7. “ABBIAMO RACCOLTO LA VOSTRA SFIDA…”
Pasella riferisce al Consiglio di ben 190 Fasci in attività: tra essi, anche quello bolognese, che, dopo molto pellegrinare “pianta le tende” in via Marsala 30, e comincia subito a distinguersi per la sua frenetica attività. Tentati assalti alla Camera del lavoro si alternano ad aggressivi e militareschi cortei in una città abituata solo a subire l’intimidazione socialista.
Alla guida vi sono Dino Grandi e Arpinati, coppia di giovani capi diversissimi tra loro: il primo, che è stato il diplomato con la media più alta d’Italia, è un giovane avvocato imolese, reduce di guerra, con una medaglia d’argento ed altre due decorazioni al valore, che si iscrive al Fascio il 23 novembre, dopo essere stato aggredito ed aver avuto lo studio devastato dai sovversivi, l’altro è stato operaio a dodici anni, autodidatta di incerte letture, sempre propenso all’azione spericolata.
A Grandi verrà affidata la direzione de “L’Assalto”, “giornale del fascismo”, come è detto nel sottotitolo, il cui primo numero viene diffuso in città nel pomeriggio del 4 novembre, giornata che segna l’inizio dell’azione fascista in grande stile nel capoluogo emiliano, con l’occupazione e l’imbandieramento di palazzo D’Accursio e il successivo attacco alla Camera del lavoro.
Tra i primi e più entusiasti aderenti, tanti giovani, ai quali si rivolge proprio l’articolo di fondo del giornale il 1^ dicembre:
“Guardiamoci e guardateci. Nessuno faccia il viso spaurito, nessuno abbassi gli occhi con falsa compunzione tremante. Ai conigli e ai coccodrilli, come alle bagasce, noi sputiamo sul muso. La giovinezza fascista è qui, tutta severa, tutta vigilante, tutta fieramente diritta – oggi più di ieri – e con tutta la voce dei suoi mille e mille petti gagliardi grida ancora una volta la sua squillante adunata: “A noi!”. E’ la voce romantica della libertà quattrocentesca conquistata dai nostri nonni carbonari…Lontano canaglie. Non ci toccate. Voi predicaste ieri la guerra civile, la rivolta armata, la dittatura e la tirannia delle classi, l’instaurazione di un regime antisociale ed antiumano che voleva fare del nostro Paese una grigia e immiserita e funeraria landa dove voi, corvi, avreste potuto satollare tutte le vostre incomposte libidini di paranoici e mentecatti. Ebbene, noi fascisti abbiamo raccolto la vostra sfida. Ed eccoci qui. Qui da soli. Noi con voi. A fare la rivoluzione. Dove sono i vostri sicari che attendono di giorno e di notte all’imboscata? Dove sono i Danton, i Robespierre, i Carnet, i capi comunardi e gli strateghi dei vostri eserciti rossi?
Li abbiamo veduti scappare, in mille contro venti, i vostri Enjolras vittorughiani, i vostri petrolieri, i vostri terroristi delle settimane rosse di tutto il mondo. Li abbiamo veduti, resi pazzi ed incoscienti dal terrore, i vostri arditi lanciabombe, fare un’orribile strage dei vostri, di tutti i vostri. Lontano da noi. Non ci toccate. Risparmiateci la fatica di sputarvi sul viso deforme! A soldati coraggiosi e leali, gente che non scappa, ad uomini modesti ed onesti che sanno morire, come sapevano pur morire i vostri padri comunardi e giacobini, noi, e con noi tutta la giovinezza fascista, potremmo concedere cavallerescamente l’onore delle armi. Da pari a pari. Ma oggi, con voi, no. Lontano. Non ci toccate.”
