Abstract
Le più antiche disposizioni in materia marittima si ritrovano nelle raccolte di leggi mesopotamiche, la più importante delle quali è il codice di Hammurabi (1754-1750 a.C). In questo vi sono degli articoli che si occupano della utilizzazione della nave e che descrivono la figura del “battelliere”, attuando una codificazione, per la prima volta, di regole sostanziali in tale materia. In ogni caso tutti gli ordinamenti antichi contengono regole sull’utilizzazione delle navi. Purtroppo abbiamo poche tracce delle leggi fenicie, dato che la navigazione era regolata principalmente da norme di tipo consuetudinario. Secondo il Dauvillier il diritto marittimo fenicio fu recepito nei due corpi di leggi ebraiche, il Talmud di Gerusalemme ed il Talmud di Babilonia, rinvenendo, pertanto, in questi testi una considerevole quantità di regole di derivazione fenicia in tema di diritto marittimo. In particolare, deve essere attribuito ai Fenici il merito di essere stati i primi a teorizzare e a statuire in materia di avaria comune, disciplinando peculiarmente il reparto della perdita comune, in ragione del peso del carico, in diretta e specifica relazione a quello che era il criterio del pagamento del noleggio.
Il testo si articola nei seguenti punti:
- Diritti dell’Oriente Mediterraneo – La teoria istituzionale
- I trasporti marittimi nel Vicino Oriente Antico e in Fenicia (cenni)
- Il diritto marittimo fenicio
- Conclusioni
I Fenici – Il diritto marittimo
Diritti dell’Oriente Mediterraneo – La teoria istituzionale
La teoria istituzionale postula che il diritto si identifica con la società organizzata, ossia con l’istituzione[1]. Questa dottrina pone in evidenza il fatto che non possa esistere diritto al di fuori di una organizzazione, di una società organizzata. Santi Romano, il più eminente tra i teorici istituzionalisti, sostiene che il diritto non è un prodotto sociale, perché è nella necessità che trova il fondamento. Cosicché, l’istituzione non produce diritto, ma è essa stessa diritto. Le istituzioni derivano dalla necessità di organizzare un insieme di bisogni e di esigenze sociali in maniera autonoma. Il Santi Romano pone a fondamento del concetto di istituzione gli aforismi ubi societas ibi ius e ubi ius ibi societas, intendendo affermare che non è ammissibile una società senza diritto, ovvero senza organizzazione[2].
La profonda intuizione di Santi Romano è stata confermata dagli archeologi, i quali hanno accertato che le prime tracce di diritto risalgono alla prima civiltà umana sviluppata in Mesopotamia. I Diritti dell’Oriente Mediterraneo rappresentano la mentalità giuridica delle popolazioni, per lo più d’origine composita, stanziate nell’area geografica oggi definita Asia anteriore antica. Le raccolte giunte sino a noi rivelano però la mancanza di un’attività volta ad un processo d’astrazione che, movendo dall’individuazione di fattispecie concrete, giunga all’enunciazione di una norma astratta valevole per altrettanti casi dalle medesime caratteristiche. Il più noto delle raccolte legislative mesopotamiche è il Codice di Hammurabi risalente al XVIII secolo a.C.. Questo però non è affatto il primo codice di leggi della Mesopotamia: il re babilonese, nel redigerlo, si era riferito ad una tradizione plurisecolare le cui radici affondano nel mondo sumerico della fine del terzo millennio a.C.. Il più antico codice sumero (in realtà, una raccolta di leggi), è quello di Ur-Nammu, fondatore della III dinastia di Ur, che regnò dal 2113 al 2096 a.C. sul paese di Sumer e di Akkad. Il testo è sumero. Un altro codice è quello di Lipit-Ishtar[3], re di Isin, che governò dal 1934 al 1924 a.C. su un vasto territorio comprendente anche le città di Nippur, Ur, Uruk ed Eridu. In questo ultimo periodo, l’egemonia sumera è terminata ed i semiti stanno avendo il sopravvento, ma il Codice è redatto ancora in sumero.
