La resa della destra liberale davanti all’insurrezione fascista del 28 Ottobre 1922
Come abbiamo affermato nei nostri precedenti studi, la Marcia su Roma fu in realtà una lunga marcia per la conquista del potere iniziata dal fascismo due anni prima, quando, agli inizi del 1921, i mussoliniani decisero di passare all’azione diretta contro il sovversivismo trionfante. Una volta sconfitta la sinistra, gli squadristi rivolsero le loro attenzioni alla destra liberale che teneva le redini di uno Stato ormai agonizzante.
Ovviamente, abbiamo usato i termini di “destra” e “sinistra” – termini in politica privi di un vero significato – solo per semplificazione, identificando con il primo tutte quelle forze costituzionali e liberali che detenevano le redini dello Stato e con il secondo il sovversivismo anarco-comunista che tentò di rivoluzionare con la violenza l’ordine politico e sociale.
Il fascismo – sebbene sarebbe potuto andare al potere attraverso un accordo con la destra liberale e nazionalista o, più semplicemente, attendendo le prossime elezioni nelle quali sarebbe quasi certamente uscito vincitore – scelse la via insurrezionale proprio per evidenziare che non si era davanti ad un semplice cambio di Governo, ma ad una rivoluzione. Del resto, un movimento nato a sinistra, alimentato dalla “religione dannunziana”, che si era sempre professato rivoluzionario, altro non poteva fare che insistere sulla “rottura costituzionale” di un atto insurrezionale concreto. Il mito si faceva storia.
L’atto finale di questa lunga marcia scattò alla mezzanotte del 27 Ottobre 1922:
[…] Le Questure e le Prefetture, già nella mattina del 27, incominciarono a segnalare adunate fasciste “sospette”. Ma non solo, nel pomeriggio di quello stesso giorno, senza aspettare la mezzanotte, alcune Legioni, addirittura, iniziarono l’insurrezione vera e propria. La prima città a insorgere fu Pisa dove, tra le 11:30 e le 12:10 del 27 Ottobre, si erano registrate interruzioni telefoniche e telegrafiche, nonché arbitrarie requisizioni di automobili. […] Poi, fu la volta di un’altra città toscana, Siena, dove, poco dopo le 17:00 del 27 Ottobre, gli squadristi agli ordini di Giorgio Alberto Chiurco facevano irruzione incruenta nella Caserma “S. Barbara” prelevando 1.000 fucili di guerra e diverse mitragliatrici. […]
Tragico fu, invece, il tentativo di anticipare i tempi a Cremona. Alle 18:00, una quarantina di squadristi erano già penetrati in Prefettura e avevano occupato gli uffici telegrafici e telefonici, mentre in provincia iniziava il disarmo sistematico delle Stazioni dei Carabinieri Reali. Durante le operazioni di disarmo si erano, però, registrati due caduti e un ferito, che spirerà successivamente: Andrea Bassi, Abele Casnighi – primi caduti in assoluto della Marcia su Roma – e Giuseppe Sarzi Madidini. […] Assicuratosi del successo delle operazioni in provincia, Farinacci volle tentare la conquista della Prefettura. Alle 23:30 diede l’ordine di assaltare l’edificio nella certezza che la forza pubblica posta a sua difesa non avrebbe sparato. Invece, non fu così, e i fascisti furono respinti con gravi perdite: cadde subito il sedicenne Ferdinando Cattadori, molti altri squadristi rimasero gravemente feriti. Di questi, sei moriranno in seguito.
Sempre il 27 sera, anche i fascisti di Foggia, al comando di Giuseppe Caradonna, si impossessarono dello scalo ferroviario, degli uffici della Pubblica Sicurezza e di quelli del Comando Militare, per poi passare alla locale caserma, alla Prefettura e alle poste e telegrafi, nonostante il tentativo di resistenza del Regio Esercito che, in un conflitto, aveva ferito tre fascisti. Mentre tutto ciò accadeva, i membri del Governo – che pure erano stati avvertiti della situazione in atto – compreso il Direttore Generale della PS, dopo una riunione, decisero di aggiornarsi al mattino dopo, andando a dormire come se nulla fosse[1].
L’indomani, chiara la situazione insurrezionale in atto, il Presidente del Consiglio Facta fu costretto ad emanare le disposizioni per la proclamazione dello Stato d’assedio. E qui la tragedia si trasformò in farsa:
[…] Lo stato d’assedio – imprudentemente diffuso da Facta prima della firma reale – era pur sempre richiesto da “un Governo dimissionario e quindi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, cioè inadeguato a fronteggiare un’emergenza di quella portata”.
