Dante Alighieri è un «uomo di carattere», come si dice oggi per definire qualcuno che ha un brutto carattere. Lui stesso si fa proclamare da Virgilio “alma sdegnosa” (Inferno, canto VIII, 44) in quanto acerrima nemica di tutta la viltà, la corruzione e la stoltezza di cui è pieno il mondo.
Occorre dire però che l’intransigenza del poeta (per esempio nei confronti di Bonifacio VIII, o di Filippo Argenti) non sconfina mai nel moralismo bacchettone, nell’odio gratuito, nella rabbia cieca, manifestandosi piuttosto sotto forma di reazione legittima del sentimento di giustizia offeso. Dopotutto il Fiorentino è un buon cristiano e nemmeno Cristo fu solo amore e compassione, ma anche risentimento e collera, non stupisce che manifesti apertamente lo «sdegno etico» caratteristico di ogni spirito integro, rigoroso, inflessibile, restio ai compromessi.
Più in generale Dante è un libero pensatore che va dritto per la sua strada e non teme di esprimere le proprie opinioni, né si fa scrupolo di metterle in bocca a Virgilio se serve alla dinamica del discorso. Accade ad esempio davanti alla città di Dite, quando i mille diavoli posti a guardia delle roventi mura gli sbarrano la strada e quello tuona furibondo: “Chi m’ha negate le dolenti case!”
Terrorizzato Dante si ritrae, dichiarandosi pronto a tornare indietro. Non temere, lo rassicura il Maestro, nessuno può interrompere un viaggio voluto da dio. E comunque la spocchia di questi gradassi non mi è nuova, aggiunge, essendosi già manifestata davanti a un’entrata meno nascosta e ancora sprovvista di battenti. “Questa lor tracotanza non è nova; / ché già l’usaro a men segreta porta, / la qual sanza serrame ancor si trova” (Inferno, Canto VIII, 124-26).
Il messaggio è chiaro: capita talvolta che la ragione umana debba tornare scornata sui propri passi, motivo per cui non è il caso di sopravvalutarla. Come fanno certi arroganti che dopo essersi creduti dei “gran regi” se ne vanno dal mondo lasciando un orribile ricordo di sé e finiscono a razzolare come porci nel fango infernale. “Quanti si tegnon or là sù gran regi / che qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi!” (Inferno, canto VIII, 49-51).
Tutti noi abbiamo avuto a che fare con questi soggetti, aumentati a dismisura nell’Età Oscura, un’epoca priva di certezze dove miliardi di micro-contributi ingarbugliano continuamente le cose impedendo l’elaborazione di nuovi quadri concettuali, affinché la confusione regni sovrana.
Prima o poi qualcuno doveva pagare il conto della mentalità newtoniana-cartesiana che ha esaltato per secoli lo specialismo, la ricerca del cavillo fine a se stessa, il ragionamento capzioso. Sebbene l’idea di un Grande Oggetto tutto da sezionare, manipolare e vendere un tanto al chilo cominci a mostrare le prime crepe e narrazioni fantasiose quali l’universo-macchina, il dio-orologio, la società-unica e via dicendo appaiano sempre più spesso materiale adatto al cinema e alla letteratura, non alla vera scienza.
Ormai si vede chiaramente la mano lunga dell’economia dietro i “gran regi” che pontificano con superbia, decidendo tutto per tutti. Quasi non si sapesse che chiunque tenti di convalidare una teoria inserendo le proprie conoscenze in un paradigma (per seguire una felice definizione del filosofo Thomas Kuhn) è succube del suo orientamento, dei suoi umori, della sua epoca, delle sue competenze (per forza limitate), della sua formazione e soprattutto dei suoi finanziatori.
Come modello dell’iracondo Dante sceglie il focoso Flegias, «il Caronte dello Stige», che pare abbia incendiato il tempio di Delfi per vendicare la figlia Coronide sedotta da Apollo. Se davvero è andata così, forse qualche ragione ce l’aveva il re dei Lapiti confinato nella palude maleodorante a pilotare una misera barchetta che traballa pericolosamente ogniqualvolta un passeggero vi sale. Ma, purtroppo, mettere i bastoni tra le ruote dei potenti costa caro.
Flegias è un demone di poche parole, cova in privato un silenzio gonfio di rabbia che equivale a mille imprecazioni. Sbotta solo nell’apprendere che i nuovi arrivati sono di passaggio, non resteranno. E’ dura doversi rimangiare un’idea fondata sulle apparenze a causa della schiacciante evidenza dei fatti, e non potendo infierire oltre una certa misura su se stessi si finisce immancabilmente per odiare il mondo intero. “Qual è colui che grande inganno ascolta / che li sia fatto, e poi se ne rammarca, / fecesi Flegiàs ne l’ira accolta” (Inferno, canto VIII, 22-24).