Come sopra detto, il Codice Hammurabi è il testo antico più noto tra i codici primitivi dell’umanità. Le XII Tavole sono di circa 13 secoli successive. Di un millennio almeno, sono più recenti gli altri Codici dell’evo antico: la legge di Manu (XI secolo a.C., secondo i moderni indianisti), il Codice della Cina (XI secolo), la leggendaria legislazione di Licurgo (VIII secolo a.C.), le leggi di Zaleuco, Caronda, Dracone, Solone (VII secolo a.C.), la legge di Gortina (V secolo a.C.): soltanto la legge di Mosè sarebbe non più di cinque secoli posteriore. Nondimeno questa legge di Hammurabi non è primitiva se non per la data.
Il Codice di Hammurabi contiene anche numerose disposizioni in materia di diritto marittimo[4] necessarie per gli scambi commerciali tra la Mesopotamia e l’Asia occidentale[5] .
I trasporti marittimi nel Vicino Oriente Antico e in Fenicia – cenni
Le vie di comunicazione marine hanno costituito da sempre fattori di importanza vitale e strategica nello sviluppo sociale ed economico dei popoli del Mediterraneo, a tal punto da poter affermare che la storia della civiltà coincida con l’evoluzione dei trasporti marittimi.
L’innovazione costante dei mezzi di trasporto marittimo, intesa come progresso dell’architettura navale e dell’arte della navigazione, ha segnato le sorti degli scambi commerciali e l’espansione dei primi mercati di sbocco, consentendo la cooperazione politico-economica e l’intensificarsi dei rapporti di conoscenza multiculturale tra popoli di etnia, idioma e costumi diversi. Se la specializzazione delle attività produttive nel bacino mediterraneo ha avuto luogo è stato proprio grazie all’attività mercantile di fenici e greci, prima nell’Egeo e, poi, estesa a tutto il Mare Nostrum; attività successivamente migliorata dai romani nel processo di evoluzione economica globale attraverso un utilizzo più efficace delle risorse naturali, un’ulteriore specializzazione delle navi rispetto alla tipologia di carico e le tecniche per la conservazione, il maneggio e lo stivaggio delle mercanzie.
Le prime rudimentali forme di imbarcazioni con cui i mesopotamici navigarono lungo il Tigri e l’Eufrate erano denominate “qufa” e avevano forma circolare, come attestano alcuni bassorilievi assiro-babilonesi[6]. Anche la così detta “kalek” veniva usata da quelle popolazioni per la navigazione fluviale e la sua caratteristica fu quella di essere dotata dei primi parabordi, fatti di otri di pelli animali gonfi per difendere la zattera dalle discese ripide e dagli urti.
Le prime testimonianze sulla costruzione di vere e proprie imbarcazioni ci vengono tramandate in forma pittorica dagli egizi e risalgono al IV millennio a.C. Prive di chiglia, le imbarcazioni egizie passarono dagli scafi in papiro a quelli in legno intorno al 2700 a.C. ed avevano già un’ossatura lignea che veniva ricoperta da fasciame in giunchi o in tavole di legno incastrate, di buona capienza e adattate al trasporto di capi di bestiame e blocchi di pietra. Erano equipaggiate con doppio albero su cui venivano inserite vele ammainabili per mezzo di carrucole e, in caso di vento avverso, di remi disposti sugli scalmi per facilitare la vogata che, disposti anche a poppa, fungevano da timone.
