Il primo turno delle elezioni presidenziali francesi evoca una battuta di Totò: è la somma che fa il totale. Nella fattispecie, in negativo; la somma non fa il totale, poiché si è manifestata una volta di più un’anomalia delle sedicenti democrazie liberali: la maggioranza dei cittadini ha votato contro il sistema, ma il sistema ha vinto. Il 24 aprile questa verità sarà confermata dal ballottaggio tra Emmanuel Macron, il presidente in carica, giovin signore della scuderia Rothschild prestato alla politica e Marine Le Pen, la sua avversaria, definita esponente dell’estrema destra.
Lo schema è lo stesso delle precedenti elezioni e uguale sarà il risultato, benché sia certo che lo scarto di voti tra l’uomo dell’oligarchia e la donna dell’opposizione sarà assai più contenuto rispetto al 2017, quando funzionò alla perfezione lo schema classico della politica – non solo francese – , ovvero la conventio ad excludendum, il cordone sanitario contro la Le Pen, già sperimentato nei confronti del padre Jean Marie.
Uno sguardo ai numeri: Macron ha ottenuto poco più del 27 per cento, la Le Pen ha superato il 23, distanziando di circa mezzo milione di voti il terzo arrivato, Jean Luc Mélenchon, campione della sinistra sociale. Devastante la sconfitta delle sigle politiche che dominano la scena transalpina da decenni: un umiliante 4,7 per cento per la rappresentante della destra moderata, Valérie Pecresse, addirittura l’1,7 per Anne Hidalgo, socialista, sindaco in carica di Parigi. Modestissimi gli esiti degli ecologisti e del candidato comunista, fedele alleato dei socialisti. Lusinghiero, per contro, il risultato del candidato rurale conservatore, Jean Lassalle, che, senza mezzi, ha superato il 3 per cento dei voti. Contraddittorio il 7 per cento raccolto dal polemista di estrema destra Eric Zemmour, ebreo di origine nordafricana, che ha mobilitato un notevole seguito giovanile ed imposto non pochi temi della campagna.
Urne vuote per i due candidati ultra comunisti e residuale il 2 per cento del sovranista Dupont Aignan, l’unico che cinque anni fa si schierò con Marine Le Pen al ballottaggio. Interessante il dato dell’astensione, che ha raggiunto il 28 per cento – un primato – a cui va unito un cospicuo numero di cittadini non iscritti alle liste elettorali, un adempimento preventivo che la Francia condivide con gli Usa.
Un francese su tre non ha votato e una percentuale largamente superiore al 50 per cento (Le Pen, Mélenchon, Lassalle, Dupont Aignan, l’ultrasinistra, in parte i sostenitori di Zemmour e dei comunisti “ufficiali”) è andata a forze anti sistema. Tuttavia, queste perderanno, perché la somma non fa il totale, ovvero è impensabile che gli oppositori di Macron e dell’establishment convergano in numero massiccio sulla candidatura Le Pen. Al contrario, il riflesso condizionato di sbarrare la strada all‘estrema destra ha determinato – a spoglio ancora in corso – l’unanime schieramento a favore di Macron di comunisti, socialisti, ecologisti e della tramortita destra moderata. E’ arrivato anche l’atteso appoggio al suo successore dell’ex presidente Sarkozy.
Criptico l’atteggiamento di Mélenchon, che ha esortato a non dare il voto a Marine Le Pen, evitando però di schierarsi con Macron. Sembra che molti non gli daranno retta: un terzo dei suoi sarebbe disponibile a votare Le Pen. Comunque sia, la vittoria di Macron non è in dubbio, anche se il distacco non sarà enorme. Il sistema di potere vincerà nonostante sia manifestamente minoritario tra i cittadini. Uno scenario simile a quello italiano, somigliante sempre più a quello spagnolo e tedesco. Le ex “grandi” famiglie politiche del Novecento che si dividono il potere fingendo di contenderselo (socialisti, popolari, liberali) hanno sempre meno seguito nell’opinione pubblica, ma riescono a mantenere la presa sulla società perché i loro avversari sono politicamente incompatibili tra loro, litigiosi, preda di contrapposizioni e idiosincrasie del passato. Divide et impera, la più vecchia lezione del potere.
