8 Ottobre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, ottantesima parte – Fabio Calabrese

Vi ho raccontato la volta scorsa delle vicissitudini che ha attraversato questa serie di articoli, e di come mi sono deliberatamente complicato le cose rinunciando all’utilizzo di fonti britanniche. A volte mi viene davvero da chiedermi se ci sia un dio che mi assista in questo mio lavoro. A fine 2021 mi sono chiesto se non fosse il caso di rivedere questa mia decisione in proposito, perché pubblicazioni di questa area ben potevano fornire notizie interessanti che non riguardassero l’Isola britannica e, avendole trascurate dalla scorsa estate, mi aspettavo di dover smaltire un arretrato di sei mesi.

Invece, sorprendentemente nulla, nulla almeno che riguardasse la nostra eredità ancestrale europea, perché, devo essere sincero, le leggende polinesiane o i tentativi di individuare l’arca di Noè, dal nostro punto di vista offrono un interesse assai scarso.

Saranno gli effetti del cancel culture, ma sembra proprio che oggi su entrambe le sponde dell’Atlantico, l’archeologia europea non desti proprio interesse.

In compenso, e sembra proprio che il dio delle coincidenze abbia fatto gli straordinari, proprio negli ultimi giorni del 2021, fonti italiane e “minori” si sono rivelate ricche di informazioni, quelle in base alle quali è stata possibile la stesura della settantanovesima parte di questa serie di articoli.

Ma adesso punto a capo, e vediamo cosa ci riserva questo 2022.

Il cammino dell’Homo sapiens (cioè dell’essere umano moderno) iniziò quando le scimmie antropomorfe si alzarono in piedi e cominciarono a camminare su due zampe. Aver liberato due arti aiutò l’homo sapiens a costruire oggetti per risolvere i suoi problemi e bisogni quotidiani”.

Questa storia, o meglio questa versione della storia delle nostre origini senza dubbio la conoscete, è la “classica” versione evoluzionista, ma quel che probabilmente vi stupirà è la fonte che la riporta. Si tratta della pagina di gennaio 2022 del “Calendario di frate indovino”, quanto di più ortodossamente cattolico entra nelle case delle famiglie italiane.

Ora, prescindiamo dal fatto che l’evoluzionismo, almeno nella sua formulazione classica, appare oggi meno sicuro rispetto al passato (ne ho discusso nella settantasettesima parte, a cui vi rimando), noi sappiamo che esso per la Chiesa cattolica e le Chiese cristiane in genere ha sempre rappresentato un problema perché si pone in contrasto con la narrazione biblica della Genesi, e l’inerranza, cioè l’asserita impossibilità di errore della bibbia dovrebbe essere un dogma per i cattolici e gli altri cristiani. La posizione della Chiesa cattolica è stata finora di un prudente riserbo, o se vogliamo, di glissare sul problema.

Trovare una cosa del genere su un calendario cattolico a larghissima diffusione non si può interpretare che come un “segno dei tempi”, della volontà della Chiesa bergogliana di aprirsi totalmente alla modernità anche a costo di svendere definitivamente il suo patrimonio tradizionale.

Passiamo ad altro: proprio sui siti italiani in questo periodo si trovano parecchie cose riguardanti la nostra eredità ancestrale, e cominciamo proprio da un sito “di curiosità” italiano nonostante la testata pseudo-anglofona, “Vanilla Magazine”, dove già altre volte, lo ricorderete, abbiamo trovato cose interessanti dal nostro punto di vista, ad esempio del ritrovamento di un ipogeo da cui sarebbero usciti singolari manufatti, che la pubblicazione collegava alla scomparsa città di Rama che – anche qui nonostante il nome – si sarebbe trovata non in India ma in Piemonte.

 Stavolta “Vanilla Magazine” ospita un articolo di Annalisa Lo Monaco che ci parla di una nostra vecchia conoscenza, l’uomo dei ghiacci, il nostro Oetzi, l’uomo preistorico vissuto 5.300 anni fa il cui corpo è stato rinvenuto tra i ghiacci alpini al confine fra Italia e Austria. Ne abbiamo parlato più di una volta, perché la sua ascia di rame, il più antico attrezzo metallico conosciuto al mondo, è uno degli indizi che suggeriscono in maniera molto chiara che la scoperta dei metalli non sia avvenuta in Medio Oriente come si era sempre creduto, bensì nella nostra Europa.

L’articolo si concentra su un particolare aspetto del corredo di Oetzi: le calzature. Quelle che l’uomo dei ghiacci aveva ai piedi, fatte di pelle e fibre vegetali, sono state ricostruite da un ricercatore ceco, Petr Hlavacek, dell’Università Tomas Bata di Zlin, che dopo averne realizzate diverse copie, le ha anche testate facendole usare da un gruppo di alpinisti su terreni impervi, e la conclusione è stata questa:

“Sono una protezione molto comoda e perfetta sui terreni duri, per le temperature calde e per il freddo: potrebbero non essere molto attraenti, ma dal punto di vista tecnico sono molto forti, hanno un’ottima presa, e resistono bene agli urti”. Sono, hanno concluso i ricercatori, migliori di molte calzature moderne.

