Ci sono pezzi che si scrivono a futura memoria, per un unico motivo, lasciare una traccia, mostrare nell’epoca del totalitarismo dolce, dell’unanimità gioiosa e zoologica delle magnifiche sorti e progressive, che alcuni strampalati non la pensavano come la massa. La corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che attribuiscono ai figli il cognome del padre. I nuovi nati assumeranno quello di entrambi i genitori nell’ordine da essi concordato. I custodi della Carta (da scrivere sacralmente con la maiuscola) bollano come “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio” la regola in base alla quale veniva imposto il cognome paterno.
Con allegria di naufraghi, il quotidiano di Confindustria rileva che “i giudici passano un colpo di spugna definitivo su una concezione patriarcale della famiglia”. Potremmo discutere sul ruolo improprio che si è attribuita la corte, diventata il megafono non delle norme, ma della loro torsione allo spirito dei tempi. Potremmo divertirci all’ipotesi che tra vent’anni, i neonati Maria e Giovanni (o meglio Kevin e Jessica, nomi ben più à la page) ciascuno con il doppio cognome, avranno un figlio che di cognomi ne esibirà quattro e così via, sino all’ingorgo anagrafico. Potremmo implorare che, tramontata nell’entusiasmo generale la concezione patriarcale (in realtà patrilineare) sia introdotta la genealogia opposta, matrilineare. Sarebbe un epocale cambiamento di visione del mondo, ma risponderebbe al criterio della continuità, della trasmissione, dell’ordinata riproduzione delle generazioni.
Temiamo che sia impossibile anche questo: la nostra è l’era che ha portato a compimento la più irreale delle utopie, quella dell’uguaglianza, o meglio dell’equivalenza. Nella notte della civiltà fattasi civilizzazione terminale, tutto si equivale nel caos in quanto nulla ha valore. I giudici costituzionali, consapevolmente o meno, hanno certificato questo principio, dichiarando discriminatori millenni di storia. Non è più possibile discutere in termini di merito: se il criterio assoluto, totalizzante, il postulato unico (autoevidente per ripetizione assordante da oltre mezzo secolo) è l’uguaglianza, l’omologazione, contrastare la scelta dei giudici non è solo vano, è come tentare di comunicare senza possedere alcun codice comune.
Le reazioni alla sentenza sono state poche, una presa d’atto e via. L ‘opinione pubblica è distratta dalla guerra, dall’epidemia, dalla crisi economica. L’emissione del certificato di morte del padre non interessa. Presto toccherà alla madre, le due figure sono entrambe in crisi. Anche la madre, da prodigiosa donatrice della vita è derubricata a genitore uno (o due, se c’è accordo) o tre, se la gestazione è surrogata (gestazione per altri, ossia utero in affitto, il mercato che entra nelle viscere della vita) fattrice, in attesa di sottrarre la riproduzione dell’animale con pollice opponibile e stazione eretta ai capricci della natura e alla lotteria dell’incontro ovulo –spermatozoo.
L’umanità nova è arrivata al culmine: con l’uccisione legale del padre e il vilipendio del suo cadavere finisce una storia. L’unico commento che ci viene in mente è una citazione di Tocqueville: “se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su sé stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. “
Povero conte normanno: non aveva previsto che la potestà paterna sarebbe stata calpestata in nome del solo dio rimasto, l’uguaglianza-equivalenza che livella, pialla, cancella e produce consapevolmente una tabula rasa. Quanto alla virilità e alla preparazione all’età adulta, è cancellato anche il mito di Parsifal, che, senza padre, si libera della tutela materna in una difficile opera di maturazione.
Per quanto riguarda l’autodefinito Occidente, il tenace annientamento del ruolo, della figura e della dignità paterna mette fine a una tradizione di almeno trenta secoli. Ricordate l’Iliade, Ettore il combattente valoroso, il padre, il marito, il figlio che si oppone al semidio Achille? Stringe a sé la moglie, combatte pur sapendo che perderà e innalza sopra di sé il figlioletto, a cui augura di diventare più forte e valoroso di lui. E poi Enea, lo sconfitto che lascia la patria per fondare una nuova tradizione e reca con sé i Penati – gli dei della famiglia – si carica sulle spalle il padre Anchise e tiene per mano il figlioletto Ascanio. Una scultura del Bernini e alcuni dipinti di struggente meraviglia hanno reso eterna l’immagine. Tutto finito, in nome della non discriminazione dell’identità del figlio (?).
Omero ci ha trasmesso un’altra figura di padre, Ulisse, rimpianta nell’assenza e nel desiderio di Telemaco, il figlio che ne aspetta il ritorno per ricomporre in lui la patria, la famiglia, la legge. Oggi la psicologia chiama complesso di Telemaco la perdita del padre, uno dei fenomeni più laceranti delle ultime generazioni. Chi avrà la fortuna di averne uno – diverso dal donatore di sperma prezzolato, triste onanista della riproduzione, o dal casuale artefice di una gravidanza per disattenzione o istinto – avrà solo un pezzo della sua identità. La progressiva espulsione del padre ha eroso anche il senso di responsabilità maschile, ha plasmato un omuncolo senza volontà e senza senso di sé, contento di non avere più doveri, di non rappresentare più la legge, l’esempio, il limite, la guida. Triste destino, simile a quello del toro da monta, che non si accoppia più con una mucca in carne e ossa, ma con un artefatto con pelle bovina e l’odore della femmina, mentre un apposito contenitore conserva il seme. Più tardi, tocca alla mucca, ingravidata da una siringa.
