Da bambino facevo fatica a distinguere il lato destro da quello sinistro, sinché, mancino, risolsi il dilemma osservando, nel dubbio, la mano che utilizzavo per scrivere, mangiare, impugnare attrezzi. Nel mio piccolo universo di sogni e fantasticherie, il problema più affascinante era lo specchio: nell’immagine riflessa, la destra diventava sinistra e viceversa. Per molto tempo restai colpito dal fatto che lo specchio e le fotografie restituivano un’immagine a parti invertite e che mai, nella vita, mi sarei visto come sono davvero, con gli occhi e la prospettiva degli altri.
Capita qualcosa di simile nella topografia politica e culturale. Giorgio Gaber lo espresse con umorismo impareggiabile nella bellissima canzone Cos’è la destra, cos’è la sinistra. La conclusione, tra ironia, disincanto e minimalismo, fu che “fare il bagno nella vasca è di destra, far la doccia invece è di sinistra” oppure che il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra, il cioccolato svizzero è di destra, la Nutella di sinistra. Rovesciando l’ordine dei fattori, potremmo affermare il contrario, prova evidente che la segnaletica politica non segnala un bel nulla.
Per tornare alla serietà – ma lo scherzo e il gioco sono il sale della vita – concordiamo in parte con il politologo Marco Tarchi che in un’intervista al quotidiano comunista Il Manifesto conclude che la sfida è piuttosto sullo spartiacque conservatorismo/ progressismo. Non ci convince del tutto poiché dovremmo accordarci sul significato dei due termini e soprattutto prendere atto dell’inversione prodottasi nell’ultimo trentennio, del riposizionamento di interi ceti sociali lungo fratture impensabili in passato. Lo specchio, stavolta, dice la verità: istanze di sinistra – diritti sociali, difesa dei ceti deboli – diventano patrimonio della destra, mentre la dimensione individuale, soggettiva e la più accanita difesa del mercato “misura di tutte le cose” trovano dimora a sinistra.
Tarchi, studioso che conosce per frequentazione diretta gli orizzonti e i cliché mentali della “destra”, ha ragione quando situa la sfida, la vittoria e la sconfitta sul terreno culturale. La destra ha accumulato un ritardo di mezzo secolo e ha collezionato una serie ininterrotta di arretramenti e sconfitte, mentre la “sinistra” ha improntato l’immaginario collettivo di tre generazioni. Ha saputo trasformare in “diritti” – ossia qualcosa che, una volta conseguito, non può più essere messo in discussione – istanze soggettive, capricci e desideri. La controffensiva non può che partire da lì.
Il dibattito è aperto soprattutto dopo la vittoria elettorale di Giorgia Meloni. C’è delusione in chi ha creduto nelle istanze sovraniste. Per evidenti motivi di opportunità e accettazione nella sfera di potere euro occidentale, è difficilissimo mettersi di traverso al pensiero dominante rispetto alla collocazione internazionale e geopolitica dell’Italia, o dare vigore alle battaglie sulla sovranità monetaria, economica e militare. La sensazione, però, è che la “destra” reale creda davvero in ciò che proclama. Lo specchio riflette ma non inverte: la destra ufficiale è d’accordo sulla Nato, sulla moneta di proprietà delle banche, sull’alleanza immutabile con gli Usa, con un’economia non più di mercato, ma di monopoli privati.
Si torna a Gaber e alle sue differenze nonsense: i collant son quasi sempre di sinistra,
il reggicalze è più che mai di destra. Futilità. Tutti cantano in coro, parole, musica e strumenti sono di chi paga l’orchestra. “Il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra”. Su ciò che conta per i veri padroni, l’intero arco politico è unanime. Chi non ci sta, chi non si rassegna alla logica dello specchio, è fuori dai giochi. Un brontolone, un bastian contrario ridotto a macchietta, uno che vede il bicchiere sempre vuoto anche quando non lo è. Piuttosto che niente, meglio piuttosto: vedere lontani dal governo (non dal potere…) PD, Bonino, Boldrini e compagnia pessima è una consolazione. Magra, poiché della musica cambiano solo pochi accordi, quelli consentiti dai “superiori”, con buona pace dei popoli convinti di contare qualcosa.
Pure, bisogna infilarsi negli interstizi, nelle fenditure, nei pochi spazi liberi lasciati dal Dominio e prendere atto che la battaglia va condotta sul piano dei principi fondanti la comunità e la società. Che non danno da mangiare, dice la destra reale scuotendo la testa, convinta che un po’ di tasse in meno e una robusta sburocratizzazione cambierebbero tutto in meglio. Ma la destra non è attrezzata neppure per queste battaglie, come dimostra l’egemonia avversaria nella scuola, nell’alta dirigenza, nel mondo del lavoro.
La soluzione non è cambiare nome ad alcuni ministeri, ma il fatto di aver richiamato a livello governativo temi come la natalità, il merito e la sovranità (alimentare) è un inizio. Ora servono contenuti. Ad esempio la sfida delle parole da vincere con i fatti; o il coraggio del populismo, ossia l’ascolto della gente comune che manca alle forze dominanti, a destra, al centro e a sinistra.
Lo ripeto con l’insistenza di chi ha perduto la speranza, giacché “solo delle cause perse si può essere partigiani irriducibili” (N. Gòmez Dàvila): la madre di tutte le battaglie è sui principi etici. Su questo convengono Tarchi, che dalla destra fu cacciato e, un po’ a sorpresa, un intellettuale di opposta tendenza, Carlo Freccero. Segno della necessità urgente di uscire da vecchi schemi, previo disarmo bilaterale dei rispettivi tic ideologici. Freccero, esperto di comunicazione, finissimo creatore di contenuti, di parte, sì, ma sempre intelligenti e gradevoli, rileva la continuità della destra di governo con l’agenda precedente, ossia l’adesione al mainstream globalista.
