Un caro amico si lamenta spesso delle sciocchezze, delle falsità e della povertà di linguaggio della televisione. Più volte gli abbiamo infruttuosamente consigliato di evitare come la peste certe trasmissioni e reti, badando a non eccedere la modica quantità di telegiornali: massimo uno al dì, limitato alla sintesi iniziale. Attenendoci personalmente a questa regola, abbiamo notato un netto miglioramento dell’umore. All’amico abbiamo proposto, se proprio non può fare a meno del teleschermo, di dedicarsi alle televendite. Chi le tiene vende qualcosa a prezzo ragionevole. Conosce il prodotto che tratta e cerca solo di guadagnarsi la pagnotta.
Molto diversa è la condizione dei giornalisti e degli opinionisti, quest’ultima una professione che non necessita di abilità o studi particolari e non richiede l’iscrizione ad albi corporativi, solo faccia tosta e capacità di “bucare” lo schermo. Molti, acrobati della parola, spaziano disinvolti da un argomento all’altro, sempre accompagnati dalla sicumera di chi non conosce vergogna. Assomigliano a certi tipi che, davanti a un bicchiere, risolvono i problemi economici, vincono guerre e propongono infallibili programmi di governo. Nei momenti liberi, suggeriscono tattiche vincenti all’allenatore della squadra del cuore e individuano rimedi per i mali del mondo. Unica differenza rispetto ai professionisti: lo fanno gratis.
Quanto ai giornalisti, è troppo generosa la definizione di Lord Northcliffe, fondatore ed editore di quotidiani, secondo cui si tratta del mestiere di spiegare ciò che non si sa o non si è capito. Intriga la confessione di Mark Twain, che affermava di aver odiato diventare giornalista, ma che non aveva trovato un lavoro onesto. La professione di informare è nobile, importantissima, pericolosa. Chi la esercita seriamente va stimato per dirittura e coraggio. La realtà è diversa e una parte rilevante della categoria brilla per conformismo, servilismo, pressapochismo. Tira, come diceva Carducci dei manzoniani, quattro paghe per il lesso. Tiene famiglia, insomma, e non pochi vivono nell’agio diffondendo panzane o ripetendo quel che vuole il padrone. Editore, politico, investitore pubblicitario, potente economico o finanziario: a scelta, secondo possibilità e momento.
Quel che colpisce, e diventa spirito del tempo, è l’ignoranza soddisfatta, la supponenza, l’incapacità e spesso l’indifferenza verso la conoscenza, ossia verso la verità, quando non l’aperta menzogna. Capita a tutti di ascoltare servizi o leggere articoli su argomenti o questioni che conosciamo: sempre, restiamo stupiti dalla superficialità, dall’indifferenza per l’approfondimento, la sbrigatività nel tranciare giudizi. Tuttavia, non è prerogativa dei soli opinionisti, influencer, giornalisti e gazzettieri. Purtroppo viviamo al tempo degli analfabeti loquaci. In parte, è una necessità del presente: troppa complessità, enorme il divario tra la nostra capacità intellettuale e la massa di informazioni e conoscenze – gran parte delle quali del tutto nuove – della contemporaneità. Lo rilevò Konrad Lorenz ne Il declino dell’uomo, un titolo che è un giudizio. L’ uomo moderno non è in più grado di formarsi seriamente opinioni – o convinzioni – proprie, inseguito, accerchiato com’ è da una mole spropositata di notizie, saperi, conoscenze. E’ costretto ad affidarsi a giudizi precostitutiti, idee altrui.
Avrebbe quindi necessità, più delle generazioni passate, di discernimento, di conoscere significati e risvolti delle parole che ascolta e usa, ricercare la verità, formarsi una cultura. Invece si affida al Bignami predisposto dal potere, simile al sistema delle FAQ – (frequently asked questions), le domande preconfezionate tanto diffuse su portali e siti Internet, a cui sono fornite risposte di serie, che rifuggono l’approfondimento e le sfumature. L’analfabetismo loquace è questo: ignorare la complessità, i dettagli, le sottigliezze, le distinzioni, ripetendo a vanvera luoghi comuni. Aumentano quotidianamente divieti, dogmi, opinioni obbligatorie, tabù da non infrangere. Soprattutto, è vietato fare distinzioni.