Intorno al XI sec. a.C. i Fenici sostituirono gli Egizi nel traffico nel mar Egeo. Questo popolo rivoluzionò l’architettura navale ed infrastrutturale del tempo: migliorarono la tecnica di calafataggio[7], introdussero la chiglia per rafforzare lo scafo longitudinalmente e le costole su cui si poterono meglio fissare i corsi di fasciame, idearono anche il sistema portuale di Sidone (distinto in porto interno, ed esterno per consentire comunque l’ormeggio in almeno uno di essi, a seconda della direzione dei venti e della politica) e i bacini di carenaggio; le loro tonde navi muovevano a vela oppure per tramite di due file di remi ed erano dotate di sperone prodiero per sfondare eventuali navi avversarie, le stesse navi che i Greci ricordano coi nomi di “gauloi”, per la loro forma a vasca, e “hippos” per via delle sculture di cavalli sulle fiancate.
Un relitto risalente al XIV ritrovato al largo di Capo Chelidonia[8] in Turchia aiuta a comprendere i progressi fatti dalla cantieristica navale Cananea-Fenicia con l’introduzione del concetto di nave “chiodata” (in quanto il fasciame veniva fissato con dei cavicchi di legno e poi impermeabilizzato), piuttosto che “giuntata” per mezzo di cuciture in cordame di canapa fatte passare attraverso appositi fori ricavati nei corsi di fasciame. Inoltre i reperti portati alla luce dall’archeologia subacquea forniscono ulteriori dati sull’entità del commercio non solo di vino, olio e di ceramica, ma di rame e stagno destinato a uso bellico e fusi in pani di 25 kg circa.
Il diritto marittimo fenicio
Per il popolo fenicio, ai fini di una adeguata ricostruzione storica, a differenza della civiltà degli Egizi e dei Babilonesi, non ci si può avvalere né dell’ausilio direttamente fornito dalla testimonianza degli antichi monumenti grafici orientali, né del congruo apporto della storia della loro regione. La particolare strutturazione fisico- morfologica della costa della Siria costituita da una angusta striscia di terra su cui incombono la catena dei monti del Libano, annullando praticamente l’intera superficie del suolo coltivabile, permette soltanto ipotesi sul comportamento dei suoi abitatori: l’indirizzarsi e spingersi verso il mare per sviluppare il proprio e tipico modo di vita. A tal proposito esistono testimonianze nella Bibbia[9] e riferimenti nei poemi omerici[10], che presentano i Fenici nel ruolo di navigatori di consumata esperienza.
Al fine di delineare un breve quadro del traffico marittimo svolto dai navigatori fenici, è utile rilevare che le loro prime imprese furono compiute verso le antistanti sponde dell’Egitto e verso l’isola di Cipro. Le relazioni con la costa greca si stabilirono più tardi. Pare che la navigazione fenicia in Occidente si sia mantenuta, sul solco segnato dai navigatori egiziani, lungo la costa dell’Africa settentrionale. Ma si ritiene che tali traguardi fossero stati superati, i Fenici, dopo aver toccato la Cirenaica, guadagnarono il territorio ove fu fondata, in processo di tempo, Cartagine. Inoltre, i commercianti di questo popolo si spinsero su Malta, sulla Sicilia e sulla Sardegna utilizzando adeguatamente come basi di partenza quelle dislocate in Africa[11].
Venendo più propriamente al tema del diritto marittimo fenicio, occorre osservare che finora possediamo soltanto l’isolata affermazione di Strabone[12]. Secondo lo storico, i Cartaginesi affondavano sistematicamente le navi straniere che navigavano verso la Sardegna o nei dintorni delle Colonne d’Ercole, ritenendosi titolari esclusivi del diritto d’uso delle rotte marittime che essi stessi avevano per primi battuto, esercitando così un dominio completo ed incontrastato su tutto il mare d’Occidente. Tale fonte, comunque, si riferisce a Cartagine e in quanto tale non può essere senz’altro estesa alla civiltà della madrepatria.
Sintomo rivelatore della mancanza di fonti sul diritto di navigazione fenicio lo troviamo nella manualistica, italiana e straniera, del diritto marittimo[13] Tali testi, infatti, sono caratterizzati da un identico modulo espositivo: dei Fenici, pur essendo esperti navigatori e dominatori del traffico marittimo in tutto il Mediterraneo, non è rimasta storicamente nessuna traccia delle loro leggi.