Si dimentica spesso che mentre 26.000 fascisti – armati anche di armi prelevate da varie caserme del Regio Esercito, come quella di Spoleto da dove “sparirono” 3.000 fucili da guerra – circondavano Roma in attesa di ordini per l’attacco finale; mentre altri quattromila, equipaggiati con le armi sottratte ai depositi di Terni, al comando del Gen. Zamboni, si ammassavano presso Foligno per fungere da “riserve”; in gran parte dell’Italia centro-settentrionale migliaia di altri squadristi avevano già occupato Prefetture, Poste e Telegrafi, scali ferroviari e disarmato decine di Stazioni dei Carabinieri e caserme del Regio Esercito: al mattino del 28 Ottobre, parte dell’Italia centro-settentrionale era praticamente già in mano ai fascisti, con l’assenso delle Forze Armate che – non avendo ordini chiari, scritti, riscritti e confermati – non avevano fatto mancare il loro appoggio, tacito o esplicito che fosse[2].
Mentre tutto ciò accadeva, “gli squadristi mobilitati, disciplinati e pronti all’azione, incominciarono il difficoltoso concentramento alle porte di Roma. La pioggia torrenziale e alcune interruzioni ferroviarie predisposte dal Regio Esercito rallentarono la marcia. Operativamente si decise la formazione di tre Colonne d’attacco”[3].
Oggi si è soliti ironizzare sul concentramento dei fascisti alle porte di Roma quel 28 Ottobre 1922, dimenticando quello che realmente accadde in quelle ore e, soprattutto, lo stato d’animo che si diffuse tra i principali “difensori” dello Stato liberale. Si evidenzia che, se il Regio Esercito avesse ingaggiato battaglia, gli squadristi sarebbero stati messi in rotta. Si dimenticata che i mussoliniani avevano già liquidato il possente apparato del sovversivismo italiano; che godevano della stima e della simpatia delle Forze Armate, ma anche dei Questori e dei Prefetti; che le squadre d’azione erano composte da eroici e leggendari Volontari di Guerra ed Ufficiali decorati al Valor Militare, che al loro fianco c’erano migliaia di giovani pronti a tutto; che il Regio Esercito ben scarso affidamento dava per una prova di forza. Si dimentica che il fascismo aveva già conquistato l’Italia e il consenso degli Italiani.
Gli squadristi non avrebbero desistito dalle loro intenzioni per la sola proclamazione dello stato d’assedio o per qualche cavallo di Frisia difeso da poco convinti soldati di leva, in parte simpatizzanti del fascismo o, comunque, ben poco intenzionati a “fare gli eroi”. Carabinieri a parte, il Regio Esercito – sempre avesse voluto farlo – non aveva grandi forze moralmente idonee a fronteggiare l’impeto dei fascisti. Il Presidio militare che doveva difendere Roma era composto da 28.400 uomini e rappresentava “buona parte dell’Esercito sotto le armi”. Se, quindi, l’Urbe era difesa da un’importante contingente, si deve dedurre che il resto dell’Italia era totalmente sguarnito di reparti atti a garantire l’ordine… Tra questi 28.400 uomini, vi erano 7.500 reclute. I Carabinieri erano solo 1.600 (con 60 mitragliatrici). A questi si aggiungevano i 1.000 della Regia Guardia di Finanza (con 15 Autoblindate) e i circa 8.000 delle Guardie Regie (con 24 pezzi di artiglieria).
Molti hanno evidenziato come la Marcia fosse stata compromessa da una serie di interruzioni ferroviarie effettuate dal Regio Esercito, come quella di Orte o di Civitavecchia. Fermo restando che le truppe fasciste non sarebbero dovute entrare in Roma in treno, ma con una marcia di avvicinamento attraverso percorsi stabiliti, non siamo sicuri che simili interruzioni, da sole, avrebbero potuto far fallire la Marcia, anche perché, una volta fermi i treni, le camicie nere scesero e raggiungessero, in parte, i punti di concentramento a piedi (si pensi che Civitavecchia dista da Santa Marinella solo 10 chilometri; mentre Orte ne dista da Monterotondo una sessantina) e già il 29 Ottobre, comunque, si registrava – ad opera dei ferrovieri fascisti – il ripristino della linea ferroviaria di Orte. Certo, chi evidenzia il successo di questi sbarramenti condisce di “se” il suo racconto: se ci fossero state più interruzioni ferroviarie; se non ci fossero stati i ferrovieri fascisti; se fosse stato proclamato lo stato d’assedio; se ci fosse stato un Generale lealista dal polso fermo; se vi fosse stata una sicura linea di Comando; se vi fossero stati ordini scritti, riscritti e confermati; se le truppe regolari avessero sparato; se gli squadristi fossero scappati; ecc. Insomma una selva di “se” che compromette ogni seria discussione storica, anche perché – come abbiamo esposto – il discorso non può essere basato su questi sterili argomenti. Il problema non era militare, ma politico[4].
