette” diventarono la monumentale Critica della ragion pura. Ruzzai non sarà Kant, ma quando vi promette un “breve commento” dovete aspettarvi qualcosa del genere.
A questo punto, però, devo dirvi che per quanto mi riguarda è intervenuto un ripensamento anche grazie a sollecitazioni in questo senso che ho ricevuto da svariate parti: L’eredità degli antenati continuerà, non solo, ma ho potuto verificare il fatto che esaminando con attenzione le fonti italiane, si trova materiale più che sufficiente per una sua prosecuzione, lo vedremo nelle prossime parti de L’eredità degli antenati.
Prima di concludere il presente articolo, però vorrei dirvi qualcosa su di una questione del tutto diversa. Dopo Alla ricerca delle origini, c’è attualmente un mio secondo libro in attesa di venire alla luce, stavolta presso le edizioni Aurora Boreale, Ma veramente veniamo dall’Africa?, e altri scritti, una raccolta di saggi che completano quanto ho già esposto in Alla ricerca delle origini, ebbene, rileggendo il dattiloscritto (in realtà il file sul computer), mi sono accorto che c’è una questione che non ho trattato adeguatamente in nessuno dei due libri, un aspetto importante della eternamente dibattuta questione indoeuropea.
I linguaggi indoeuropei si dividono in due grandi gruppi: un gruppo occidentale comprendente il latino, il greco le lingue neolatine, celtiche e germaniche e un gruppo orientale comprendente le lingue slave e quelle indo-iraniche. Questi due gruppi sono detti anche del centum e del satem dalla forma che vi assume il numerale cento.
Io vi ho esposto il fatto che l’Asia centrale doveva avere in un remoto passato un importante popolamento caucasico, poi sommerso dalle popolazioni mongoliche, di cui i Daiaki del Borneo, gli Ainu dell’isola giapponese di Hokkaido, i Polinesiani sono probabilmente gli ultimi residui. Vi ho tuttavia spiegato che i Tocari del bacino del fiume Tarim, a cui sono riconducibili le mummie di Cherchen dall’aspetto sorprendentemente “europeo”, non sono con ogni probabilità da ricondurre a ciò, ma a una migrazione da occidente probabilmente molto più tarda, e il motivo è proprio il fatto che il tocario da costoro parlato, è una lingua indoeuropea di tipo centum.
Per quanto riguarda il gruppo satem, si è a lungo supposto che gli Slavi fossero stati originati da una migrazione che avrebbe raggiunto l’Europa partendo dall’area indo-iranica. E’ quasi superfluo dire che di una simile migrazione non si è mai trovata traccia.
A indurre questa convinzione, c’era il fatto che i più antichi testi conosciuti scritti in una lingua indoeuropea sono i Veda, i testi sacri della religione indù, scritti in sanscrito. Si è arrivati da parte di alcuni addirittura ad ipotizzare l’India come patria ancestrale degli indoeuropei.
Si vede bene dov’è l’errore, il fatto che il sanscrito indiano sia stata la più antica lingua indoeuropea scritta non significa affatto che sia stata la più antica lingua indoeuropea parlata.
Ma c’è di più, dietro a tutto ciò vediamo ancora una volta il fascino insidioso e malsano dell’ex Oriente lux, lo strabismo orientale che ha sviato tanti sguardi e cervelli.
La verità è con ogni probabilità esattamente contraria: cioè gli Arii erano con tutta probabilità una popolazione affine agli Slavi che, partendo dall’angolo sud-orientale dell’Europa, hanno invaso l’altopiano iranico e l’India.
Le prove inequivocabili ce le fornisce ancora una volta la genetica. Prima dell’arrivo degli Arii indoeuropei, l’India era abitata da una popolazione “scura”, i Dravidi, che costituiscono ancora oggi la maggior parte della popolazione indiana, e la genetica ha evidenziato che in India la percentuale di sangue “europeo” si trova in concentrazione nettamente più alta fra i membri di quelle che erano le caste superiori. D’altra parte è evidenti che il sistema delle caste era stato istituito proprio per evitare quanto più possibile il mescolamento razziale fra arii indoeuropei e dravidi.
Le ultime scoperte nel subcontinente indiano hanno risolto un problema non da poco. Come sapete, uno dei concetti fondamentali che ho espresso in Alla ricerca delle origini, è che dove troviamo civiltà, alla sua base, troviamo sempre l’uomo caucasico, “bianco”, che questo vale anche per l’Asia orientale e le Americhe, e che dove la sua presenza non è ipotizzabile, come nell’Africa subsahariana, nell’Australia aborigena, nella Nuova Guinea, vediamo che fino all’arrivo degli Europei, i nativi non si sono schiodati di un millimetro dal Paleolitico.
L’unica eccezione sembrava essere rappresentata dalla civiltà della Valle dell’Indo, i cui centri principali sono Mohenjo Daro e Harappa, precedente l’arrivo degli Arii indoeuropei e ritenuta opera degli “scuri” Dravidi.
Bene, recenti ricerche hanno portato all’individuazione di un cimitero nei pressi di Mohenjo Daro, e l’esumazione di diversi scheletri ha permesso di stabilire che gli abitanti di questo sito, e con ogni probabilità i creatori della civiltà della Valle dell’Indo erano caucasici. I ricercatori, dopo aver ricostruito al computer i loro lineamenti, li hanno descritti come “molto simili agli antichi Romani”. Non sappiamo se fossero indoeuropei, il concetto di “indoeuropeo” non è antropologico ma linguistico, e dal ritrovamento di uno scheletro non si può dedurre che lingua parlasse la persona da viva, ma in definitiva ciò non conta poi molto, quel che è importante non è tanto che lingua si parla, ma ciò che si è.
Per adesso, ci fermiamo qui. Chiudo confermandovi una volta di più che il mio impegno per riscoprire e chiarire la nostra eredità ancestrale, supportato dagli amici di “Ereticamente”, continua.
Nota: Nell’illustrazione, la tavola di Baska (Slovacchia) l’iscrizione più antica conosciuta in lingua slava. A quanto pare, gli Slavi non discendono dagli Indo-iranici, ma è vero esattamente il contrario.