Straordinariamente efficace è quando chiama in causa i valori della nuova sinistra progressista indifferente al popolo. Richiesto di un giudizio sulla drammatica crisi demografica, così risponde: “quali sono attualmente i valori della sinistra? Aborto, eutanasia, gender, tutti diritti che sottoscrivo, ma che dialetticamente hanno un comune denominatore distopico, il depopolamento del pianeta”. Noi non sottoscriviamo, come Freccero, i principi “progressisti”, ma conta l’ammissione che si tratta di cause che conducono all’estinzione biologica e alla fine di una civiltà, ossia sono pulsioni di morte.
Per chi li contrasta sono temi nichilisti, segni di disordine mentale, morale e sociale, elementi di una decadenza rispetto ai quali occorre essere irremovibili. Sgomenta il disinteresse, il cambio di posizione, l’apostasia – uno specchio spezzato – della chiesa.
Le battaglie decisive sono queste, che non si definiscono in negativo – nonostante partano da alcuni no irrevocabili – poiché sono un’agenda per e della vita, per e dell’umanesimo. Molti sono i nemici, il treno del progresso corre all’impazzata su un binario che conduce all’abisso. Nessuno, tuttavia, vincerà mai una guerra senza dare battaglia. A sinistra hanno applicato alla perfezione le prescrizioni di Sun Tzu: l’arte suprema è sottomettere il nemico senza combattere. Ci hanno avvolto, spesso ci hanno addirittura convinto. Chi ha continuato la lotta, si è accontentato di successi parziali e non ha mai veramente lottato, per timore e tornaconto immediato.
Soprattutto, non abbiamo cercato di pensare come il nemico, essere come il nemico, un’altra regola di Sun Tzu. “Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. “Continuiamo a sbagliare bersaglio, tacciando di comunismo gli avversari. Incredibile che le accuse reciproche riguardino idee morte, fascismo e comunismo.
Le motivazioni per combattere ce le ha fornite un avversario, Carlo Freccero, i punti di frattura Tarchi, uno che la “destra” ufficiale, avvolta nei suoi stracci, ha allontanato perché disprezza ciò che ignora. Non abbiamo più maestri, dobbiamo ricercare ovunque brandelli di verità, lacerti di idee, studiando con pazienza e oltrepassando ogni vecchio discrimine. Ripeteva Einstein che non si risolvono i problemi con le mentalità che li hanno creati. In questo senso, accettiamo la divisione proposta da Tarchi e ci proclamiamo conservatori. La chiave la fornisce Nikolay Berdjaev: il senso del conservatorismo non è ostacolare il movimento in alto o in avanti, ma fermare il moto all’indietro e verso il basso, il caos e il ritorno allo stato barbarico.
Bisogna crederci, però. Non possono esserci dubbi su quale posizione assumere e su quali battaglie intraprendere. Linguaggio politicamente corretto, cultura della cancellazione, gender, abortismo, distruzione della famiglia, negazione della legge naturale e della stessa biologia, privatizzazione e tecnicizzazione del mondo, perdita di libertà, eutanasia, transumanesimo – ossia vittoria dell’artificiale sull’umano e il naturale – ci paiono altrettanti balzi all’indietro e verso il basso, il lato oscuro del progresso denunciato anche da personalità insospettabili di conservatorismo come Michel Onfray, Jean Paul Michéa, Slavoj Zizek, prima di loro Christopher Lasch e Allan Bloom, in Italia Luca Ricolfi.
Non possiamo avere paura di questa “contaminazione”, che è il difficile, tortuoso percorso di convergenza tra chi lavora per l’uomo e chi agisce contro. Se ci guardiamo allo specchio, vediamo riflessa un’immagine che è il contrario del ritratto di Dorian Gray. Nel romanzo di Oscar Wilde, l’affascinante Dorian resta eternamente giovane, mentre il suo ritratto mostra i segni della decadenza fisica e della corruzione morale. L’immagine della modernità è accattivante, artificialmente attraente, perfetta. Ammalia, ma cela la realtà di un degrado profondo, un male di vivere angoscioso celato dalla corsa al successo, dalle dipendenze, dagli psicofarmaci, da una cosmetica sociale sempre meno creduta dal cuore dell’uomo, anche di chi crede al mito del progresso.
L’alternanza è senza alternativa, tra modalità del medesimo spartito, eseguito in distinti tempi musicali, andante, veloce o lento. All’interno del sistema – liberista in economia e finanza, libertino nei costumi, libertario senza libertà – è ammessa soltanto qualche modesta variazione, pena l’espulsione dal cerchio magico.
Ciononostante, milioni di persone al sistema non credono più. Alcuni sono conservatori, altri progressisti, moltissimi inclassificabili. Guardano lo specchio e si accorgono che non riflette la realtà. Le luci del varietà, le musiche assordanti e il trucco pesante dei volti di milioni di Dorian Gray nascondono sempre meno l’agonia di una società che tende alla solitudine, al deserto, all’artificio. Lo specchio di Narciso riflette un ologramma al photoshop: giovani, belli, performanti, ma in maschera, vuoti, con l’ansia da prestazione, l’orrore della malattia e della morte.
Sazi e disperati, cioè privi di speranza, eppure progressisti. Rompiamo lo specchio e torniamo alla realtà: la vita è conservatrice, la morte non è mai un progresso.
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