E, infatti, come aveva ipotizzato Mussolini, non ci fu il bisogno di ingaggiare nessuna battaglia per la conquista della Capitale:
L’assalto finale era stato previsto dapprima per il 28 e, poi, rimandato tra la mezzanotte del 29 Ottobre e le primissime ore del 30 Ottobre, ma dal Comando Generale di Perugia, il Quadrumviro Balbo, nella sera del 29, aveva emanato un ordine di “blocco” di tutte le operazioni: “Si ordina a alle camicie nere di tutta Italia di non abbandonare le loro sedi, in attesa di ulteriori disposizioni”. Infatti, poche ore prima, il Re aveva convocato a Roma Mussolini per affidargli l’incarico di Presidente del Consiglio. Il futuro Duce si era imposto e aveva dichiarato che solo un Governo da lui presieduto avrebbe potuto far rientrare pacificamente l’insurrezione in atto, nonostante che De Vecchi e Grandi avessero lavorato per una soluzione in “tono minore”, pronti a qualsiasi compromesso con la Monarchia e la destra nazionale[5].
A questo punto alle camicie nere non restò far altro che andare a raccogliere una vittoria conquistata in due anni di battaglie campali nelle campagne e nelle strade di mezza Italia. Una pacifica sfilata trionfale che, però, deluse molti che si erano preparati al grande giorno con ben altro spirito e ben altre intenzioni. Delusione che si fece amarezza quando i sogni di una rivoluzione radicale si scontrarono con la realtà dei fatti del compromesso con le forze conservatrici.
La Capitale venne circondata da tre grandi concentramenti di squadristi che, il 28 Ottobre – azione poi rimandata alla notte del 29 e, poi, definitivamente annullata per la sopraggiunta investitura di Mussolini a Presidente del Consiglio – avrebbero dovuto attaccare l’Urbe, prendendo pieno possesso di tutti i “palazzi del potere”, facendo affidamento anche alle squadre di Arditi che il PNF aveva già organizzato all’interno della Città Eterna.
Una soluzione che fu considerata, comunque, l’extrema ratio, visto che Mussolini – da sempre alieno ai “bagni di sangue” – aveva previsto che la mobilitazione degli squadristi sarebbe servita non per scatenare una guerra civile contro il Regio Esercito, ma solo a costituire quella pressione psicologica utile perché le ultime componenti dello Stato liberale si arrendessero ad accettare il fatto compiuto: ossia che il fascismo, ormai, dovesse governare.
A Nord-Ovest, il primo grande concentramento di squadristi si attuò a Monterotondo e Mentana. Il Comando venne assunto da Ulisse Igliori, che appositamente si fece consegnare dalla famiglia Fonti, fascista, l’alloggio di Mentana ove riposò Giuseppe Garibaldi prima della storica battaglia del 1867. Qui installò il suo Comando.
Sulle due città calarono le camicie nere dell’Alto Lazio, in particolare quelle sabine (300 uomini appiedati) al comando di Valentino Orsolini-Cencelli, cui si aggiunsero anche 500 squadristi di Orvieto giunti con automezzi propri.
La Legione di Siena, al comando di Giorgio Alberto Chiurco, forte di 3.000 camicie nere, invece, fu bloccata in treno fra Orte e Gallese, ove il Regio Esercito aveva fatto saltare un tratto di binari. Grazie all’intervento dei ferrovieri fascisti il traffico fu prontamente riattivato e i senesi poterono raggiungere la stazione di Monterotondo.
Su Monterotondo, infine, marciarono le squadre di Firenze (3.000 uomini al comando di Tullio Tamburini), di Arezzo e del Valdarno.
A Monterotondo e Mentana la pioggia, che in quelle ore cadeva incessante, provocò subito gravi problemi di vettovagliamento ed isolamento.
Il 29 Ottobre, arrivarono anche 500 camicie nere bolognesi al comando di Arconovaldo Bonaccorsi e il Gen. Gustavo Fara. Fu così possibile approntare due gruppi: uno al comando di Ulisse Igliori forte di 12.000 uomini; l’altro di 3.000 affidato al Gen. Fara.