Distinguere è diventato sinonimo di discriminare, l’interdetto assoluto. Ma l’uomo ha bisogno di distinguere per esprimere giudizi, prendere posizione, scegliere, in definitiva per pensare. Avanza un analfabetismo fatto della riduzione del vocabolario a poche centinaia di termini, sempre gli stessi, buoni per ogni occasione. In parte, è la conseguenza di un’era in cui impera la velocità, l’immediatezza, il “tempo reale”. La rapidità nel comunicare, diffondere dati, lanciare notizie, rende impossibile non solo approfondire, ma selezionare parole e toni. Diventa anacronistico (cioè fuori dal tempo…) riflettere, esercitare il pensiero, andare alla ricerca, nel bagaglio di cultura ed esperienza personale, di termini, criteri e principi a cui attenersi, in base ai quali esprimere giudizi di merito.
Sono già lì, belle pronte, tutte le risposte, le versioni ufficiali, diffuse dall’ apparato di comunicazione e intrattenimento, massimo responsabile dell’analfabetismo di ritorno da cui siamo sopraffatti. Il ministero dell’educazione francese è in gravi difficoltà ad arruolare insegnanti. I candidati ignorano la lingua francese, spesso la grammatica e l’ortografia. Non comprendono le domande poste dagli esaminatori, quindi non sono in grado di rispondere. Gli insegnanti di matematica non sono capaci di eseguire i calcoli e applicare le formule che dovrebbero trasmettere agli allievi.
Gli analfabeti di ritorno sono loquaci in quanto convinti di padroneggiare una conoscenza – cultura è parola grossa – sempre più limitata e specialistica, che sembra fornire loro speciali diritti a strologare su qualsiasi argomento. Lo specialismo è l’istruzione settoriale, strumentale del cosiddetto esperto, un soggetto che finisce per sapere tutto su nulla, tanto piccolo è il suo angolino di conoscenza. Il problema – in una società complessa – è che si finisce per ignorare qual è il nostro posto nella catena sociale e perfino che la catena esiste.
Viene ignorata la trasmissione del sapere, eccetto il campo limitato di ciò che riguarda il nostro mestiere o professione. Si parla di cultura della cancellazione, ma è un ossimoro: non vi è cultura senza trasmissione, relazione tra passato e presente. L’analfabetismo raggiunge così i più alti livelli, ammantato di larghezza di vedute, tolleranza e rispetto. In Inghilterra le istituzioni universitarie invitano (ossia obbligano) a non usare la parola Natale, da sostituire con la tortuosa locuzione “festività di fine anno”. Nessun accenno al perché si fa(ceva) festa, al peso, alla storia delle parole. In inglese Christmas è molto chiaro: resta solo la foga di cancellare se stessi, la vergogna di ciò che si è.
Non era così in passato, quando almeno si sapeva di non sapere e si aveva l’umiltà di ascoltare. Oggi un’arrogante ignoranza disprezza ogni approfondimento, rifiuta il confronto, si esprime per luoghi comuni con i termini orecchiati nel linguaggio disincarnato della sottocultura di massa. Il modello preferito è Twitter: centoquaranta battute al massimo, spazi compresi. Di qui l’incomprensione reciproca, l’assertività obbligata, la preferenza per concetti banali, stereotipati, o, al contrario, l’ingiuria e la menzogna sfrontata. Parliamo per slogan senza interesse per la verità: calano dall’alto le parole d’ordine, gli analfabeti loquaci le ripetono stupiti che qualcuno non sia d’accordo, usi altri linguaggi, risponda a criteri, significati e principi che non essi capiscono poiché ignorano le parole e i costrutti mentali con cui sono formulati.
Lo intuì George Orwell: in 1984 il Ministero della Verità, oltre a capovolgere i significati, lavora alla cancellazione del vocabolario. Chi non conosce le parole, non possiede più il pensiero. Il ragionamento non riesce più a esprimere un’opposizione, elaborare critiche (cioè giudizi) e neppure manifestare un consenso ragionato.