Però Jean Dauvillier[14] ha condotto un notevole studio sul diritto marittimo fenicio. L’autore, pur avendo contezza che il documento e la critica costituiscono le uniche «vere fonti della storia, cioè i due elementi della sintesi storica»[15], cerca di evidenziare come i Fenici avessero acutamente elaborato un cospicuo nucleo di concetti giuridici originali e come gli stessi praticassero nel corso del primo millennio a.C. un diritto marittimo commerciale, che non ha certamente mancato di esercitare una decisiva e larga influenza sul mondo greco e — per mezzo di questo — sul mondo romano.
Il Dauvillier, nel suo studio, premette che gli scavi eseguiti ad Ugarit se da un lato hanno contribuito a portare alla luce i documenti del palazzo reale di questa città, recando notizie di indubbio interesse circa il diritto che vi si praticava, dall’altro non sono serviti a svelare nulla di particolarmente rilevante o che abbia qualche immediata o indiretta attinenza col diritto marittimo. Difatti, dalle tavolette reperite in Ugarit si deduce soltanto la conferma della storica e positiva esistenza di innumerevoli rapporti commerciali intrattenuti con l’isola di Creta.
Circa l’esistenza presso il popolo fenicio di disposizioni legislative e consuetudinarie in materia di diritto marittimo, il Dauvillier ha rinvenuto invece nel Talmud di Gerusalemme e nel Talmud di Babilonia[16] una considerevole quantità di regole di derivazione fenicia. Una tale influenza è spiegata dall’Autore dal fatto che gli Ebrei, intrattenendo una fitta serie di relazioni commerciali con i navigatori fenici, avrebbero fatto proprie le consuetudini di questi ultimi a tal punto da trasporle nei testi talmudici. Talvolta è fatto richiamo espresso “agli usi della gente di mare”, ossia alle regole vigenti presso alcune città fenicie. Di derivazione fenicia erano certamente gli istituti della vendita di nave, del noleggio e dell’avaria.
In merito all’avaria, nel Talmud di Gerusalemme si legge che se per resistere ad una tempesta un vascello ha dovuto lasciare le merci in mare, le perdite si ripartiscono in ragione del peso e non in ragione del valore. Allo stesso modo, il Talmud di Babilonia recita che qualora una nave che si trova in mare e minaccia di colare a picco viene alleggerita, la valutazione deve farsi in base al peso e non al valore, non apportando, con ciò, alcuna deroga all’usanza della gente di mare.
Secondo l’Autore, sarebbe inverosimile attribuire la concezione di simili norme giuridiche ai rabbini. Infatti giammai gli Ebrei sono stati un tipico popolo di marinai. Non si può negare la circostanza che il mondo ebraico abbia stretto costanti relazioni coi maggiori porti della Fenicia, in particolare con quelli di Tiro e di Sidone. Il che emerge agevolmente dal Talmud, ove è detto che gli Ebrei vi venivano per trattare grossi affari, lasciando però le avventure e i rischi del mare ai più esperti Fenici e Greci. Ma in qualche occasione essi noleggiavano una nave e addirittura diventavano armatori, associandosi fra di loro. In questa prospettiva, ben si inserisce la vicenda espressa in una decisione di un tribunale rabbinico dove fu sottoposta una delicata questione di diritto marittimo. I rabbini, nel caso concreto, applicarono la tipica regola talmudica che può essere così resa: «la legge della sovranità costituisce la legge» oppure «la legge del paese straniero è obbligatoria per gli Ebrei che vi risiedono». In tal modo, queste e molte altre norme giuridiche, attinte dalla Fenicia, penetrarono o furono sistematicamente recepite nel Talmud, nonostante fossero i rabbini a redigere o a coordinare le diverse parti dello stesso.
Inoltre, come non si può avere perplessità circa l’origine fenicia delle norme di diritto marittimo raccolte nel Talmud di Gerusalemme, del pari non si può che affermare la medesima provenienza delle molte altre che corrispondentemente si rintracciano nel Talmud di Babilonia.
