Der Zeitgeist, lo spirito del tempo (ogni traduzione comporta uno scarto, un tradimento), s’impone e, simile al fato di antica e tragica origine greca, si rende negli uomini inesorabile destino. Anche loro malgrado. Non è casuale che una parte della cultura tedesca, riprendendo l’imperativo luterano del ‘los zum Rom!’, cercò le proprie affinità nel mondo ellenico e non nella tradizione latina. Solo un filosofo tedesco, il mio amico Nietzsche, pur con tutte le sue ruvide ed aspre critiche verso i suoi concittadini, poteva partorire ed esprimere il concetto dell’’Amor fati’… La ‘fortuna’ nella mentalità e nell’azione di Roma preserva un atto di libertà quale non si coglie là dove il senso tragico dell’esistenza ebbe inizio. Così Appio Claudio Cieco: ‘Faber est suae quisque fortunae’. Chi ha masticato di filosofia, come ebbe l’ardire il sottoscritto dietro la cattedra, sa bene quanto i Romani ‘pasticciarono’ nel tentativo di appropriarsi e fare proprio il pensiero greco, ad esempio traducendo il termine ‘fùsis’ con ‘natura’… Per pura analogia, si badi bene (‘Dio stramaledica gli inglesi!’, sempre), Roma e l’Inghilterra edificarono durevoli Imperi, conoscendo del linguaggio la sintesi, ed entrambi scoprendo come ‘navigare necesse, vivere non necesse’ (ritengo sia sufficiente aver dimostrato come sia io – ahahah! – ‘filologicamente’ colto!).
Devo ringraziare ‘Mercy’ per avermi dato lo spunto (da La mano di Gloria, pag.1065), l’invito a tirar giù dallo scaffale, faticoso prendere la scala, il libro di Thomas Mann Federico e la grande coalizione, con sottotitolo Un saggio adatto al giorno e all’ora, e legittimo al suo fianco trovo quel L’Antimachiavelli dello stesso Federico II (entrambi pubblicati da Edizioni Studio Tesi, il primo nel 1986 e il secondo nel 1987). Scrive, infatti, nella pagina citata: ‘… Federico il Grande concepì l’insieme delle sue armate come un meccanismo ben oliato i cui membri erano altrettanti componenti impersonali, meccanici, interdipendenti e messi al posto giusto con perfetta sincronia in modo tale da trarne il massimo dell’efficienza. In pratica l’atto di nascita del militarismo tedesco’.
(Città di Norimberga. Giriamo con Paola dalla stazione al Castello imperiale. In una stradina laterale un negozio di antiquariato con vetrina. Adocchio la croce di ferro di I Classe, guerra 1914-’18. Entriamo. Un portafrutta riproduce l’immagine del Kaiser Guglielmo II e di Francesco Giuseppe d’Asburgo. Zum grosse Zeit c’è scritto. L’acquistiamo. Poi, tornati in seconda battuta e conquistata la fiducia della proprietaria, una vecchia signora stile naif, le chiediamo oggetti del Terzo Reich. Con mille precauzioni arriviamo ad avere le croci per le madri prolifere e il distintivo del congresso del 1934. Terra bruciata sui vinti, la potenza di fuoco poi l’annientamento delle coscienze…).
Thomas Mann scrive il suo saggio, breve di appena 70 pagine, tra il mese di settembre e quello di dicembre del 1914, quando cioè la guerra era da poco iniziata. Colto da un immediato e profondo sentimento verso la Germania che ha rappresentato e rappresenta un motivo di equilibrio tra l’Occidente con le sue profonde radici latine e quell’Oriente slavo con le tentazioni che giungono misteriose da oltre la catena degli Urali. Di più: nella Germania sono andati delineandosi ideali di un umanesimo morale ed intellettuale, una sorta di rinascenza a valore europeo, di patrimonio collettivo (la musica di Wagner, la filosofia di Schopenhauer e di Nietzsche e, ancor prima, il modello classico di Goethe). Questo è il destino tedesco, realizzare la missione affidata al suo popolo e, se non tramite l’egemonia politica, di certo spirituale. Appunto del Zeitgeist.
Dove trovare le analogie la legittimazione di questo assunto nel momento in cui, fraintendimento secondo lo scrittore, quei popoli che pure s’erano nutriti della cultura germanica ora le si rivoltano contro, puntano il dito accusatore, la ricoprono di nefandezze, prendono le armi e le volgono contro? Ripercorrere le tappe della storia e… trovare il confronto in Federico II, re di Prussia, nelle sue guerre e, soprattutto, in quella dei Sette Anni (1756-1763). La Grande Coalizione, la zarina Elisabetta offesa per essere stata schernita a causa di ‘qualche innocente passioncella’, così la definiva con finto garbo, mentre si rodeva il fegato per essere stata trattata da puttana (vero, certo, ma non è gradevole ed elegante sentirselo dire); l’imperatrice Maria Teresa d’Austria che si lagnava e piangeva ogni volta che ripensava alla Slesia di cui s’era dovuta privare con le armi, circa quindici anni prima; il re di Francia, Luigi XV, descritto come ‘bigotto e indolente’, si lasciò irretire dalla nuora, gettatasi ai suoi piedi perché lavasse l’offesa arrecata alla madre, regina di Polonia (la nota misoginia di Federico si sposava con le azzardate scelte diplomatiche e belliche). E, poi, piccoli e meno piccoli stati tutti preoccupati dall’aggressività del re di Prussia.
