«L’uomo indossi le spoglie del leone, la donna il vello della pecora».
(William Blake)
Ma in realtà, fuor della nostra compiacente immaginazione, che animale è l’uomo? Di sicuro, la forza è l’elemento che più influenza le zone primitive, zoologiche, del nostro cervello. Anche quando s’incarna in avventurieri senza scrupoli o in crudeli signori della guerra, alla Tamerlano o alla Ungern-Sternberg, esercita su di noi un torbido fascino. Il paradigma del dominio sembra l’unico realistico e concretamente attuabile nella storia. Perciò, per nascondere le nostre angosce di prede, ci identifichiamo con predatori poderosi e spietati, finendo con lo sbranarci tra di noi.
Il leone è a tal riguardo un perfetto simbolo di potenza, coraggio e sovranità. Nella Bibbia, Dio stesso è paragonato a un leone, la sua voce a un ruggito. Tuttavia Sansone ne spacca la fauci, Daniele viene salvato dalla fossa dei leoni, Davide dirà che l’Eterno lo ha liberato dalla zampa del leone. È dunque anche un nemico e un pericolo. Dante ne fa una disposizione peccaminosa dell’anima, forse allegoria della superbia e dell’arroganza: “con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse”. D’altro canto, il leone è simbolo solare, quindi di vittoria della luce sulle tenebre. Cristo, identificato con il sol invictus, sarà nell’Apocalisse il Leone della tribù di Giuda. Leone è uno dei nomi preferiti dai pontefici romani. E innumerevoli sono i leoni nell’araldica – rampanti, alati, coronati, chimerici ecc.
Invano, pur tra una vasta fauna, cercheremmo un leone nei Vangeli. Il bue e l’asino assistono la nascita di Cristo. L’onore di portare Gesù in Gerusalemme tocca ancora a un asino. Lo Spirito ha sembianze di colomba. Un cane, leccando le piaghe del lebbroso, supplisce con la sua pietà all’indifferenza degli uomini. Gli uccelli insegnano l’abbandono alla provvidenza divina. Ma solo San Pietro, in una lettera, accenna al re della foresta: “il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare”. In mezzo a buoi, asini, cammelli, vitelli, chiocce, pulcini, corvi, pecore, colombe, scorpioni, cani, uccelli, porci, pesci, locuste, volpi, serpenti, galli, vermi, persino tarli e moscerini, l’assenza del leone può sorprendere.
La mia ipotesi è che il leone venga escluso perché simbolo del fuoco. Solo in un caso Gesù dice: “sono venuto a gettare fuoco sulla terra”. Forse un’eco zoroastriana, portata dai Magi. Ma Cristo non è profeta del fuoco (che nei Vangeli ha carattere infero). Al contrario, è l’acqua il suo elemento. “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna … se qualcuno ha sete venga a me e beva. A colui che crede in me fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. A Nicodemo annuncia una rinascita “da acqua e Spirito”. E dal costato del crocifisso esce acqua mista a sangue.
Non è il fuoco “robustoso et forte” ma l’acqua “humile et pretiosa et casta” a salvarci. Chi sappia superare lontananze storiche e culturali – che lo spirito colma facilmente – troverà qui un’analogia con l’insegnamento di Laozi: “la bontà suprema è come l’acqua. La bontà dell’acqua porta beneficio ai diecimila esseri e non contende. Dimora nei luoghi che la gente detesta … Nulla nel mondo è molle e debole quanto l’acqua, ma nessuno sforzo del duro e del forte può superarla”. Dall’acqua nasce una pedagogia dell’anima imbevuta di sensi femminili e materni.
Così, per Cristo i bambini che succhiano al seno sono immagine di coloro che entrano nel Regno, e Laozi parla di sé come di chi “gode nel poppare dalla Madre”. Il neonato diventa metafora del saggio: “chi è ricolmo di Virtù è simile a un neonato. Vespe, scorpioni, vipere, serpenti, non lo mordono, gli animali feroci non lo afferrano, gli uccelli non lo ghermiscono. Non sa nulla dell’unione di maschio e femmina, ma il suo membro si erge. Ha le ossa deboli, i muscoli teneri, ma la presa salda. Grida tutto il giorno ma non diventa rauco”.