Tutto ciò ci sorprende solo fino a un certo punto, tanto meglio conosciamo questi uomini preistorici, tanto più ci appaiono ingegnosi e intelligenti, capaci di rispondere con soluzioni adeguate ai problemi posti dal loro ambiente.

Io vi ho varie volte espresso la mia opinione che non è che l’Italia abbia una preistoria meno ricca di quella delle Isole Britanniche o di qualsiasi altra parte dell’Europa o del mondo, ma disgraziatamente da noi l’interesse per il passato è minore che altrove. Scoperte anche importanti che altrove avrebbero ben altra risonanza, rimangono quasi nascoste, occorre andare a cercarle su siti decisamente “minori”.

Un esempio, è “Emozioni nell’attimo”, un “blog personale”, peraltro di qualcuno che si firma con lo pseudonimo di “Piccola noce”, ma è con tutta probabilità un ricercatore, a darci la notizia dei risultati degli scavi in corso dal 2015 ad opera della locale soprintendenza nella necropoli frentana di Crecchio (Chieti). Questi sono, per ora, i risultati:

Durante gli scavi sono stati rinvenuti reperti appartenenti a un vasto deposito votivo, tra cui vasellame nero dipinto, numerose statuette in terracotta raffiguranti animali, sacerdoti e divinità femminili, placche in argilla raffiguranti un volto misterioso di donna fiancheggiato da una torcia, a testimonianza di un antico culto italico attribuibile a una divinità ctonica”.

Non si fa fatica a immaginare quale risonanza avrebbero avuto simili ritrovamenti se fossero avvenuti all’estero.

Un sito internet senz’altro da tenere d’occhio, è “L’arazzo del tempo”, se non altro perché vanta tra i propri collaboratori Felice Vinci, l’autore di Omero nel Baltico. Qui troviamo un articolo di Marco Goti datato dicembre 2021 che ci parla di un sito neolitica dall’impossibile nome di Deltaserrasserne (che però in realtà sarebbe una corruzione locale dell’inglese Delta Terraces come l’hanno denominato gli archeologi). Che cos’ha di particolare? Due cose: il fatto di risalire al 2.500 avanti Cristo, ovvero 4.500 anni fa, e il fatto di trovarsi non solo in Groenlandia, ma all’estremità settentrionale della grande isola nordica, quindi a una distanza relativamente breve da quello che oggi è il polo artico.

Trovare le tracce di insediamenti umani preistorici in quello che oggi è uno dei punti più inabitabili del globo terrestre dovrebbe far riflettere, rende più verosimile l’ipotesi che migliaia di anni fa le condizioni climatiche di queste regioni fossero assai diverse da quelle attuali, ipotesi che abbiamo già considerato più volte in riferimento ai resti di megafauna che emergono dal permafrost della Siberia e dell’Alaska. Come credo di avervi già ampiamente spiegato, è verosimile che il clima medio del nostro pianeta non sia cambiato un gran che nel corso del tempo, e che mentre le regioni oggi più popolose d’Europa erano strette dalla morsa della glaciazione (per la quale non esistono tuttora spiegazioni convincenti), le regioni oggi artiche godessero di un clima ben più favorevole. Ciò potrebbe forse spiegarsi con uno scivolamento della crosta terrestre (Graham Hancock, Impronte degli dei), e il cambiamento climatico avrebbe poi indotto gli abitanti del remoto settentrione a migrare verso sud.

Questo coincide sia con le ipotesi prospettate da Felice Vinci in Omero nel Baltico sia con quelle di Tilak in La dimora artica nei Veda, e in genere riprese un po’ da tutto il pensiero tradizionale.

Forse c’è un importante capitolo “iperboreo” della nostra storia rimasto sepolto tra i ghiacci.

Questo è un punto che occorre assolutamente rimarcare. Le persone comuni “non addentro alle secrete cose” spesso si immaginano che gli scienziati siano imparziali e obiettivi analizzatori di fatti in base ai quali poi elaborano le loro teorie. Non è così, costoro, non meno fallibili di qualsiasi altro essere umano, spesso hanno delle vere e proprie idee fisse dalle quali non si schiodano nemmeno davanti all’evidenza più lampante. Per quanto riguarda le nostre origini l’idea che il cammino umano sul nostro pianeta proceda da sud a nord, e quello della civiltà da est a ovest, mentre in entrambi i casi è verosimile il contrario, in altre parole, tengono costantemente il binocolo girato dalla parte sbagliata.