Analogamente a quelle contenute nel Talmud di Gerusalemme, le regole del Talmud di Babilonia valgono a testimoniare la rapida e crescente diffusione e accoglimento del diritto marittimo-commerciale fenicio, nonché a mostrare la sua conoscenza ed estesa pratica presso la comunità dei Babilonesi. Infatti trattandosi di una vetusta e residuale raccolta di consuetudini, tipiche della gente di mare, esse non possono non riguardare da vicino altro che i navigatori fenici.
Il Dauvillier si sobbarca l’onere di una accorta sceverazione di ogni elemento spurio ed estraneo che si annidi nel diritto ebraico. L’Autore ha individuato ed isolato un nutrito contesto di norme di provenienza fenicia di pretta marca giuridico-marittima. Alcune norme, come sopra detto, vengono dal Talmud stesso esplicitamente e direttamente riconnesse “agli usi della gente di mare”, cioè vengono ricondotte sotto il peculiare suggello fenicio. Altre volte, la loro previsione normativa, risultando in stridente e insanabile contrasto con i principi basilari delle concezioni del diritto ebraico, postulava serrate e faticose giustificazioni da parte dei rabbini, nel tentativo di comporle armonicamente nelle linee sistematiche del proprio ordine giuridico. In tal modo, detto Autore è in grado di procedere ad una ricostruzione di alcune importanti norme del diritto marittimo, che erano state in vigore nelle diverse città fenicie, in Tiro e in Sidone, così vicine alla Palestina.
Appare ovvio che queste regole non sono state create nell’epoca della redazione dei citati Talmud, in quanto sarebbe stata più verosimile l’adozione delle norme marittime greche.
Non è possibile però determinare una data sufficientemente certa della loro epoca: con grande probabilità dovettero risalire a molti secoli addietro, e segnatamente al tempo in cui i Fenici, partiti dalla loro madrepatria, fondarono vasti empori e fiorenti colonie su tutte le coste meridionali del Mediterraneo, nonché sul litorale della Sardegna, della Sicilia e della Spagna.
In merito alle caratteristiche più salienti di alcuni importanti istituti giuridici risalenti alla Fenicia, l’Autore in primo luogo riporta le questioni in tema di vendita di navi e che vennero risolte alla stregua dei principi formulati dalla Mishnà[17], la cui redazione risale al 140 d.C. e che contiene le norme del diritto ebraico aventi forza di legge. La raccolta riportava due distinte sorte di vendita: questa tipologia non poteva con certezza essere stata elaborata ed introdotta dai giuristi ebraici, ma deve metter capo, a dire del Douvillier, al diritto fenicio.
Il primo tipo di vendita ha per oggetto la nave e tutto ciò che è necessario alla sua navigazione. Dispone la Mishnà che «colui che vende un battello vende nel contempo l’albero, la vela, l’ancora e ogni apparato».
La Mishnà inoltre precisa che il venditore, con l’atto di disposizione, non ha per ciò stesso ceduto gli schiavi, né quelli che erano al governo della nave, né gli schiavi personali, né i sacchi, né il carico. In definitiva, la nave è venduta con tutti i suoi apparati, ma senza equipaggio e carico.
Dal canto suo la Tóséphtà, che è una raccolta di pareri ebraici sempre in tema di vendita di navi, precisa che «colui che vende il battello vende pure la scala ed il serbatoio d’acqua del battello». In proposito, va osservato che la scala, cui fa espresso riferimento la Tóséphtà, si trova raffigurata in diversi dipinti ellenici, ed aveva il precipuo scopo di sbarco in terra, di discesa nella stiva, e di ascesa ai pennoni, come si può constatare esaminando il mosaico d’Althiburus[18], che rappresenta differenti varietà di navi esistenti all’epoca romana. In una raffigurazione si vede un marinaio che, salito sulla scala a pioli, è tutto impegnato a imbrogliare le vele. L’acqua potabile veniva spesso conservata in casse di legno intonacate all’interno con pece. Tali casse presentavano, peraltro, l’inconveniente che l’acqua non vi rimaneva a lungo potabile.
