Non so se sia una visione, un miraggio o un chiaro filo rosso. In ogni caso, ci sono motivi e illazioni che lasciano credere che l’apertura al negoziato di pace tra Russia e Ucraina, da pochi giorni affermata da Biden, veda nel rischio di un’autarchia americana il suo primo e più profondo movente. Un fatto storicamente unico e socialmente imperdonabile, ad eventuale carico dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Per scongiurarlo ci voleva un’idea. Eccola in forma di passaggi.
Questioni interne
Constatato l’elevato rischio di dover cedere il passo a Trump o ai Repubblicani, Biden ascolta la protesta di suoi connazionali e di 30 deputati Democratici, che manifestano contro l’assistenza in armamenti, intelligence, addestramenti e denaro agli ucraini. Il fine è quello di recuperare consensi in occasione delle imminenti elezioni di medio mandato.
Da qui, l’apertura americana al tavolo della pace con Putin.
Quindi, il pretesto del G20 – dei prossimi martedì 15 e mercoledì 16 novembre 2022 – per avviare concretamente l’intento annunciato.
La manfrina nucleare avrebbe termine e pure lo svenamento delle risorse sottratte ad un paese incredibilmente indebitato e povero.
La raccolta di consensi a favore dei Democratici sarebbe garantita. Cosa potrebbero fare per la loro causa?
Questioni esterne
L’Orso russo – ripresosi forse più velocemente del previsto dal tracollo sovietico o, addirittura, inaspettatamente – doveva essere demolito. La lungimirante strategia Nato, ricca di provocazioni nei confronti della Russia e avvallata dal sostanziale silenzio europeo, era andata in porto. Il mostro in forma di Putin aveva attaccato un paese sovrano. C’era tutto il necessario per porre fine alla partita. Vincerla era eliminare o sottomettere un potenziale rivale nei confronti dell’egemonia mondiale, rispetto alla quale gli americani ci avevano fatto il callo e ci vedevano la semplice realizzazione di quel destino manifesto (1), mandato divino che li impone alla guida del mondo.
A orso abbattuto, insieme all’Europa di Bruxelles e al Regno Unito, gli Usa avrebbero avuto forse le forze per ridurre la potenza cinese. Vero teatro nel quale la questione russa non era la protagonista.
Il costo del capitalismo cinese, realizzato con una politica – fino a ieri – improponibile da noi, non poteva essere contrastato da quello occidentale, assai più elevato.
Nello scontro economico con la Cina, gli americani, giustamente, non potevano non prendere in considerazione di finire alle corde. Il rischio di essere a loro volta dipendenti e sottomessi, nonché quello implicato di perdere l’egemonia mondiale, li ha obbligati a rivedere l’arroganza della propria politica estera, in particolare circa le relazioni con la Cina.
Revisione sempre più necessaria. La stessa creazione del G20, scaturita nel 1999 da un’idea americana e canadese, deve necessariamente essere letta anche come una mossa per mantenere il controllo della piramide mondiale. Un progetto legittimo e, a suo modo, ontologicamente americano. Bretton Woods, infatti, e il suo Fondo monetario internazionale (1945), con l’imposizione del dollaro quale moneta di riferimento degli scambi commerciali internazionali, era stato l’avo illuminato che aveva escogitato l’idea che fosse ora di fare qualcosa per mantenere le mani su un mondo non più naturalmente a disposizione, vista la minaccia del blocco di Varsavia. Quindi, la mossa durante la presidenza Nixon, che per lo stesso motivo egemonico aveva unilateralmente slegato la possibilità di stampare denaro dai depositi aurei. Mossa che ripudiava la politica di Bretton Woods, ma che, con identico travestimento, era destinata a mantenere il potere, a quel punto fortificato dalla pianificata economia sovietica, incapace di sostenere la partita internazionale.
La tecnologia e la comunicazione avevano reso contigui paesi fino allora estranei l’uno all’altro, nei confronti dei quali era opportuno avere strategie di gestione e relazione. In caso contrario, emergeva da sé il rischio di isolamento. Era meglio comandare che essere comandati. Le mani sull’Europa e i suoi mercati, impostate con la partecipazione alla Seconda guerra mondiale e ai relativi aiuti marshalliani a piene mani, non erano più la misura sufficiente.
Ma torniamo alla Cina. Questa, non a caso, ha soltanto spiritualmente appoggiato Putin, mentre contemporaneamente reiterava il concetto della multipolarità, con tanto di confuciane parole dedicate all’equilibrio del mondo. E, tanto per non essere equivocati, tutto senza recedere – anzi – di un passo dall’incremento dei suoi armamenti che, dicono gli esperti, siano ora al pari di quelli Usa.
Dunque, vista l’irriducibilità di Putin, resa possibile dalla sua consapevolezza che nella guerra mascherata da Ucraina c’era in ballo la sopravvivenza dell’identità e dello spirito russo, visto il supponibile fallimento di eliminarlo dalla scena e/o la probabile fedeltà dei suoi generali, i Repubblicani americani, la Cia e la Nato stanno facendo passare l’apertura americana ai negoziati come un gesto necessario per scongiurare la guerra nucleare. Sapevano che Putin, in forza di quella concezione metafisica dell’identità russa, se ancora provocato, non avrebbe rinunciato a spingere il bottone rosso.