La collera svuota l’anima, diceva Nietzsche; ed ecco spiegato il motivo per cui la furibonda Età Oscura pullula di zombi trasformati in paladini del Bene Assoluto, ovvero in feroci tutori del pensiero unico dominante pronti a sottoporre al sacrificio rituale tutte le “alme sdegnose” che osano andare controcorrente, amici e parenti inclusi.
Purtroppo il binomio grandi purghe-epoche fragili è ricorrente nella Storia, e noi ci troviamo nel bel mezzo della fase più malaticcia dell’intero periodo. Siamo nell’epoca in cui l’ira funesta delle milizie dell’Impero si scaglia come tante frecce avvelenate contro i liberi pensatori, ai quali viene riservato lo stesso trattamento che un tempo colpiva quanti si dedicavano «alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica», pratiche giudicate diaboliche, cioè anticonformiste.
Vinceremo la battaglia contro l’eresia, assicura Virgilio nel sesto cerchio … non mostrandosi tuttavia troppo sicuro del fatto suo. Parla tendendo l’orecchio all’atteso segnale che dovrebbe annunciare l’aiuto promesso. Ma niente. Quando all’improvviso dalle lugubri mura dall’aspetto ferrigno si levano tre orrende creature, le Furie, tutte imbrattate di sangue e invocanti la venuta della più terribile delle Gorgoni.
Voltati e tieni gli occhi chiusi, intima il Maestro al terrorizzato discepolo. Se dovesse apparire Medusa e tu la vedessi, dice, non ti sarebbe più possibile tornare indietro. In questo punto critico del viaggio la palla passa al lettore: “O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani” (Inferno, canto IX, 61-63).
Se ne deduce che non essendo stato illuminato dalla fede cristiana il mantovano è incapace di opporsi ad un solo agente del Male, quello ritenuto da Dante il più tenace e pericoloso di tutti: il demone dell’eresia, qui plasticamente simboleggiato da Medusa, la «solidificatrice» (dello spirito).
Ma, domanda: gli eretici non sono anch’essi (come Dante) espressione del libero pensiero? Gli spiriti «ostinati» non manifestano una sorta di «sdegno etico» contro la verità unica, indiscussa ed indiscutibile, del proprio tempo? Persino dopo la morte le idee «sbagliate» portano dritti all’Inferno? E la giustizia divina?
A conti fatti personaggi come Ipazia di Alessandria, Giordano Bruno, le presunte streghe del Medioevo, i druidi della tarda antichità e tanti altri sinceri ricercatori non vennero perseguitati e giustiziati per le loro caratteristiche di apologeti del paganesimo (che comunque era un panteismo di larghe vedute e avrebbe potuto convivere con qualsiasi altra credenza) ma in quanto portatori di un pensiero libero scaturito dai valori della Tradizione Primordiale che l’immortale «cultura della cancellazione» ha sempre visto come il fumo negli occhi.
Forte comunque della propria indiscutibile «altezza d’ingegno» e dell’investitura divina il poeta cristiano non transige. La Verità è una, come testimoniano anche i frequenti sbandamenti di Virgilio che ogni due per tre nella Commedia si confonde e ingarbuglia le cose.
Essendo vissuto prima del «terremoto spirituale» provocato dalla discesa della luce di Cristo sulla Terra, il Maestro è privo della Grazia, cioè assente di alcuni elementi essenziali. Davanti alle porte di Dite non ricorda più la strada che scende al Basso Inferno, cadrà nella trappola tesagli dai Malebranche, in Purgatorio sarà costretto a chiedere più volte ai penitenti qual è la via più rapida per l’ascesa, e via dicendo. Ci sta che ogni tanto il discepolo lo bacchetti (poeticamente), in fondo è lui il predestinato su cui incombe il segno del destino, l’ombra di una fatalità ineludibile, il peso di una missione profetica capace di elevarlo al ruolo di giudice e giustiziere del suo tempo.
Attenzione però a non confondere questo aspetto del carattere dantesco con l’altezzosa presunzione dei “gran regi” sopra citati, dato che certi accenti pseudo-giustizialisti del Fiorentino sono piuttosto riconducibili alla filotimía, cioè all’amore per l’onore e la dignità (cristiana) finalizzati all’ottenimento del rispetto del prossimo. In nome di questa ambigua virtù civica, che portata all’eccesso diventa un vizio, il poeta arroga a sé l’autorità di giudicare l’operato altrui e manda le persone all’Inferno, in Purgatorio, in Paradiso.