La cennata raccolta riporta altresì i puntuali termini di una interessante controversia che, in caso di vendita della nave, s’incentrava sul canotto ad essa pertinente.
Il secondo tipo di vendita ha, invece, ad oggetto la nave armata ed equipaggiata, compreso tutto il carico. È sempre la Mishnà, dispone: «Ma se egli (il venditore) gli (al compratore) ha dichiarato che gli vende la nave con tutto ciò che è dentro, allora tutto è venduto». Nella descritta ipotesi, il compratore acquista anche gli schiavi che erano di appartenenza del proprietario della nave, risultando così ceduti in una col bastimento. In buona sostanza, ricadeva nell’orbita del diretto oggetto di vendita, anche il materiale tecnico di esercizio, i sacchi di pelle atti a custodire il carico e il carico medesimo.
Stando strettamente al tenore della Mishnà, sarebbe altresì ipotizzabile un terzo e ben identificato tipo di vendita, le cui caratteristiche si sostanziavano nel fatto che la nave è venduta sì con gli apparati e l’equipaggio, ma senza il carico.
Come si può vedere, erano già tutti presenti in questo tipo di vendita i germi che porteranno più tardi la dottrina romana ad annoverare la nave nel genere categoriale delle res connexae.
Le disposizioni sopra citate, secondo il Dauvillier, riportano al diritto consuetudinario marittimo fenicio. Le navi fenicie si diversificavano secondo le dimensioni tecniche. Vi erano quelle di piccolo tonnellaggio, che venivano molto probabilmente adibite a viaggi lungo la costa, e i grandi bastimenti che venivano destinate alla navigazione alturiera. Queste recavano la significativa denominazione di “navi di Tarsîs”. I Fenici chiamavano più peculiarmente questi ultimi con la locuzione “gaul”, vale a dire rotondo, in evidente e diretta relazione con la loro forma geometrica. Si trattava, in definitiva, di massicci bastimenti, capaci di trasportare ingenti e voluminosi carichi. In un sarcofago risalente alla fine del I secolo o all’inizio del II secolo dopo Cristo[19], scoperto a Sidone, si trova raffigurata una tipica nave di Tarsîs, di cui è appunto parola nella Mishnà. Lo stesso tipo di nave si rinviene figurativamente rappresentato su una moneta di Babilonia al tempo di Eliogabalo[20].
In merito poi alle norme che disciplinarono il contratto di noleggio, i Fenici consideravano questo istituto, in armonica aderenza alla configurazione babilonese, come locazione di nave.
Da un rilevante numero di documenti commerciali emerge come i Fenici avessero chiaramente mutuata dai Babilonesi la nozione di noleggio. Una simile nozione si reperiva più tardi nel diritto greco, ove veniva accostata alla locazione di una casa.
Vanno tenute distinte due sorte di noleggio: il noleggio totale di una nave e il noleggio parziale. Nella prima ipotesi, che era quella che prevalentemente ricorreva nell’epoca in cui la maggior parte dei battelli erano di piccolo tonnellaggio, si noleggia un battello di una certa capacità ad un battelliere che pagherà il nolo per giorno utilizzato. Nella seconda ipotesi — cioè quella di noleggio parziale — il nolo veniva pagato a seconda della misura di capacità.
La Tóséphtà del Talmud di Gerusalemme descrive, parimenti, la distinzione sopra tracciata, e precisa che nella fattispecie di noleggio parziale siamo di fronte ad un noleggio di nave da parte di più persone. Insegna sempre il cennato testo che il nolo veniva determinato in base al peso delle merci e secondo il numero delle persone che avevano noleggiato la nave e non secondo il valore del carico. Inoltre il nolo era proporzionale al tragitto. Al riguardo si osserva che i Fenici ordinariamente non praticavano il noleggio ad valorem, ma secondo il peso del carico che veniva trasportato, mentre i Babilonesi per la relativa e stessa determinazione si rifacevano al criterio della capacità, cioè al volume del carico.