La somma non fa il totale e milioni di persone, in Francia, in Italia e ovunque, si rifugiano nell’astensione, nell’indifferenza rancorosa, nella radicalizzazione parolaia. Pensiamo, in chiave italiana, all’immensa delusione grillina, che nel 2018 radunò un elettore su tre ed è stato istantaneamente addomesticato e cooptato nei meccanismi di potere. Non diverso il destino della Lega, diventata alleata del governo Draghi, viceré dei poteri forti il cui incarico è liquidare quel che resta della sovranità, dell’economia e della nazione.
Significative le reazioni italiane all’esito elettorale, con il solo Salvini a favore della Le Pen, mentre Berlusconi elogia il “liberale e moderato “Macron e Giorgia Meloni si dichiara neutrale, in attesa del partito di Zemmour e della minoranza gollista anti Macron. Un intellettuale conservatore, Marco Gervasoni, si augura la vittoria di Macron in quanto di destra. Diciamola tutta: ha ragione. L’ex funzionario dei Rothschild ed ex ministro socialista è il prodotto di un’intuizione di Giovanni Agnelli: la miglior destra è il centrosinistra. Destra del denaro e sinistra dei costumi che si incontrano al centro per gli affari, come ha scritto un intellettuale socialista, Jean Paul Michéa. Macron è l’incrocio perfetto della sinistra “progressista” benestante – al caviale, dicono in Francia – e della destra reale – liberale, atlantista, mercatista.
Improprio è ormai considerare Marine Le Pen di “estrema destra”. E’ la preferita degli operai francesi e delle classi basse: il suo programma sociale è tutt’altro che liberista e le parole d’ordine sull’immigrazione e la cultura della cancellazione, assai nette, sono meno radicali di quelle di Zemmour, la cui base elettorale sono le classi medio alte. Si ripete lo schema già sperimentato in America: Trump rappresenta i valori morali tradizionali e ampi settori territoriali e sociali di sconfitti della globalizzazione; i democratici i ceti alti urbani e il radicalismo sui temi etici e societali.
Il 10 aprile 2022 la Francia ha dimostrato che lo schema destra-sinistra non significa quasi più nulla. E’ utilizzato dal potere per conservare il potere demonizzando l’avversario, ricattando e riunendo sotto di sé ambienti e classi i cui interessi divergono dalle politiche concrete poste in essere dai gruppi dirigenti, tanto di centrosinistra che di centrodestra. Il partito unico di sistema vince in quanto persiste l’incapacità di rintracciare un terreno comune di una vasta opposizione che è insieme politica, sociale, etica, valoriale.
Lo schema è evidente a chi osservi la realtà senza paraocchi: non destra-sinistra, bensì alto-basso, centro-periferia, esclusi-garantiti, città-zone rurali e suburbane, vincenti-perdenti della globalizzazione, globalisti-sovranisti e identitari. In questo senso, voteranno Macron soprattutto gli impiegati pubblici, i professionisti, gli addetti di alto livello delle nuove tecnologie, i dipendenti dei settori economici “forti”, le grandi città. Il resto della società gli è già nemica, come mostra la rivolta dei gilè gialli, le ondate di scioperi e di manifestazioni popolari, l’accanita opposizione all’aumento dell’età pensionabile.
Ogni notte la Francia è scossa da disordini mentre in almeno settecento, ottocento quartieri (le banlieues) le forze dell’ordine non entrano più, di fatto sottratte all’autorità dell’orgogliosa République. La notte delle elezioni ha visto devastazioni in varie città, a dimostrazione di quanto il modello giacobino dell’assimilazione di ingenti masse extraeuropee sia fallito clamorosamente, così come i tentativi di integrazione. La Francia è oggi ciò che l’Italia sarà molto presto.