Ne consegue che per la condanna inflitta agli eretici Dante non prevedere l’appello. Una sorte condivisa dagli epicurei, che pure non badavano solo alle cose materiali, tenendo in grande considerazione la saggezza. “Sarà la saggezza il primo sostegno della felicità. Questa virtù pratica che è preferibile alla stessa filosofia è madre di tutte le altre virtù, le quali, del resto, ci insegnano che non si può essere felici se non si è saggi, se non si è onesti, se non si è giusti, e che giusti, onesti, saggi non si è senza essere anche felici” (Epicuro, Lettera a Meneceo).
Ai nostri occhi la ricerca della felicità legata all’imperturbabilità del saggio non sembra un reato grave, mettiamoci però nei panni di un uomo del Medioevo, l’epoca che esaltò l’ideale della perfezione cristiana da realizzarsi attraverso la penitenza, l’ascesi, la preghiera e la mortificazione fisica del corpo. Bisognerà arrivare all’umanesimo per vedere scricchiolare questa impalcatura ideologica, ma nel Trecento argomenti quali il piacere, i sensi, le passioni, la naturalità e via dicendo corrispondevano ad altrettante «tentazioni» colpevoli di distogliere l’attenzione del fedele dalle cose «alte» (il dolce mondo).
Come esempi del disfacimento spirituale del suo tempo il poeta porta Farinata degli Uberti e Cavalcante, talmente duri di spirito da non riuscire a capire neppure all’Inferno il motivo della loro dannazione. Non afferrano il vero significato del viaggio di Dante né comprendono l’importanza della fede cristiana, della salvezza eterna rappresentata da Beatrice, degli affari dello spirito in generale. Nulla.
La tappa fra gli eretici, gli epicurei, i fraudolenti sempre pronti a gabbare chi si fida di loro, gli usurai che oltraggiano la bontà divina, i violenti contro dio, se stessi e il prossimo, dà modo al poeta di inserire nel testo un nuovo intermezzo dottrinario. In realtà, rivela, il fine ultimo della sua missione non è la filosofia, cioè la conoscenza, bensì la Grazia.
Nessuno può salvarsi ragionando: “Filosofia”, dice Virgilio, “a chi la ’ntende, / nota, non pure in una sola parte, / come natura lo suo corso prende / dal divino ’ntelletto e da sua arte; / e se tu ben la tua Fisica note, / tu troverai, non dopo molte carte, / che l’arte vostra quella, quanto pote, / segue, come ’l maestro fa ’l discente; / sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote” (Inferno, canto XI, 97-105).
La stessa Filosofia (il sapere), per chi la comprende, spiega in più libri come la Natura abbia origine dal divino intelletto e dalla sua operosità; e leggendo attentamente la Fisica (la metafisica, il cielo stellato, le cose sensibili) si ha quasi l’impressione che l’operato umano sia nipote di dio e nel suo eterno sforzo di imitare la Natura somigli al discepolo che copia il maestro.
Ugualmente la Genesi insegna che gli uomini devono trarre i mezzi per vivere e migliorare le proprie condizioni dalla Natura e dall’Arte, solo gli usurai affidano ogni speranza al danaro. E’ chiaro adesso lo scopo del progetto trans-umano orchestrato dagli usurai del XXI secolo che mira ad eliminare dalle scuole e dalla società lo studio delle materie umanistiche, della Storia, dell’Arte? Si vuole evitare che l’uomo si comporti da uomo, ovvero agisca ispirato dalla bellezza e dalla meraviglia di fronte alla manifestazione reiterata del mondo. Comandare chi non pensa né crede a niente è molto più comodo e non riserva sorprese in corso d’opera.
L’ibrido che gli autonominati «eletti» dell’Età Oscura hanno in mente deve saper gestire ciò che serve alla vita pratica e al guadagno. A loro dire il futuro non ha bisogno di idee e di creatività, per andare avanti (?) è sufficiente un numero esiguo di esseri umani che lavorino e consumino a comando. Ma quando mai i calcoli ragionati e i piani disegnati a tavolino hanno funzionato nella realtà? A cantiere ancora aperto, infatti, la costruzione progettata dagli usurai 4.0 vacilla.
