Nella prima parte della presente riflessione abbiamo mostrato alcuni grandi cambiamenti antropologici e sociali, invocando contro di essi – ovvero contro l’oligarchia che li impone – una reazione, una rivolta morale in nome di un rinnovato umanesimo. Ci rendiamo conto – e ne abbiamo avuto la prova in recenti confronti pubblici – che le difficoltà sono perfino superiori a quelle messe in preventivo. L’immaginario di milioni di persone – anche di chi dà segni di insofferenza e di opposizione – è stato colonizzato in materia amplissima e, ad esempio, non riesce a comprendere che molti dei cosiddetti diritti, specie nell’ambito civile e intimo, sono in realtà trappole predisposte e disseminate con grande maestria dai nostri aguzzini.
Non si cambia un mondo adottando o accettando la mentalità e il sistema di pensiero che l’ha generato, né si esce dalla caverna senza rendersi conto di essere prigionieri che si credono liberi solo perché evitano di toccare i muri della cella. (Gòmez Dàvila). La stessa libertà, per l’uomo “organico”, non è astratta. Libero da che cosa? ammonisce Zarathustra. “Il tuo occhio deve limpidamente annunciarmi: libero per che cosa”? Homo faber, artefice, non l’odierno, pallido, seriale homo fabricatus, l’ex persona regredita a utente.
Umanesimo significa innanzitutto che la persona è un fine in sé e non un mezzo. Ciò implica respingere la riduzione zoologica dell’essere umano posta in atto dalla tenaglia della tecnocrazia e dal potere del denaro. Dunque, opposizione intransigente alla digitalizzazione dell’uomo, ridotto a codice a barre, grumo di carne manipolabile con il controllo dei mezzi di comunicazione di massa e i valori/disvalori da essi comunicati, e addirittura con l’inserimento nel corpo di apparati e sostanze di cui ignoriamo la composizione, gli effetti, gli autentici obiettivi di chi li produce e controlla.
Ribellarsi è gridare che il corpo fisico, il cervello e l’anima sono patrimonio indisponibile di ciascun essere umano. La lotta contro l’esproprio del Sé e del corpo da parte del biopotere diventa il primo gesto rivoluzionario. Io sono mio, dovrebbe essere – parafrasando uno slogan del femminismo di ieri – il primo comandamento del Ribelle.
Umanesimo è innanzitutto rivendicazione di libertà, personale e poi comunitaria, come componenti di un popolo e di una storia. Giungiamo al punto essenziale, difficilissimo da comprendere e accettare. Siamo oggetto di una gigantesca operazione di addomesticamento, standardizzazione di consumi e spersonalizzazione, non in nome di una pretesa uguaglianza tra gli uomini, ma per renderci docili strumenti di un sistema in cui tutto il potere, a partire dalla proprietà dei beni comuni, dei mezzi di produzione, dei servizi, della tecnologia e ovviamente del denaro è concentrata in pochissime mani.
Ci hanno convinto che non è mai accettabile l’uso della forza neanche per autodifesa, fondamento della responsabilità nei confronti di noi stessi, della famiglia, dei nostri simili, della protezione dei nostri principi e interessi. Così indebolito, espropriato delle risorse interiori e delle virtù del coraggio, anche fisico, simile all’Homunculus di Faust, l’occidentale postmoderno è privato in un colpo del desiderio di reagire al male e delle energie morali che inducono alla rivolta accettandone le conseguenze.
Ci hanno privato dei diritti umani e sociali, della proprietà di noi stessi (“non avrai nulla e sarai felice”), ci hanno estirpato il diritto e l’orgoglio di essere persone e comunità con una storia, un passato, un futuro e un destino, cioè di essere pienamente uomini, esseri sociali in senso aristotelico. Tale gigantesco esproprio ha cancellato gran parte dei diritti sociali, che la civiltà nostra aveva elaborato e conquistato duramente.
Forse dovremmo rovesciare l’XI tesi su Feuerbach di Karl Marx. Per l’autore del Capitale, i filosofi avevano soltanto descritto il mondo ed era giunta l’ora di cambiarlo. L’ operazione è riuscita non ai filosofi, ma all’alleanza tra tecnocrazia e finanza. E’ questa potentissima alleanza che va attaccata alla radice. Rivoluzionario è chi si pone grandi obiettivi, per quanto difficili. Ci hanno compresso nel consumo – anche di noi stessi – in quello che Jean Baudrillard chiamava “sistema degli oggetti”, rendendo la creatura umana una cosa, un essere tra tanti. Dopo l’appello alla libertà, è necessario decolonizzare l’immaginario dalla “forma-merce” estesa addirittura a noi stessi.