L’Assalto è destinato a diventare il giornale più noto dell’universo squadrista, interprete sicuro ed autorevole delle istanze della base, sarà il portavoce della battaglia di opposizione al patto di pacificazione, impegnato in un confronto che, in più di una occasione, non mancherà di rasentare anche toni antimussoliniani. Atteggiamenti decisi e netti contraddistinguono, fin dall’inizio, gli articoli del giornale: l’11 dicembre, per esempio:
“Ci hanno raccontato che giorni or sono, mentre noi, fascisti, passavamo in colonna serrata, facendo del nostro cuore un tacito ritornello alle nostre canzoni, un pescecane classico, tutto sbandato all’indietro per lo strapiombante peso di una pancia troppo gonfia di imbecillità e di sterco, abbia esclamato attraverso un giocondo strizzare di occhi porcini: “Io ai fascisti farei un monumento…” Se noi fascisti l’avessimo udito, gli avremmo certo piantato nel bel mezzo della sua faccia di mollusco viscido, uno sputo rotondo…
Non esiste, per noi, la distinzione scolastica ed idiota di borghesia e proletariato. Esiste un proletariato e una borghesia che lavorano, che producono, che obbediscono al processo storico della Società, traducendo in opere fattive, con un perenne sforzo dinamico, tutti i valori della tradizione e tutti i valori attuali e potenziali dell’oggi e del domani…Accanto a questo proletariato e a questa borghesia, che sono e rimarranno il lievito eterno e indistruttibile delle forze sane della nostra gente, esiste un falso proletariato e una falsa borghesia…E’ assai meglio che Essa, la falsa borghesia, si rinchiuda ancora nei fifaus della propria incosciente vigliaccheria ove l’aveva rintanata il terrore dell’anticristo rosso Lenin e da dove noi fascisti andremo nuovamente a scovarla per farle ballare in piazza, sulle piante dei piedi piatti e podagrosi, la nostra tarantella rivoluzionaria.”
Dieci giorni dopo, un nuovo articolo, dal titolo bellicoso: “Due cazzotti agli agrari”:
“Gli agrari fanno ora l’occhiolino dolce ai fascisti, li chiamano “cari ragazzi”, e poi, adagio adagio, attraverso un’abbondanza di sorrisi e un risalto di coccarde appariscenti si e no, vogliono persuadere noi, dico noi, fascisti, che la lotta agraria è stata soltanto un episodio di disonestà e di tirannia proletaria. Gli agrari, rannicchiati nelle loro comode ed eleganti tane, pretenderebbero oggi di trasformarci in sicari a difesa dei loro interessi e della loro vigliaccheria. Tanto per intenderci, anche su questo importantissimo ed delicato argomento, eccoci qua a dare due cazzotti agli agrari…La vera borghesia terriera non esiste, e quella che si gabella per tale, ha mancato totalmente al compito assegnatole dalla storia e dall’economia, che è un compito di creazione e di rinnovazione perenne. Noi, fascisti, non muoveremo un dito per salvare la sua traballante carcassa. Essa è la carcassa del feudalesimo morente e sopravvissuto alla rivoluzione liberale e ai diritti dell’uomo. Noi, fascisti, andiamo invece incontro al nuovo sindacalismo degli operai della terra, e ne aiutiamo i fermenti meravigliosi. Ai servi della gleba che esistono ancora, malgrado tutti i bugiardi riformismi e tutti i capitalismi democratici, noi andiamo incontro agitando il nostro orifiamma di liberazione.”
Quella contro la borghesia non è solo una battaglia di tipo economico, ma, e forse soprattutto, un’ostilità di ordine morale. Essa viene disprezzata per i falsi valori ai quali si ispira, per lo spirito che ne anima i comportamenti, per gli obiettivi che si pone: culto della “rispettabilità”, ipocrisia, riconoscimento della supremazia del “dio denaro”, assenza di veri ideali, attaccamento alla vita e rifiuto del rischio, sono solo alcuni di questi falsi valori.