Fu, quindi, decisa una marcia di avvicinamento sulla Capitale. Il gruppo di Igliori si sarebbe portato in treno da Monterotondo fino al Ponte Salario, concentrandosi sulla Via Salaria senza superare il Fiume Aniene (circa 18 chilometri). Quello di Fara, invece, sempre partendo da Monterotondo, avrebbe raccolto le forze dislocate a Mentana ed avrebbe marciato sull’Urbe percorrendo la Nomentana, fino al Ponte Nomentano, anche in questo caso senza superare il Fiume Aniene (per un totale di 23 chilometri).
Orario di partenza: ore 2:00 del 30 Ottobre. Giunti a destinazione, i due gruppi – separati da soli 3 chilometri di prati – avrebbero ristabilito il contatto tra loro, facendo affidamento anche sulla colonna che, partita da Tivoli avrebbe dovuto raggiungere nelle stesse ore Ponte Mammolo, costituendo quello l’ala meridionale di quello che era diventato un vero e proprio tridente d’attacco.
Mentre Igliori, raggiunte le posizioni, cercava di sistemare i suoi uomini travolti dal diluvio di una pioggia che non accennava a diminuire, venne contattato da alcuni Ufficiali Superiori del Regio Esercito che, comunicando l’investitura mussoliniana, si rendevano disponibili a collaborare per la sistemazione delle camicie nere.
Montato a cavallo, Igliori si mise alla testa degli squadristi ed entrò immediatamente in città, raggiungendo gli alloggiamenti per i suoi uomini approntati nelle scuole di Via Sicilia, per poi recarsi al cospetto di Mussolini, già all’Albergo “Savoia”, per comunicargli, sebbene non autorizzata, l’entrata delle camicie nere della sua Colonna a Roma.
Come abbiamo visto, la Capitale venne investita a Nord-Est da un tridente d’attacco composto dai due gruppi della Colonna “Igliori-Fara” e, più a Sud, in ritardo, dalla Colonna “Bottai”.
Ad Est dell’Urbe il concentramento dei fascisti si ebbe nelle città di Tivoli e Valmontone.
Nella giornata del 28 Ottobre, dopo aver “sistemato” le zone di competenza, su Tivoli sarebbero confluiti tutti gli squadristi delle Marche, dell’Abruzzo e del Molise, posti sotto il controllo di Guglielmo Pollastrini (circa 8.000 uomini). Valmontone sarebbe stata presa dai fascisti del Basso Lazio e della Ciociaria (circa 4.000 uomini).
Il comando generale sarebbe stato assunto da Giuseppe Bottai, che lo installò presso il Castello d’Este di Tivoli. Il Sottocomando di Valmontone, affidato al Magg. Fermo Gatti, fu insediato a Palazzo Doria.
Anche la Colonna “Bottai”, in attesa di ordini e flagellata dalla pioggia, decise di iniziare una marcia di avvicinamento a Roma nelle prime ore del 31 Ottobre, contando sull’analogo movimento già compiuto più a Nord dalla Colonna “Igliori-Fara”.
Gli squadristi montati su un treno speciale appositamente allestito raggiunsero la stazione di Tor Sapienza e da qui marciarono verso Ponte Mammolo dove presero la Via Tiburtina. Durante la marcia di attraversamento del quartiere San Lorenzo si verificarono cruenti scontri che si concluderanno con la vittoria delle camicie nere. La vulgata ci tramanda anche la storia di tredici comunisti uccisi che, nonostante le nostre ricerche, non ha ancora trovato fondamento. Sembra, comunque, che a scatenare gli scontri fossero stati gli squadristi fiorentini della Colonna “Iglori-Fara” già entrati nella Capitale, che decisero di “punire” il quartiere di cui erano note, fin dai tempi del congresso dei Fasci (7-10 Novembre 1921) e dell’agguato al corteo funebre di Enrico Toti (24 Maggio 1922), le passioni sovversive.
Superato il quartiere San Lorenzo, la Colonna “Bottai” marciò decisa sul Teatro “Adriano” dove si acquartierò.
Ad Ovest il concentramento squadrista si realizzò a Civitavecchia, dove 4.000 squadristi toscani, provenienti soprattutto dal Grossetano, occuparono la città, subito raggiunti da altre squadre marcianti da Tarquinia (Viterbo). Comandante di questa colonna – ribattezzata Colonna “Lamarmora”, richiamando il fondatore dei Bersaglieri – fu nominato Dino Perrone Compagni, che impiantò la sua sede al Castello Odescalchi di Santa Marinella, una decina di chilometri più a Sud.