Gioca un ruolo importante la geopolitica. La Francia ama considerarsi una grande potenza senza esserlo, ma conserva un certo grado di indipendenza internazionale. Macron non ha sposato acriticamente la linea americana sul conflitto in Ucraina e ha bisogno di accordi con l’asse russo-cinese che avanza in Africa, dove è enorme l’interesse francese sui paesi la cui valuta è ancora il franco coloniale emesso da Parigi. Marine Le Pen interpreta un sentimento diffuso promettendo, in caso di vittoria, di far uscire il paese dal comando integrato Nato, una posizione gollista.
Tuttavia, la domanda da porsi è un’altra: può davvero la leader del Rassemblement National diventare presidente? La risposta è no. L’Europa, il sistema atlantico, l’oligarchia non eletta d’Occidente può tollerare – con fastidio crescente – la fronda della piccola Ungheria, sopportare l’anomalia polacca in chiave antirussa, ma non può accettare una Francia disallineata, sovranista e protagonista di politiche migratorie, finanziarie e sociali non in linea con i propri interessi. Una vittoria della Le Pen precipiterebbe probabilmente la Francia in un clima insurrezionale il cui fuoco sarebbe attizzato dalle centrali finanziarie, economiche e militari globaliste.
Ciò significa che perfino l’orgogliosa Francia è un paese a sovranità limitata e la democrazia – ossia la partecipazione e decisione del popolo sul proprio destino – non è che una parola vuota. Funziona finché vince chi è gradito a lor signori, diventa estremismo, populismo e tout court fascismo o comunismo se un popolo decide in maniera difforme dalla volontà di chi domina il mondo e controlla stampa, economia, cultura, finanza, politica. Sotto Macron, il gigantesco fondo Black Rock è penetrato in Francia con un successo travolgente, così come un colosso delle consulenze, Mc Kinsey.
Già sospettato di aver pilotato la campagna presidenziale del 2017 conformemente agli interessi americani, il gruppo ha ottenuto contratti per 2,3 miliardi di euro per lavorare su questioni che vanno dalla riforma delle pensioni alla digitalizzazione. Nonostante la tradizionale forza e qualità dell’alta dirigenza francese, Macron ha privatizzato le grandi scelte, per di più ad un’azienda straniera. Mc Kinsey è accusata altresì di non aver pagato un soldo di imposte in Francia: è probabile, giacché le aziende di servizi – deterritorializzate come i Gafam – riescono a sfuggire al fisco dovunque, con una rete di società, fatturazioni carosello e sedi fittizie nei paradisi fiscali. Secondo il politologo francese Thierry Meyssan, “il gruppo McKinsey ha compiuto una vera impresa eleggendo alla presidenza un politico inesperto per distruggere la società francese”.
McKinsey e il Boston Consulting Group sono diventati consulenti del governo in materia di difesa, clima e politica migratoria, nonché nello sviluppo delle strategie epidemiche. Ce ne sarebbe abbastanza per cacciare il presidente, sospettato anche di evasione fiscale nei periodi in cui lavorava come intermediario d’affari di alto livello. Voci, sospetti, forse, che si abbatterebbero però come macigni sul candidato Macron se non fosse il prescelto del sistema. Nel 2017 venne montato contro il suo avversario più accreditato, il gollista François Fillon, uno scandalo finito nel nulla, l’accusa di avere avuto alle dipendenze, da parlamentare europeo e con uno stipendio impiegatizio, la propria moglie. Strada spianata per l’enfant prodige.
Crediamo ancora nella volontà popolare, nella regolarità sostanziale delle elezioni, nella possibilità reale che vincano le istanze del popolo, quali che siano? Alle brutte, se l’alternativa è sgradita ai piani superiori, organizzano una bella campagna di demonizzazione. Ha funzionato per anni, funzionerà anche al ballottaggio tra Macron e Le Pen. Ancora una volta, la somma non farà il totale. Tuttavia, forse sarà l’ultima volta: presto l’onda, da qualunque parte provenga, chiunque la incarni, non riusciranno più a fermarla. Oppure sospenderanno le inutili lungaggini, le stanche procedure della “loro” democrazia. In Italia lo hanno già fatto.