Contro di essi, la reazione dei giovani “assaltatori” è radicale e decisa. Se possibile, ancora più netta e risoluta in quanti fra loro sono proprio di estrazione borghese, che vedono nella personale ribellione l’inizio di una purificazione individuale e collettiva. Per vincere, però, occorre portare alle estreme conseguenze la battaglia iniziata: il 29 gennaio del 1921, il titolo scelto non lascia adito a dubbi: “E guerra civile sia!!”:
“Ebbene, noi tutti BISOGNA, per salvare il Paese dal tradimento, BISOGNA impadronirsi del Governo del Paese. Noi, che siamo sorti contro la Rivoluzione, ci persuadiamo sempre di più che BISOGNA, per la nostra pace onesta di domani, BISOGNA fare a tutti i costi la nostra Rivoluzione…BISOGNA andare fino in fondo nella nostra opera risanatrice. Ognuno deve armarsi e decidersi: o coi bolscevichi o con noi! La guerra civile che il Governo e i bolscevichi hanno voluto nella nostra città e nella nostra provincia, NOI L’ACCETTIAMO E LA FAREMO tutta quanta e tutta in fondo, SENZA QUARTIERE E SENZA PIETA’. Noi abbiamo domandato un Governo che governi, e poiché questo continua tradire e a tradirci, governeremo noi. La Comune rivoluzionaria la faremo noi. Il palo in piazza lo innalzeremo noi. Quando non si governa a palazzo D’Accursio, si governa a via Marsala.”
8. IL “BUON DIRITTO” DI GIOVANI DI GIOVANI E COMBATTENTI
Particolarmente numerosi sono, tra le nuove leve fasciste, i giovani, che d’ora in poi costituiranno il fulcro del movimento, la sua avanguardia più ardita e generosa. In molti casi le loro adesioni coinvolgono anche l’intero nucleo familiare: ciò accade, oltre che per la comunità di ideali che spesso lega i componenti di una stessa famiglia, anche sotto la spinta di fatti contingenti che rivelano la necessità di “esser uniti” per meglio fronteggiare il pericolo.
Nei centri più piccoli, non di rado, l’aggressione o il ferimento di un congiunto provoca la reazione di parenti, ma, più frequentemente, è la “terra bruciata” che i socialisti e i loro alleati fanno intorno ai fascisti ed ai loro incolpevoli familiari che rinsalda i vincoli di parentela, in funzione soprattutto di autodifesa.
Accade così che, nei mesi della più violenta offensiva squadrista, a Bergiola cadano i due fratelli Picciati, in provincia di Padova i due fratelli Grinzato, il 25 maggio del ’22, a Vignale, in un’imboscata, saranno assassinati i due fratelli Mortarotti, mentre, nel Parmense, nel marzo precedente, viene ferito Corinno Bergamaschi, fratello di un altro fascista ucciso l’anno prima a Busseto.
Davvero singolare, infine, il caso del Tenente dei Carabinieri Umberto Baccolini, che, dopo l’uccisione ad opera delle Guardie Regie del fratello Augusto, avvenuto a Modena il 24 gennaio del ‘21, durante le esequie di Mario Ruini, si dimette dall’Arma e si iscrive al fascio di Bologna, dove sarà capo di squadre e dirigente di primo piano.
E’ l’elemento giovanile, principalmente se con precedenti combattentistici, a fare da traino:
“Nei borghi della valle Padana, giovani Ufficiali, reduci dalla guerra, chiamano a raccolta i loro amici e parenti agricoltori, e dicono loro che bisogna difendersi contro coloro che non volevano al guerra e oggi non riconoscono la vittoria, contro quelli che incitano alla violenza e al disordine, contro le correnti che vogliono instaurare la dittatura del proletariato, e ripetere in Italia l’esperimento della Russia. Un ‘aria di battaglia aleggia nelle campagne.”