In Svezia, nazione alla quale viene associato l’aggettivo superlativo civilissima, un quarto delle nascite avviene senza l’intervento (non sappiamo esprimerci meglio) di un padre. I fieri vichinghi si recano in centri specializzati e donano – più spesso vendono – il seme. Questa sì che è civiltà, la stessa che considera discriminatorio il cognome del padre. Verissimo: in un contesto siffatto, meglio il silenzio e un codice provvisorio, un chip modificabile a volontà.
L’uomo scompare, accettato solo nella versione omo, e con lui se ne va una civiltà. L’umanità dai molti cognomi non ha e non avrà alcuna identità. Indispettita dal non aver deciso la propria presenza nel mondo – si nasce per iniziativa altrui o perché la natura fa il suo corso – privata della genealogia, si accontenterà di essere un puntino fungibile, un fuoco fatuo nell’immensità. Eviterà a sua volta di avere eredi – chi non ha padri non vuole figli – e finirà con l’accettare la punturina che spegnerà per sempre la luce. Nel breve interludio, via libera a ogni volontà, capriccio, desiderio.
Ci siamo persuasi dell’inutilità di combattere contro una deriva giunta da tempo al punto di non ritorno: non resta che partecipare attivamente al nichilismo e lavorare affinché la dissocietà senza padri e con madri surrogate o tecnologiche finisca il più presto possibile. Confucio invitava a perfezionare le denominazioni, segno di chiarezza. Scegliamo noi stessi il nostro nome e cognome, revocabile a richiesta, con modulo bollato – una tassa in più nell’oceano di gabelle – o meglio ancora, chiediamo, reclamiamo di essere definiti da un codice a barre o QR. Diventeremo inconfondibili, acquisiremo finalmente un’identità diversa da quella imposta dalla natura – o dalla biologia, le denominazioni cambiano – ci emanciperemo dagli ultimi retaggi degli antenati, gli ex genitori e gli ex nonni. Il resto lo fanno già i tatuaggi – autocreazione – e la chirurgia che ci darà l’aspetto voluto. Qualche pillola e modificheremo il colore della pelle, le fattezze e tutto ciò che richiama una filiazione, discriminatoria in sé. Ci sono i belli e i brutti, gli alti e i bassi, e – orrore massimo – maschi e femmine.
Facciamola finita anche con gli obblighi giuridici, le obsolete norme che impongono prestazioni non volute e non negoziabili in termini economici: perché i genitori (1,2,3 ecc.) dovrebbero prendersi cura dei figli? Perché questi dovrebbero onorare il padre e la madre, come prescrive un irritante decalogo di comandamenti (parola orribile che nega libertà e autonomia) e sostenerli nella vecchiaia? Meglio la punturina. Basta però anche con i diritti ereditari: perché il patrimonio (dono del padre, secondo il vecchio significato) dovrebbe passare ai frutti dei suoi lombi, o delle provette? Libero cognome e libero testamento, nessuna successione legittima (cioè giusta, conforme a legge naturale…). Se Babilonia dev’essere, lo sia fino in fondo.
Pochi giorni fa, una città tedesca ha cambiato le regole delle piscine: nessuna discriminazione sul petto. Lo mostrano gli uomini – coloro che tali si sentono – lo possono esibire anche gli altri “generi”. La richiesta non è venuta da libertari o femministe, ma da una giovane che si sente maschio. Viviamo una fase terminale, la transizione da un mondo a un altro, o forse da un mondo al nulla. Non vogliamo più essere chi siamo e ci fa orrore il padre che ce lo ricorda. All’inizio della vita, una madre serve, poi si farà a meno anche di lei. Degli antenati non ci importa nulla, i posteri, se ci saranno, si arrangeranno.
Interrotta la trasmissione, il cui simbolo è la genealogia, la linea familiare, patrilineare o matrilineare, è smarrita l’identità. Saremo ciò che vorremo essere, ossia quello che il potere, la nuova patria potestà, avrà deciso per noi. Pinocchio, il burattino di legno con l’anima, era affascinato dal paese dei balocchi. Il corrispettivo postmoderno, patria comune di milioni di Peter Pan d’ambo i sessi che non crescono mai perché non hanno padri, sono le luci del consumo, della tecnica, dei desideri. L’Omino di Burro si trasforma presto in inflessibile dominatore che ci vende a Mangiafuoco.
La civilizzazione stremata, gaia e disperata, finisce come le balene spiaggiate, che abbandonano il mare per morire in un elemento che non è il loro. Ma qual è l’elemento di un’umanità senza padri e senza figli? Quale il destino di generazioni senza guida e senza speranza, dagli occhi vuoti, talora bulli dalla violenza insensata, capaci delle gogne social per i coetanei, altre volte fragilissime canne spezzate dal vento? E’ un tempo sterile e non può essere altrimenti: non può desiderare di riprodursi una generazione senza padri e spesso senza madri, a cui viene offerto non un modello di vita, un principio, un obiettivo, ma lo sballo, lo schermo, il ridicolo risarcimento del doppio cognome, la formula orrenda dei genitori numerati, la fluidità di genere, la confusione, l’assenza di identità, spezzettata in mille pezzetti provvisori, revocabili, spacciati per libertà.
A Babilonia, a Sodoma, nel paese dei balocchi, non si educa. Non solo in quanto programmaticamente vietato (discriminazione, imposizione, patriarcato e via mentendo) ma perché educare significa avvicinarsi all’altro, tenerlo per mano, indicare la strada e poi lasciarlo correre. I giuristi che cambiano i cognomi non hanno fatto altro che mettere il timbro, il bollino di conformità a una civilizzazione all’epilogo, o forse hanno redatto un atto di nascita. Una lunghissima, feconda stagione della civiltà si chiude, un’altra, senza padri e in gran parte sterile, inizia. Chi vivrà, vedrà. Siamo grati alla natura – o alla biologia, o all’anagrafe – che non ci farà vedere la generazione dai mille cognomi.
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