Forse oggi non sarebbe possibile un romanzo come La versione di Barney, che pure è del 1997. Barney Panofsky, produttore televisivo di successo, decide di scrivere la sua autobiografia per liberarsi da una vecchia accusa di omicidio. Elabora cioè la ”versione” della sua stessa vita, l’interpretazione di ciò che ha fatto e di quello che è. Nel mondo dal linguaggio distorto e impoverito, esiste la versione unica, da credere e ripetere con i medesimi termini, declinati al presente, con cui ci è stata fornita. La nostra loquacità è tutta al presente, vive nell’istante; ignora il passato e non si cura del futuro.
Soprattutto, evita di meditare. Per questo è in declino la filosofia, esercizio del pensare, porre domande diverse dalle FAQ, cercare risposte, rintracciare significati. In più, la filosofia ha il torto di “non servire”, quindi è disprezzata dall’homo consumens; inoltre utilizza e inventa molte parole, i “significanti”, ciascuno diverso dall’altro, per esprimere compiutamente distinti stati d’animo, idee, sensibilità, risvolti e sfumature, che hanno bisogno di un lessico ricco e preciso. L’odierna ignoranza soddisfatta predilige la risposta rapida – Quick response, QR, il codice digitale simile a una macchia.
Di riduzione in riduzione, domina l’abstract, il compendio semplificatorio. Perché leggere l’Amleto o la Divina Commedia? Meglio un riassunto, possibilmente entro le centoquaranta battute di un “cinguettio”. La prova? Ecco un tweet sui Promessi Sposi: “il matrimonio di una coppia etero di contadini è avversato da un nobile. Nonostante guai e peste, alla fine si sposano.” Tutti abbiamo fretta, ma non si impara né si comprende se non con pazienza e costanza. Molti contenuti in rete, anche su temi complessi, hanno in epigrafe il tempo di lettura, quasi le scuse preventive per far “perdere tempo” al lettore.
Perdere tempo, ecco un mantra contemporaneo: l’analfabeta ha sempre fretta, non può essere importunato con complicazioni, riflessioni, pensieri diversi dall’attimo. Egli sa già tutto quello che “serve”, per il resto c’è lo smartphone, la persona elettronica che lo ha sostituito. Basta una ricerca su Google – rigorosamente limitata alla prima pagina – ed ecco la soluzione, la conoscenza illimitata. Il nome del colosso di Mountain View deriva da Googol, termine che indica un numero pari a dieci alla centesima potenza, la cifra corrispondente a uno seguito da cento zeri. Chi se ne frega, ciò che conta è che, con un tocco sullo schermo, saprò qualsiasi cosa mi interessi, risolverò ogni problema, con un tempo di risposta (il nuovo significato di “latenza”) pressoché impercettibile.
Pazienza se non uso più la memoria, se non ragiono, se non cerco più, nei file dell’intelletto, le risposte alle domande e tantomeno impegno la riflessione, stimolo la ricerca, il pensiero meditante, cioè giudicante. Non è per caso che l’homo sapiens occidentale sta perdendo intelligenza: diminuisce il nostro Q.I. di circa mezzo punto all’anno. Diventiamo più stupidi e più ignoranti, allo stesso ritmo con cui dimentichiamo parole e concetti e non sappiamo più esprimere la complessità dell’animo.
Non perdiamo però nulla in supponenza e loquacità, supportate da una credulità inversamente proporzionale alla conoscenza. Detestiamo i maestri e più ancora chi esprime dubbi sulla “versione di Barney” obbligatoria. Siamo tornati alla caverna di Platone, ombre scambiate per realtà. Sconcerta la convinzione di avere capito tutto, di vivere in un progresso continuo, il fastidio rancoroso con cui viene accolta qualsiasi obiezione o richiesta di spiegazione. Peggio ancora se si cerca di esprimere un concetto estraneo che revoca in dubbio certezze mai discusse nel foro interiore.
Correggi un saggio, recita un proverbio orientale, e questi diventerà più saggio. Correggi uno sciocco, e ti farai un nemico. Nulla è più terribile di un’ignoranza attiva, scriveva Goethe. Ed esibizionista, aggiungiamo noi. Si addice agli analfabeti loquaci una frase di Abramo Lincoln: meglio tacere e dare l’impressione di essere stupidi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio.
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