Non si era mai vista prima una così attiva e numerosa partecipazione di giovani –spesso giovanissimi – alle vicende politiche nazionali. Essi sono già stati tra i più attivi interventisti nelle giornate del maggio 1915, ma la guerra ha avuto veramente un effetto dirompente sui vecchi equilibri anche sociali e familiari, a conferma di quanto avevano previsto esperti politici come Orlando, che ha individuato nel conflitto: “…la più grande rivoluzione politica e sociale che la storia ricordi, superando la stessa rivoluzione francese”. Con lui, Salandra:
“Oggi ancora, autorevolmente, è stato detto che la guerra è rivoluzione. Sì, grande, santissima rivoluzione…Nessuno pensi che, passata la tempesta, sia possibile un pacifico ritorno all’antico. Nessuno pensi che possano più giovare le antiche consuetudini di vita pacifica”.
Nel 1919, e negli anni che seguono, diventa impossibile restituire la gioventù a quel ruolo, di fatto subalterno, aldilà delle retoriche esaltazioni interessate, al quale fino allora l’aveva condannata la società italiana.
Giovani fra i diciotto ed i ventidue anni che, però, nel breve arco della loro vita hanno già fatto l’esperienza di guerra, vogliono ora “contare” di più, ed incidere nelle scelte di fondo della Nazione. In prima linea vi sono, in posizione di particolare preminenza, coloro che, spesso volontari e con i documenti anagrafici contraffatti dalla troppa voglia di fare il proprio dovere, hanno avuto, talvolta, la responsabilità del comando di decine e centinaia di uomini, più anziani di loro, ma la cui vita era loro affidata.
Molti sono tornati con una o più decorazioni, altri ancora portano nel fisico i segni di una mutilazione permanente, tutti sono psicologicamente segnati dalla partecipazione ad un’esperienza drammatica e che sentono irripetibile. Essi, che hanno lasciato le aule, i campi, le officine, non possono riprendere ora il proprio posto come se nulla fosse accaduto. Lo capisce bene Emilio Lussu:
“Chi ha comandato una Compagnia in tempo di guerra, può ricominciare, senza sforzo, a studiare sui banchi della scuola? Chi ha comandato un Battaglione, può rimettersi, senza sentirsi umiliato, a fare l’impiegato di archivio o lo scrivano a 500 lire al mese? La vita civile diventava per loro impossibile…E potevano rientrare nella vita normale, in stato fallimentare, essi che avevano vinto la guerra? E, inoltre, non avevano essi ogni giorno rischiato la vita? E avrebbero dovuto ora adattarsi umilmente al lavoro, alle dipendenze di quanti avevano fatto carriera rimanendo imboscati? Ah, no, meglio la guerra.”
Certo, il reinserimento è difficile; eppure, forse, esso sarebbe anche possibile, in maniera non traumatica, se solo si riconoscesse ai giovani reduci, ai trinceristi dalla “magnifica giovinezza acerba e matura”, almeno il “buon diritto dei combattenti”, che vuol dire, per esempio, evitare, come chiede, tra l’altro, il programma nazionalista approvato nell’aprile del ’19:
“…ogni tentativo di accaparramento demagogico, di cui offrono esempio rivoltante le cosiddette leghe proletarie dei mutilati, il carattere antipatriottico delle quali riduce il sacrificio eroico dei combattenti al livello morale di un volgare infortunio.”
E’, questo del “buon diritto”, un concetto ripetuto, ma, in pratica, indefinito, che può comprendere tutto: la “terra ai contadini”,la pronta riassunzione nel posto ricoperto prima, la concessione agevolata di nuovi posti di lavoro, il voto “politico” per gli esami universitari, il diritto alla casa, ma anche le semplici attestazioni verbali di riconoscenza per il dovere compiuto.
Incondizionatamente a fianco dei combattenti sono, com’è logico, i fascisti. Molti gli obiettivi comuni, identico l’humus nel quale lo scontento germoglia: della qualifica di ex combattenti si fregiano molti degli aderenti ai Fasci: da un riscontro statistico fatto da Pasella e presentato al Congresso di Roma del ‘21, riferito ad oltre la metà degli iscritti, risulterà che su 151.644 censiti, gli ex combattenti sono 87.182.