Un’armonia naturale lo ricolma, la sua stessa debolezza lo protegge, la sua tenerezza gli conferisce saldezza. Anche nella visione messianica di Isaia, «il lattante giocherà sulla buca dell’aspide, e il bambino divezzato metterà la sua mano nel covo della vipera». Ogni violenza leonina, ogni imporsi aggressivo, sarebbe in tale contesto un fattore psicologico estraneo e incongruo.
È il ‘femminile’ a esprimere virtù spirituali: “la femmina, con la quiete, sempre prevale sul maschio, ponendosi sotto … chi sa d’esser maschio ma si attiene alla sua femminilità (più letteralmente: chi sa d’esser gallo ma si attiene alla gallina) è la forra del mondo (la gola montana tra le cui pareti scorre l’acqua). In lui la Virtù mai si esaurisce. Ritorna allo stato di lattante”. Lo stesso Cristo si paragona a una gallina che raccoglie i pulcini sotto le sue ali. Il Tao evoca una trinità femminile di grembo, vergine e nutrice: la cavità uterina e feconda, spesso rappresentata dalla valle in cui l’acqua si raccoglie; la fonte incontaminata; la madre che sazia.
Anche la sapienza assume così caratteri femminili e ricettivi. Forme rigide di logica e razionalità maschile impediscono di comprendere la vita nel suo eterno fluire. Laozi rifiuta le strutture ipocrite della moralità e l’arroganza del sapere; Cristo inveisce contro la saccenteria e l’affettato legalismo di scribi e farisei. Il Tao è “legno grezzo”, Dio si rivela ai semplici. Che nesso c’è tra Cristo e i bizantinismi teologici o le tassonomie morali? “Le prostitute vi precederanno nel Regno”. E infatti, quando risorge, è una prostituta la prima a vederlo.
L’agnello, la gallina o il lattante son per noi immagini sconcertanti, antitesi dei nostri abituali archetipi di forza e dignità maschile. Ovviamente, prendere alla lettera le allegorie è mettersi tra coloro che, come dice san Gerolamo, “russano in un profondissimo sonno”. Ma anche un’interpretazione simbolica non ce ne facilita la digestione. Siamo legati a un pensiero tendenzialmente convesso, che teme le cavità. Questo ci impedisce di cogliere in quelle figure una forza più introversa, umile e paziente, che non ostenta e non impone ad altri la sua volontà. “Forte è chi vince gli altri. Potente è chi vince sé stesso”, dice Laozi. È una vittoria dello spirito sull’anima carnale, sugli impulsi malvagi della nafs.
La disprezzata pecora diventa così parte di un disegno catartico, teso a liberare la storia dalla violenza. “Perché nostro Signore chiama tante volte ‘pecore’ i suoi amici?” si chiede Taulero. In effetti, questo termine ricorre spesso nei Vangeli. “Gesù, vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore rimaste senza pastore … Io sono la porta delle pecore … Io sono il buon pastore. Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me … E ho altre pecore che non vengono da questo recinto. Anche quello io devo guidare … e diventeranno un solo gregge” ecc. Anche Pietro scrive: “eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime”.
La metafora ovina è in palese contraddizione con ogni eroico furore. Preferirla all’imperioso leone implica una perdita di virtù virili, la rinuncia ai fieri istinti, l’onta di porgere l’altra guancia. La mitezza e l’umiltà ci appaiono elementi di una religione fiacca e malaticcia, che frustra le nostre velleità auto-glorificanti. Ordinando di non opporci al male, Cristo ci disarma completamente. Ci concede solo battaglie interiori, ammette solo vittorie su sé stessi. Laozi considera le armi “strumenti detestabili e funesti”, assimila le vittorie militari a macelli e riti funebri. Tuttavia, a malincuore, sembra tollerare l’idea che talvolta sia legittimo difendersi, anche ricorrendo alle armi.