Abbiamo letto un’offerta di lavoro per ingegneri con conoscenza della lingua inglese e disponibilità agli spostamenti. Al nomade poliglotta laureato è offerto uno stipendio di seicento euro mensili. La rivolta, la rivoluzione morale deve ripartire da questo: l’uomo ha bisogno di sogni, ideali e principi, ma intanto deve soddisfare esigenze basilari e pratiche. Il liberismo reale nella sua forma globalizzata di appropriazione del mondo e dell’uomo è un potere schiavistico a cui va opposto il rigetto a partire dal rifiuto di accettare le sue condizioni. Il lavoro – sicuro, giustamente retribuito, fonte di dignità, componente essenziale della dinamica sociale – deve tornare ad essere rispettato.
Gli uomini, nonostante tutti i meccanismi del capitalismo di ultima generazione (precariato, concorrenza al ribasso, divisione) devono sentire nuovamente l’appartenenza alle categorie del lavoro, l’orgoglio del mestiere e della professione, la comunanza di interessi, la rivendicazione del loro ruolo. Il processo di omologazione-disidentificazione-deculturazione ha raggiunto ogni ambito della vita umana. Risultato, un individualismo gretto con cui hanno svuotato cuore e cervello, centrifugato con l’identitarismo minimo di infinite minoranze contrapposte ed agonistiche.
Tutto questo va attaccato e capovolto, per ristabilire l’ordine normale. Si deve tornare a identità forti e condivise, alla dignità che nasce e vive nei conflitti sociali e ideali. Non riusciamo a incasellare tali convinzioni nei contenitori ideologici del passato. Non ci attardiamo a stabilire se il globalismo dei padroni del mondo è di destra o di sinistra: combattiamolo, liberiamoci dalle sue catene. Spezziamo la dipendenza e i fuochi sparsi diventeranno un incendio.
Siamo uomini e donne “normali”, dicevamo. Le nostre divisioni – che sempre ci saranno e fanno parte della libertà e del fascino dell’avventura umana – non devono essere la più potente leva per il potere nemico. Rifiutare la tirannia del consumo, degli oggetti e del soggettivismo estremo e privo di significato – lo sciame che si sposta senza una meta apparente, obbedendo a onde invisibili, parole d’ordine talmente insinuanti che ci convinciamo di avere fatto noi le scelte indotte dal potere – significa innanzitutto rimettere sul trono l’uomo respingendo la tirannia del mercato misura di tutte le cose.
Karl Marx fallì nella pars construens della sua teoria, ma colse nel segno annunciando la “società mondiale dei contabili”. Essa è insieme “cupa religione del tecnicismo” e “morte spirituale, meccanica priva di anima “(Claudio Bonvecchio). Un’umanità deprivata di tutto, disanimata, nullatenente e nulla pensante, è una folla solitaria di atomi alla deriva, che diventa gregge al fischio del pastore. Recuperare la dimensione comunitaria e sociale è quindi essenziale, a partire dalla concreta rivendicazione dei veri diritti di chi vive in società e vuole essere protagonista del suo destino.
Rivoluzionario è ripoliticizzare l’uomo, restituirgli il gusto della partecipazione comunitaria, ridargli la passione perduta per la giustizia, comunicargli l’entusiasmo di avere una causa e degli obiettivi. L’idea di partecipazione era alla base della libertà degli antichi, che il liberalismo nascente ha sottratto in nome della delega in bianco, di procedure sempre più lontane dominate dal denaro (il riferimento allo stato della sedicente democrazia è voluto) di un individualismo indifferente, egoistico ed egolatrico.
Non possiamo partire dall’anima e dallo spirito, troppo feriti. Ripartiamo dallo stomaco e dall’ovvio desiderio di avere diritti sociali e potere decisionale. Dicevamo del “sistema degli oggetti”: dobbiamo distinguere tra beni e merci. Secondo Maurizio Pallante, merce è tutto ciò che può essere acquistato sul mercato; i beni sono ciò che serve e dà senso alla vita. Alcuni possono essere goduti e posseduti individualmente –la proprietà privata diffusa – altri hanno, per la loro rilevanza, per l’enorme impatto sulle nostre vite, una prevalente dimensione pubblica. Sono i “beni comuni”, che devono essere sottratti al mercato, all’arbitrio e al profitto.
Assistiamo all’attacco ai fondamenti della vita: acqua, cibo, farmaci, salute, conoscenza, fonti energetiche. Oggi è rivoluzionario pretendere che siano restituiti alle concrete comunità, agli Stati, sottraendoli, espropriandoli a chi ci ha derubato con false ideologie, promesse non mantenute, veri e propri soprusi. Ed insieme ai beni comuni, il cui elenco va aggiornato secondo momento e necessità, dobbiamo riappropriarci del controllo – e del giudizio – sulle grandi reti di comunicazione, sulle tecnologie che entrano nella vita e nella carne, sui settori economici ed industriali di interesse generale.