Solidarietà incondizionata con le richieste e pieno impegno a sostegno dei loro diritti, anche quando essi significano qualche “sacrificio” personale. A Piacenza, Barbiellini Amidei, con un’iniziativa singolarissima, arriva a chiedere al Prefetto il sequestro della propria abitazione, ritenuta troppo grande per le sue necessità:
“Il Fascio locale di combattimento ha spedito, il 15 gennaio c.a., una lettera al Prefetto della provincia di Piacenza, e al Sindaco del Comune di Piacenza. In tale lettera, si dice che il Fascio di combattimento è venuto a conoscenza che la casa sullo stradone Farnese nr. 55, composta di 25 locali, non è mai effettivamente abitata da più di tre persone. Data l’assoluta mancanza di locali, che ha costretto i ritornati dalla guerra, mutilati ed ex combattenti, a sovrapporsi penosamente in abitazioni disagiate, non vi è tassa o soprattassa che possa permettere o consentire tale inutile spreco di locali. Ciò premesso, i signori a cui la lettera è indirizzata vorranno provvedere agli accertamenti del caso. Questo Fascio propone che le locali Associazioni mutilati e combattenti abbiano l’incarico di designare le famiglie prescelte. La suddetta casa, con piccoli lavori, può ospitare quattro famiglie, compresa quella del proprietario.”
L’argomento che più sta a cuore alla maggioranza dei trinceristi è, però, quello della nuova ripartizione della proprietà agricola. Anche in questo caso, le belle promesse del tempo di guerra sembrano destinate a rimanere tali: i combattenti del Carso e del Podgora rimangono senza terra e lavoro, mentre gli imboscati di ieri si permettono il lusso di scioperare, e le Amministrazioni locali socialiste arrivano a discriminare, nelle assunzioni, chi ha fatto il proprio dovere in guerra.
Anche le manifestazioni di pubblica riconoscenza appaiono fiacche e timorose, contrastate sempre dall’arroganza sovversiva, mentre il Governo si preoccupa di amnistiare i disertori. Solo nelle scuole e nelle università – là dove, cioè, l’elemento giovanile è assoluto – si respira un’aria più favorevole agli ex combattenti. I socialisti lo sanno bene, e, non a caso, a Torino, nel dicembre del 1919, cercano di dare l’assalto all’Istituto tecnico “Sommeiler”, per impartire una lezione agli studenti, e causano, negli scontri che nascono, un morto, il ventenne Pierino del Piano, allievo dell’Istituto, raggiunto da un colpo di pistola.
Il solco diventa, così, sempre più incolmabile. Di fronte a tanta incomprensione ed a tante difficoltà, non manca, peraltro, ai giovani reduci la voglia di tornare a battersi, per fermare il nemico interno, come ieri, sul Piave, è stato fermato lo straniero: “Abbiamo fatto l’Italia, ne vogliamo ora le redini”, questa è la parola d’ordine. Scrive al Popolo d’Italia un gruppo di sottufficiali del XXVII Battaglione d’assalto:
“A te, Mussolini, il nostro bravo, per l’opera tua; ma continua, per Dio, a picchiar sodo, che c’è ancora tanto “vecchiume” che ci contende il passo. Il compito di cambiare, di ridare dignità e prestigio all’Italia vittoriosa, non può che spettare a quei combattenti che la vittoria hanno propiziato.”
La guerra, nel suo complesso, con i suoi eroismi e le sue brutture, i suoi momenti di entusiasmo e la cupa disperazione delle ritirate viene rivendicata con orgoglio, di fronte a chi ad essa vuol negare il minimo valore: “La guerra è merito e peccato nostro. Accettiamo a nostro carico Caporetto, ma non vi cediamo un palpito di Vittorio Veneto”