Siamo sinceri: l’istinto di buttarla giù del tutto è forte, ma il rischio di ritrovarsi a cambiare tutto per non cambiare nulla è ancora troppo alto. Senza contare l’ira sanguinaria dei Padroni Predoni, incattiviti dalla diminuzione progressiva del loro potere sul mondo e sempre pronti a sfoderare l’ennesima fatwa contro chiunque osi proporre visioni alternative.
Nell’inferno dell’Età Oscura il libero pensatore rischia la pelle esattamente come la rischiavano i disobbedienti dei secoli passati, né più né meno, nulla è cambiato. Va un po’ meglio per la massa di codici fiscali sparsi nel mucchio degli algoritmi, cioè per noi gente comune, che al contrario dei personaggi in vista abbiamo poche probabilità che la nostra auto esploda in autostrada a causa di una bomba nascosta nel motore dalla Polizia del Pensiero.
Approfittiamone per mettere a segno qualche colpo sotto banco con il guanto di velluto e il sorriso sulle labbra. Nella casa di vetro del Grande Fratello non serve il clamore, né gli arrabbiati destinati all’autocombustione come Flegias. Per creare «un’altra Storia» e ripristinare le «connessioni perdute» che riguardano la memoria, il passato, le relazioni intergenerazionali, naturali, cosmiche, servono tante piccole “alme sdegnose” capaci di agire nell’interesse comune sulla base di principi ben assimilati.
Nessuno speri comunque di poter vivere di rendita su cosmogonie religiose e scientifiche fuori dalla sfera del presente, cioè sul prezioso lavoro di pregevoli gruppi iniziatici come i brāhmaṇi in India, i Magi in Iran, i filosofi in Grecia, i collegi sacerdotali a Roma, i bardi e i vati nel mondo celtico, gli scaldi e i sacerdoti in quello germanico.
Calati come siamo nel pozzo buio del mondo terminale peccheremmo di ottimismo se ci aspettassimo miracoli dall’illuminante Grazia dantesca, dalle pratiche-benessere, dallo yoga indiano, dall’ascesi taoista e buddista, dalle cerimonie greche dei Sacri Misteri, dall’estasi plotiniana, dall’assimilazione alla divinità dei pitagorici, dalle «intuizioni» di Bergson.
Queste rispettabilissime «cose passate» possono essere utilmente adoperate come validi accendini magici per infiammare i cuori, ma se ogni santo giorno della nostra esistenza non cercheremo nel bosco altra legna da ardere la fiamma nel focolare si spegnerà.
Dopo secoli di razionalismo militante è ora di porre l’accento sul super-razionale, ossia sul sovra-razionale. Intendiamoci: le esperienze altrui sono sempre degli ottimi spunti da cui partire, basta acquisirle sapendo che saremo soli sulla strada che riporta a casa, cioè allo stato edenico, alla re-integrazione finale. La battaglia per l’«Origine» è tutta nostra e va combattuta giorno per giorno, a cominciare dalle piccole cose che immettono nel presente molta più energia delle azioni eroiche, donando a ciascuno, anche se con il contagocce, la sensazione autentica di vivere la vita.
Le grandi imprese portano successo e danaro ma alla fine s’impara dai dettagli, dalle sfumature, che l’uomo non può essere desacralizzato. Attualmente il Sacro è uscito dal nostro spazio percettivo, siamo in fondo nel Solstizio d’Inverno della Storia, nella fase più falsificata e menzognera in assoluto dove il rapporto tra l’uomo e il suo mondo si è spezzato, ma per fortuna non siamo noi i creatori del congegno universale e nel momento in cui tutti la daranno per morta la sacralità riemergerà dalle cose in modo elementare e diretto, perché così deve essere.
“Tutto l’impegno contenuto nella fondazione della Tecnica e della Scienza contemporanea è consistito nel privare le opere umane di ogni significato, cioè di deritualizzarle. Il significato è un’esigenza che limita l’efficienza, obbligando l’operatore a una quantità di adempimenti formali che lo distraggono da perseguire direttamente e alla spiccia il punto di arrivo. I grandi progressi realizzati dalla tecnica sono stati semplicemente il risultato dell’abolizione dalle operazioni umane di ogni sacralità: ciò ha reso, come per incanto, le pratiche umane meravigliosamente efficienti, ha consentito di porre ogni cosa in commercio, di sviluppare da ogni operazione un’industria. A un solo prezzo, appunto: che tutto rinunciasse al suo significato. Ma la natura resiste alla sconsacrazione” (Giuseppe Sermonti, L’anima scientifica, 1982).
(il viaggio continua)
2 Comments