Tuttavia, i probabili negoziati Russia/Usa di Bali non saranno affatto l’esordio del relativo processo di pace. Questo è in corso sottotraccia da tempo.
In quest’ottica, l’arretramento russo dalla regione di Kherson è possibile non corrisponda ad una questione militare, ma politica, già relativa all’intento pacificatorio.
Così ipotizzando, Kherson sarebbe dunque una concessione russa, in prospettiva di veder internazionalmente riconosciuti i suoi nuovi confini allargati dall’annessione delle Repubbliche di Lugansk, Donetsk e dell’ex oblast Crimea.
In questa supponibile prospettiva diplomatica occulta, si inserisce, come fosse ben lubrificata, la garanzia della confinante Finlandia, dedicata ad escludere la presenza sul suo territorio di armamenti nucleari Nato. Un carico al quale Putin non può che rispondere con una carta di pari valore. Magari e per esempio – problemi ucraini morali superati o compressi – con la ricostruzione di parte della distruzione realizzata in territorio ucraino. A fondo perduto.
Negli accordi di pace, le sanzioni alla Russia dovranno giocoforza essere annullate, affinché l’Europa possa riprendersi dal tafazziano suicidio per magistrale ipocrisia morale. Europa che avrà l’agio di riprendere libere relazioni commerciali e diplomatiche con la Russia, costretta però a garantire ancora l’appoggio agli americani e l’adesione alla Nato. Sempre che la Cina – con la Russia e, perché no, tutto il Brics in coro – non ne richieda ed ottenga lo scioglimento. Magari sotto una paventata minaccia di un qualche patto neovarsaviano alternativo.
Le recenti azioni, a dire russo, di stampo britannico – quali l’attentato al ponte di Kerch, quello recente alla flotta russa, l’approntamento di forze speciali di terra e, in particolare, la messa in avaria dei gasdotti baltici – qualora a Bali la storia prendesse una piega inclinata verso l’interruzione del conflitto armato, possono diventare ulteriori argomenti di parte russa al tavolo dei negoziati.
Le sanzioni dovranno essere sollevate per scongiurare un altro possibile inconveniente, la vendetta di Putin. Nonostante questi abbia sempre parlato di equilibrio mondiale e reciproco rispetto. Nonostante abbia, in qualche modo, dimostrato tolleranza nei confronti dell’avversa azione Nato, è meglio considerare latente quell’eventualità di nemesi. Desanzionarlo garantirebbe un margine maggiore di sicurezza specifica agli americani.
Nel frattempo, le sanzioni in essere, che hanno tramortito l’economia e la società europee – in particolare per il costo energetico – e che a loro volta verrebbero meno, sono un altro asso in mano a Putin.
Dopo lo scossone della guerra ucraina e l’apocrifa deriva individualista della Germania, l’Eu potrebbe rinsaldarsi, ridimensionando però le sue velleità, oggi più conclamate di ieri. Rimarrebbe un’entità commerciale, con il condiviso mandato solo per certa politica grossolana o di superficie. Il precedente tedesco, quando possibile, sarà evocato da altri Stati dell’Unione. Il guinzaglio con il quale Bruxelles teneva i suoi subalterni dovrebbe allungarsi. E così, anche su questo aspetto, la longa manus di Putin.
Globalmente
A questo punto, si potrebbe dire che, unendo puntini apparentemente lontani quali l’avvento del Brics, la mancata eliminazione, balcanizzazione, sottomissione della Russia, la questione dell’azzerata contrattualità dell’economia americana nei confronti di quella cinese, la connessa eventualità di una vergognosa autarchia americano-canadese, con tanto di relativi problemi sociali interni e, infine, il tentativo di contrastare Trump e la sua politica poco controllabile dalle lobby di potere e dallo stato profondo, l’eventualità del nuovo assetto multipolare o, quantomeno, bipolare, non sia una boutade da fantageopolitica.
Non è tutto. Non tutto fa capo soltanto al costo del capitalismo. È da considerare la ricchezza di materie prime e prodotti tecnologici cinesi, indispensabili agli Stati uniti. Nonché, come da Il mito americano e il sacrificio europeo, la vulnerabilità economica e strutturale americana – abilmente mascherata dalla propaganda, vero asso nella manica statunitense, anche in questa ultima guerra antirussa – che si esprime in brevetti rubati, in finanziamenti governativi e non delle Big Tech, in emanazioni di controllo quali internet e Google.
“Ogni volta che per qualche motivo gli Usa e le sue corporation sono state esposte alla concorrenza reale, sono scomparse o sopravvivono grazie ai sussidi o al protezionismo che non viene tuttavia tollerato altrove” (2).
Note
- Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli, 2004.
- Il mito americano e il sacrificio europeo.