Si dirà che lo scoraggiare comportamenti leonini era forse plausibile in piccole e arcaiche comunità contadine, di cui già Laozi rimpiangeva la semplicità, la bucolica concordia. Ma è palesemente incompatibile con società di cacciatori e guerrieri, strutturalmente violente, e la cui si ombra si allunga fin sul pensiero, la scuola, le leggi, il lavoro, le relazioni umane, la scienza, la religione dei nostri tempi. Tutto avviene nel segno della lotta, del conflitto, in un antagonismo di vincitori e vinti, dominatori e dominati. E questa aberrazione è spacciata per legge di natura.
Non riusciamo così a uscire dallo schema che mette in relazione prede impotenti con predatori cui nulla importa delle sofferenze altrui. E nessuna dottrina di pietà è mai riuscita a distogliere gli uomini da questa prospettiva brutale. C’è qualche religione che ordini d’esser crudele, lascivo, ladro, assassino, di torturare, mentire, accumulare denaro? Eppure tutte le società, le stesse istituzioni ecclesiastiche, indipendentemente dai principi religiosi cui teoricamente si ispirano, vivono di atrocità, ruberie, menzogne e lussurie. È la Realpolitik, si dirà, la formula chimica e immutabile della vita.
Il Corano dice che «non v’è costrizione nella religione», ma i musulmani si fanno un dovere di sgozzare gli infedeli. Il “fides suadenda non imponenda” di san Bernardo non ha mai impedito di portare al mondo la buona novella sulla punta della spada. Sepolto il poverello d’Assisi e il suo pauperismo intransigente, i francescani si sono arricchiti. San Domenico intendeva combattere le eresie senza violenza, con la recita del Rosario, ma i domenicani trovarono che roghi e torture eran più efficaci delle preghiere. Il cupo elenco paolino – immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti, rapaci – è lo specchio di un’umanità cristiana nelle parole e satanica nei fatti.
Anche una volta battezzati e comunicati cosa cambia in noi? La nostra società resta la più radicalmente anticristiana che si possa immaginare. A parte alcune ristrette comunità monastiche, i principi religiosi restano lettera morta, o si piegano alla malvagità dell’uomo tanto da diventare ricettacolo di vizi e nefandezze. «Con le pietre della Legge hanno costruito Prigioni; coi mattoni della Religione, Bordelli» dice Blake. Così, “homo homini lupus” diviene una verità triste e inconfutabile, che solo per ingenuità o per utopia potremmo negare. Codici d’onore, trattati e Costituzioni son solo foglie di fico poste su un’oscena violenza.
Perciò, dice Taulero, Cristo chiama ‘pecore’ i suoi amici. Perché ama l’innocenza e la dolcezza. “La dolcezza è conforme a Dio: permette di ascoltarne la voce, che l’uomo impetuoso e irascibile non ode mai”. Non il vento che fa scricchiolare porte e finestre ma la brezza leggera, il sussurro dell’anima. Per sentire questa voce “è necessario che in te ogni impetuosità sia eliminata … devi essere una pecora dolce, tranquilla e abbandonata”. Sembra di cadere così in un misticismo che ignora le situazioni concrete della vita. Ma è proprio a causa di pragmatismi anti-mistici, del rifiuto di seguire lo spirito, che coscienza e società sono cadute in una voragine di caos e di lacerazioni.
Il problema non è perciò l’essere pecore, ma il saper distinguere tra buoni e cattivi pastori. Essere agnelli non significa aggregarsi a una massa ebete e grigia, che segue i propri macellai e si fida di loro. Non vuol dire consegnarsi ai lupi della politica o dell’industria farmaceutica, della finanza o della guerra, a chiunque dalla pecora – pecus – tragga pecunia. È invece figura di un sacrificio metafisico, in cui l’uomo si offre in pasto a Dio, si lascia divorare dalla verità che è in lui. È il consumare in sé stessi i propri vizi leonini. Come dice il Vangelo di Tomaso: “beato il leone mangiato da un uomo: diverrà uomo; maledetto l’uomo mangiato da un leone: l’uomo diverrà leone”.