Se ricordate, l’avevo notato anche una volta precedente (settantottesima parte), di fronte alla constatazione che i linguaggi slavi e indo-iranici appartengono entrambi al gruppo orientale, satem delle lingue indoeuropee, la spiegazione che i linguisti hanno perlopiù dato, è stata quella di una migrazione da sud-est verso nord-ovest, dall’Asia verso l’Europa, mentre tutte le prove indicano il contrario, e gli Iranici e gli Ariani dell’India avrebbero origine da popolazioni originariamente stanziate nell’Europa sud-orientale affini agli Slavi.

Talvolta, scoprire di avere ragione non è motivo di soddisfazione, quando si deve concludere con un malinconico “l’avevo detto” di fronte alla cecità altrui.

Parliamo di un articolo (non firmato) comparso lo scorso settembre su “Il fatto storico” che si occupa di un personaggio di cui ho già avuto modo di parlare, l’uomo di Harbin, ossia Dragon man, l’uomo-drago, il cui teschio fossile, rinvenuto durante la seconda guerra mondiale, fu allora nascosto ed è rimasto occultato e ignorato fino all’anno scorso. Harbin è una città al confine fra Cina e Russia, ed è politicamente cinese, anche se abitata da una folta minoranza di origine russa.

I ricercatori cinesi, fieri di avere un altro fossile umano nella loro terra, hanno subito pensato di battezzare una nuova specie umana, e l’hanno chiamato Homo longi (“Long” in cinese mandarino significa drago), il che porterebbe le specie umane rappresentate da uno o da pochissimi fossili nell’Asia orientale a quattro, considerando il “classico” denisoviano, l’uomo di Dali (Homo daliensis), anch’esso ritrovato in Cina, e l’Homo luzonensis delle Filippine, o addirittura a cinque, considerando il più antico Sinanthropus Pekiniensis, oggi però riconosciuto semplicemente come Homo erectus, il che è chiaramente un’esagerazione. (Tra l’altro, l’uomo di Harbin e l’uomo di Dali hanno una morfologia molto simile, il che rende tanto più assurdo collocarli in due specie diverse).

Bene, a quanto pare, e com’era in fondo prevedibile, la cosa va parecchio ridimensionata. A quanto riferisce l’articolo su “Il fatto storico”, l’uomo di Harbin e l’uomo di Dali non sarebbero stati altro che dei denisoviani. Almeno è questa l’opinione di Chris Stringer del British Museum ritenuto una delle maggiori autorità viventi nel campo della paleoantropologia, e di Jean-Jacques Hublin dell’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva.

Guarda caso, si tratta della stessa opinione che a suo tempo ho espresso al riguardo io (L’eredità degli antenati, settantesima parte), e avanzerei il parere che anche il filippino uomo di Luzon fosse “semplicemente” un denisoviano. (A proposito, avete notato che di colpo non se ne parla più, come se fosse una questione che mette in imbarazzo i ricercatori?).

In questo caso, però, quel che conta non è la soddisfazione di “averci azzeccato” e il problema è ben maggiore di quel che sembrerebbe a prima vista. Anche facendo la tara del vivace spirito nazionalistico che i Cinesi manifestano in ogni campo, ricerca scientifica compresa (siamo soltanto noi Italiani a pensare che il nazionalismo/patriottismo sia una cosa d’altri tempi, sorpassata), a parte ciò, sembra che nessun campo della ricerca scientifica sia, come la paleoantropologia, il campo dei più feroci e caricaturali personalismi. Chiunque trova un osso umano fossile sembra avere l’ambizione incontenibile di denominare una nuova specie.

I risultati sono quelli che vediamo. Ricordiamo al riguardo lamentela di Sergio Almécija, ricercatore senior presso la Divisione di Antropologia dell’American Museum of Natural History.

Quando si guarda la narrazione delle origini umane, è solo un grosso casino [testuale]”, riferisce Almécija, “Non c’è consenso di sorta […] Le persone lavorano con paradigmi completamente diversi, ed è qualcosa che non si vede accadere in altri campi della scienza”.

A ciò va naturalmente aggiunto l’obbligo per motivi ideologici di narrare la nostra storia remota come una marcia da sud a nord, quando le prove suggeriscono la direzione contraria, l’intangibile dogma dell’origine africana di cui ho cercato di dimostrarvi ampiamente la falsità, e capiamo bene come mai la narrazione delle nostre origini da parte della “scienza” ufficiale sia oggi nel caos più totale.

NOTA: La città di Harbin al confine russo-cinese, politicamente cinese ma che ospita anche un’importante minoranza russa, è nota per il festival annuale delle sculture di ghiaccio. Nell’illustrazione, l’imponente palazzo di ghiaccio, dove l’impronta russa è facilmente riconoscibile. Harbin è stata anche teatro della (ri)scoperta del teschio fossile di Dragon Man, probabilmente la più importante scoperta paleoantropologica degli ultimi anni.

 

1 Comment

  • Pier Ferreri 4 Maggio 2022

    A proposito dello slittamento crostale, vorrei far notare al Prof. Calabrese, che già nel 1958 se n’era occupato Charles Hapgood, con il saggio “The Crustal Shift”

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