Il 28 Ottobre, a Civitavecchia si concentrarono le camicie nere di Grosseto e di Lucca (Carlo Scorza); mentre su Santa Marinella marciarono quelle di Pisa e Livorno, alle quali, il giorno successivo, si aggiunsero gli squadristi di Carrara (Renato Ricci); per un totale di 6.143 squadristi.
Le città vennero “ripulite” da ogni sovversivo: la Sezione degli Arditi del Popolo di Civitavecchia fu occupata dagli squadristi di Grosseto e il loro gagliardetto di velluto nero diventò un prestigioso “bottino di guerra”.
Il Regio Esercito intervenne immediatamente nella prima mattinata del 29 Ottobre, bloccando il traffico ferroviario tra i due centri, mentre la pioggia che cadeva incessante cominciò a creare i primi grandi problemi per il vettovagliamento degli uomini e, soprattutto, per i collegamenti con Perugia, dove aveva sede il Comando generale insurrezionale.
In giornata, raggiunse Santa Marinella anche il Gen. Sante Ceccherini.
Nella tarda mattinata del 29 Ottobre, Mussolini ricevette l’incarico ufficiale per formare un nuovo Governo: partì in serata e nella mattina del 30 Ottobre passò proprio per la stazione di Civitavecchia, dove ad attenderlo v’erano gli squadristi in trionfo per la vittoria ottenuta.
Dopo una lunga attesa, alle ore 23:00 del 30 Ottobre, giunse finalmente l’ordine di avanzare su Roma per la Colonna “Lamarmora”. Si formarono due gruppi, uno al comando del Cap. Bruno Santini (Santa Marinella) e uno affidato a Carlo Scorza (Civitavecchia). L’ordine di partenza dalle rispettive stazioni ferroviarie, dove nel frattempo era stato prontamente riattivato il traffico, venne stabilito per le ore 6:00 del 31 Ottobre per il gruppo di Santa Marinella, le 7:00 per quello di Civitavecchia.
Giunti a Roma, i due gruppi riunitisi marceranno verso Porta Pia – luogo di importanza storica e spirituale – e da qui muoveranno per ammassarsi sul Corso d’Italia, nei pressi di Villa Borghese.
Abbiamo visto che, secondo le stime ufficiali del Regime, i fascisti mobilitati nelle tre colonne che cinsero d’assedio la Capitale tra il 28 e il 30 Ottobre 1922 furono oltre 33.000 (15.ooo della Colonna “Igliori-Fara”; 12.000 Colonna “Bottai”; oltre 6.000 Colonna “Lamarmora”). Tendenzialmente, la cifra viene ridotta a 26.000, ai quali, comunque, bisogna aggiungere tutti gli altri squadristi mobilitati in Italia e che si diressero verso la Città Eterna; quelli della Capitale che passarono all’azione diretta il 29 Ottobre; quelli di Foligno dove era pronta la “riserva” di 4.000 uomini del Gen. Zamboni che, il 30 Ottobre, dopo l’investitura di Mussolini, si mossero su Roma su dieci treni speciali.
Non sarebbe, quindi, impossibile valutare in numero di 50.000 i fascisti che entrarono in Roma il 31 Ottobre 1922 per la nota sfilata trionfale, senza dimenticare che le stime ufficiali parlarono di 70.000 squadristi festanti marcianti sulla Capitale.
Si dimentica, comunque, sempre di evidenziare la finalità della Marcia su Roma che non fu militare, quanto – come abbiamo detto – politica. Infine, occorre ricordare che Mussolini fece quello che in tanti anni di predicazione rivoluzionaria i socialisti italiani non avevano mai fatto e non faranno mai.
Pietro Cappellari
(Da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. 1922, Passaggio al Bosco, Firenze 2023, vol. IV)
Note
[1] P. Cappellari, L’insurrezione nazionale e popolare che cambiò il volto dell’Europa, in P. Cappellari (a cura di), Marciare su Roma. Atti del Convegno di Studi Storici del Comitato Pro 90° Anniversario della Marcia su Roma, Herald Editore, Roma 2013, pagg. 103-105.
[2] Ibidem, pagg. 101-102.
[3] Ibidem, pagg. 105-106.
[4] Ibidem, pagg. 106-107.
[5] Ibidem, pag. 109.