La ‘pecora’, nella sua docilità e mansuetudine, è anticipazione di un mondo trasfigurato, redento. “Non resistere al male” dice Cristo. “Non contendere” dice Laozi. Guerre e rivoluzioni violente non possono essere terapia al male, perché ne sono i sintomi. Compassione, frugalità, umiltà – i tre tesori – son le medicine che potrebbero guarire la terra, ma nessuno le vuol prendere. L’ablazione di impulsi leonini ci sgomenta, come una castrazione. L’uomo ama esibirsi, dominare, appropriarsi. Si aliena così da quel Dio o Tao nascosto che crea la vita svuotandosi come un mantice e che, una volta creati, ci lascia liberi.
Nello sforzo di reprimere i suoi impulsi violenti l’uomo può al massimo trasformarsi in un impeccabile gentleman. Ma c’è in lui un ostacolo oscuro, apparentemente insormontabile, alla vera ‘gentilezza’. È forse quella ribellione alla passività femminile che Freud considerava motivo di analisi interminabili e irrisolte. Una resistenza al cambiamento profondo di sé che impedisce la conversione ai valori della ‘debolezza’. Difficoltà che oggi colpisce indifferentemente maschi e femmine, rendendo ancor più difficile sperare.
Gli aspiranti leoni diranno che alle ingiustizie, ai soprusi, non si può rispondere con flebili belati. Diranno che, trasferendo l’essere ‘pecora’ da un spazio metafisico, dove definisce il rapporto tra l’uomo e il divino, a luoghi meno rarefatti – politici, sociali, economici o semplicemente psicologici – i nostri ragionamenti si riassumono nel fatto che “chi si fa pecora il lupo se la mangia”. A questa obiezione si può rispondere in due modi.
Innanzitutto negando che la storia possa esser disgiunta da una realtà metafisica. Ne è anzi l’effetto, il riflesso su un piano fisico e temporale. Ogni cambiamento di prospettiva metafisica comporta perciò un parallelo mutamento storico. In secondo luogo ricordando che l’uomo, come la pecora, non ha zanne né artigli, che la sua natura non è quella del predatore, e se lo diventa lo fa alienandosi da sé stesso. L’arma naturale dell’uomo è la verità.
Perciò, io credo dovere di ogni ‘pecora’, di razza mistica o pratica, cercare e testimoniare la verità, e solo sulla forza della verità fare affidamento. Dobbiamo dividerci dai ‘capri satanici’ e denunciare la loro falsità. Non predicare un pacifismo imbelle ma neppure combattere il male col male. Del leone dobbiamo salvare solo la mancanza di paura. Dobbiamo opporci alla violenza “perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo; mentre il male che fa è permanente”. E chi del gregge teme la piattezza uniforme, il conformismo, si faccia pure pecora nera, libera e ribelle, cammini e pascoli da sola, vada per la sua strada sfuggendo alla sorveglianza dei cani. Penso che Cristo ami anche le pecore nere.
Il punto è che esiste un essenziale legame tra la pecora e la pace, tra il detto di Cristo “vi lascio la pace” e il suo farsi pastore. Infatti, pecora e pace vengono entrambe da un’unica radice, il sanscrito pac, che significa legare, unire. Il gregge è perciò una comunità fondata su vincoli di tranquilla convivenza, un vivere in amicizia. Il crogiolarsi in immagini di forza ferina, in deliri di potere, crea solo infelicità. Non disprezziamo dunque le quiete, pacifiche pecore. Per quelli che vivono di storia più che di fede, non è possibile altra legge che quella del leone. Ma alla fine saranno le pecore, i miti, a ereditare la terra.
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