Contro il parere di parenti e generali (‘Voler strappare la vittoria a chi è più forte di noi, significa sfidare la Provvidenza e volere a tutti i costi la propria rovina!’, lo ammonirono i fratelli Enrico e Ferdinando), a cui contrappose l’ironia, invitandoli a restarsene a casa, se avevano paura, Federico II decise di invadere la Sassonia, paese formalmente neutrale (l’analogia con il Belgio invaso, le accuse false verso orrori compiuti dai tedeschi – ad esempio il taglio delle mani ai bambini belgi con la lama affilata delle zappe per scavare le trincee -, attirarono su Thomas Mann ulteriori dissenso e critica). Rompere gli indugi, darsi alla battaglia… di un sovrano che tutto sembrava indirizzare ad un modello di armonia, arte, filosofia, musica, di gusti raffinati e forse anche troppo delicati. Basterà ricordare come giovane principe di diciotto anni tentò la fuga dalla troppo ferrea educazione militare impostagli dal padre Federico Guglielmo I, detto il re Sergente, e, ripreso in un villaggio presso Mannheim, fu accusato di diserzione e rinchiuso nella fortezza di Kuestrin. Non potendo essere eseguita la conseguente condanna a morte in quanto erede al trono, venne obbligato ad assistere alla fucilazione dell’amico (?) von Katte, che aveva condiviso con lui il maldestro tentativo di fuga. Per l’emozione, il raccapriccio, il dolore svenne…
Ecco l’analogia tra il sovrano del Settecento che diede alla Prussia il ruolo di grande potenza nel concerto europeo e premessa dell’unificazione tedesca e la Germania del Secondo Impero che, sfidando le grandi potenze d’inizio Novecento (le medesime d’allora più l’Inghilterra), era scesa in armi per non sottrarsi, non potendo eludere lo ‘spirito del tempo’. Nelle ultime righe del suo saggio Mann scrive: ‘Egli pensava ad ogni modo di essersi sacrificato: nella giovinezza per il padre e nella maturità per lo Stato. Ma sbagliava se pensava che sarebbe stato libero di agire diversamente. Era una vittima. Doveva agire ingiustamente e vivere contrariamente al pensiero; non gli fu concesso d’essere un filosofo, ma dovette fare il re, perché un grande popolo compisse la sua missione nel mondo’…
(Sono stato al cinema Quattro Fontane, alla prima, quando venne proiettato il film La caduta. Esso trattava, credo sia noto a tutti, degli ultimi giorni di Hitler, chiuso nel bunker di Berlino e prigioniero dell’imminente e apocalittico crepuscolo wagneriano. Fuori, fra le macerie, alcune migliaia di giovanissimi della Volksturm e soldati francesi e scandinavi delle Waffen SS oppongono l’estrema ed inutile resistenza alle orde asiatiche dell’Armata Rossa. Negli scantinati, in rifugi di fortuna, le donne tedesche si preparano all’avvento della pace segnato dallo stupro e dal saccheggio. E’ la finis Europae, di quell’Europa che ha perso definitivamente il suo ruolo espansivo e determinante l’accadere storico. Per dirla con Nietzsche il ‘crepuscolo degli idoli’, il crollo del sistema illusorio di valori di fronte all’età del nichilismo… E, sotto un quadro raffigurante proprio il sovrano di Prussia, il Fuehrer si sottrae alla cattura allo scempio alla lordura delle mani sovietiche con un colpo di pistola. Anche qui il destino s’è imposto per negare quell’impero dei mille anni di cui non sappiamo quale sarebbe stato l’esito ma, chissà, migliore di questo malo presente).
‘Ich bin der erste Diener meines Staates’ (essere il primo servitore del proprio stato), diceva di sé Federico. Retorica? O sentimento profondo connaturato di quel senso del dovere di cui, pochi anni dopo, il filosofo di Koenigsberg, Immanuel Kant, si farà interprete con la Critica della Ragion pratica? Scriverà l’altro grande filosofo tedesco, macigno dell’Idealismo e con il quale si torna costantemente a fare i conti, Hegel: ‘lo Stato è l’ingresso di Dio nel mondo’ (der Gang Gottes in der Welt). Gli farà eco il nostro Giovanni Gentile quando scrive come ‘lo stato è dentro di noi stessi: matura vive e deve vivere e crescere e grandeggiare ed elevarsi sempre in dignità e coscienza di sé e degli alti suoi doveri e dei grandi fini a cui è chiamato, nella nostra volontà nel nostro pensiero nella nostra passione’. (Dal secondo punto programmatico della Falange: ‘La Spagna è una unità di destino nell’universale’).
Ecco perché ci appaiono tanto miseri, piccini, grigi, insignificanti – e proprio in questi giorni ne abbiamo avuto ennesima riprova – gli uomini che si affannano a mostrarsi in televisione quali espressione della classe politica e italiana ed europea. Con loro l’ammonimento dell’essere distanti, lasciare la presa… Se questi sono i volti dello Zeitgeist, di questo presente plebeo, noi ‘riponiamo la nostra causa sul Nulla’…
Dove il Nulla è la nostra libertà irriverente di stare comunque in piedi fra le rovine e, ricordando proprio quanto cantavano i granatieri del re di Prussia, saremo in marcia perché, sì, il nostro destino è combattere.
Mario Michele Merlino
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