Umanesimo della libertà e del rispetto della persona umana – nelle varie dimensioni individuali, familiari, comunitarie, professionali e culturali in cui si dispiega- significa altresì proclamare la sovranità dell’uomo. Ecco un altro momento fondante. La propaganda avversa ci rinchiude nel soggettivismo per dominarci meglio, ma se l’uomo, nelle formazioni sociali in cui organizza la sua convivenza civile, non è sovrano, padrone di sé, del destino e delle scelte, è uno schiavo.
Decolonizzare l’immaginario dalle luci e dai miraggi indotti è il primo passo. Il secondo è proclamare la sovranità, sottraendosi al ricatto di chi, padrone di tutto, lo è anche delle parole. Il padrone squalifica la volontà del servo attribuendo significati negativi alle sue scelte, cambiando i significati o vietando le parole. Un uomo – e un popolo – che non sono sovrani degradano a greggi, passeggeri senza meta. La sovranità è la nemica assoluta del globalismo proprietario che ci domina: perciò è screditata dai servi a fattura; la sovranità è un grande principio generale che va declinata e praticata nei vari ambiti della vita degli uomini e dei popoli.
Per Nicolò Machiavelli la sovranità di un popolo fattosi Stato si esprime essenzialmente nella monetazione e in un esercito proprio. Sovranità politica, dunque, garantita dalla capacità di difenderla da ingerenze esterne, e sovranità finanziaria. Il paragone con la realtà sconcerta, nella colonia Europa. Eserciti di mercenari senz’anima, lontani dal popolo e soggetti al comando altrui, le strutture Nato. La moneta è creata dal nulla da banche private, straniere, anzi apolidi, le quali la prestano agli Stati dopo averne rivendicato la proprietà. I partecipanti principali di Bankitalia, Unicredit e Intesa San Paolo, sono terminali italiani di gruppi esteri, e l’istituto di Via Nazionale è solo uno dei soci della Banca Centrale Europea, anch’essa in mano ai poteri finanziari.
Quale sovranità, quale libertà hanno Stati e popoli senza moneta emessa dal potere pubblico, senza indipendenza per l’impossibilità di svolgere politiche economiche autonome e senza orientare la spesa secondo gli interessi popolari e nazionali? Si diventa prigionieri della spirale del debito con i padroni del mercato, l’altra faccia della finanza. E’ il tempo della governance, la parola che esprime la spoliticizzazione: governo come semplice amministrazione dell’esistente in nome e per conto di poteri non eletti. Ma non c’erano la democrazia, il suffragio popolare, l’articolo 1 della costituzione? (La sovranità appartiene al popolo).
Anticaglie come la sovranità economica, quella energetica – con le conseguenze che la guerra si è incaricata di evidenziare – e perfino la sovranità alimentare. La nostra l’abbiamo svenduta alla PAC (Politica Agricola Comune dell’UE) e adesso la invoca anche Coldiretti, che in passato poco eccepì quando gli agricoltori erano pagati per dismettere stalle, coltivazioni e distruggere raccolti. Per vergogna – la carità di Patria di ieri – tacciamo sulla sovranità culturale, polverizzata dall’inculturazione dell’americanismo d’accatto, dall’abbandono di ogni uso e costume nostro, dall’imbarbarimento linguistico che chiama green pass il passaporto vaccinale, lockdown la chiusura del paese e show room le esposizioni commerciali.
Senza sovranità non c’è libertà e, a rigore, non c’è popolo né politica. E’ ciò che vogliono i globalisti. Sorge dunque un’esigenza, rivoluzionaria nonostante sia un semplice esercizio di libertà e pensiero: mettere in discussione l’assetto di potere tecnocratico e finanziario del mondo, il liberismo reale globalizzato. Ci sono infinite altre modalità per organizzare l’economia e i rapporti socio economici. Non è vero che “non c’è alternativa”. Dobbiamo ricominciare a parlarne, lontani dall’obbligo neoliberale, un’altra delle dipendenze a cui ci costringe il Dominio per impadronirsi di noi, corpo e anima. Un potere che agiva per seduzione e oggi ha ripreso, attraverso l’autoritarismo e l’uso della pandemia, il vecchio metodo della paura.
Abbandonare la paura è l’altro grande gesto rivoluzionario, il più arduo ma anche il più facile, se pensiamo che tra poco non avremo da perdere che le nostre catene. Seneca disse a Nerone che nulla poteva su di lui, giacché non aveva più paura. E’ la rivoluzione più grande: vivere da uomini e non da pecore. La marcia comincia da un piccolo passo, l’atto di volontà di prendere coscienza e porsi il più grande obiettivo: cambiare il mondo a cominciare da se stessi.
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