Talora in Fenicia veniva computato sul solo volume, come disponeva il sistema babilonese; il che avveniva per le merci di peso noto, quali erano i liquidi. Per le merci leggere, si aveva contestualmente riguardo sia al peso, sia al volume. Il nolo ad valorem ricorreva solo eccezionalmente per le merci preziose. Il prezzo del nolo poteva essere pagato prima o dopo il viaggio.
Un tale criterio era rilevante ai fini di una corretta applicazione della normativa sull’accollo dei rischi del mare.
Ad esempio, nel caso di un naufragio, se il caricatore aveva già pagato il nolo, non poteva utilmente ripeterlo. Nell’evenienza inversa, non era tenuto a versarla.
Occorre osservare che questa disciplina contrastava con il diritto ebraico, e i rabbini conseguentemente si adoperavano per non applicarla, introducendo appositamente alcune distinzioni o avanzando congetture.
Sempre secondo il Dauvillier, la norma dei fenici in parola riflette la partizione che segue: se il nolo era già stato pagato, si assumeva che il caricatore avesse voluto stipulare un contratto di noleggio, il quale sarebbe risultato integralmente eseguito dal momento in cui la nave era stata messa a sua disposizione. Per contro, se il caricatore intendeva pagare il nolo a viaggio interamente compiuto, voleva dire che egli aveva stabilito di porre in essere essenzialmente un contratto di trasporto la cui obbligazione principale sarebbe risultata estinta solo quando il carico fosse giunto al porto di destinazione. La prima forma di contratto accollava i rischi del mare al noleggiatore, la seconda all’armatore. Osserva il Dauvillier, che le due soluzioni formulate dai Fenici erano in antitesi con quella dal diritto romano, che, come è noto, prevedeva che nell’eventualità di un naufragio, il caricatore potesse in ogni caso reclamare il nolo, giacché l’obbligazione derivante dal contratto di trasporto sarebbe, nella ipotizzata vicenda, rimasta definitivamente insoddisfatta.
Altra norma interessante la troviamo espressa nel Talmud di Babilonia; la quale così recita: «se colui che ha noleggiato una nave la scarica a metà del tragitto, paga la metà del nolo ed il proprietario della nave non può pretendere di più». Dal testo si evince che al caricatore competeva la facoltà di rescindere il contratto a metà del viaggio, ove avesse trovato in uno scalo di un qualsivoglia porto la possibilità di vendere la sua merce ad un prezzo da lui reputato vantaggioso. Orbene, un siffatto potere di annullamento da esercitarsi in costanza di viaggio, rileva il Dauvilleir, doveva necessariamente postulare una navigazione per scali, come appunto praticavano i Fenici, i quali solevano rimpiazzare le merci con quelle del paese in cui vendevano le proprie.
Sempre in tema di noleggio e nell’ipotesi di naufragio, il Talmud di Babilonia riferisce una peculiare usanza locale: colui che noleggia una nave è obbligato, alla scadenza del contratto, a riconsegnarla o a pagarne l’intrinseco valore, nel caso che essa risulti rotta. Nota il Dauvillier che la menzionata usanza locale non fa altro che statuire a carico del noleggiatore una tipica ipotesi di responsabilità oggettiva. Siffatta regola, sempre secondo l’Autore, urta con la concezione del diritto ebraico, nonché con quella del diritto babilonese. Pertanto, egli dice, che si può trarre la conclusione che la stessa appartenga ad un uso fenicio. Difatti, le leggi babilonesi prevedevano una responsabilità soggettiva, che si fondava sulla colpa del battelliere della nave o del capitano, come ci è dato desumere dal Codice Sumerico di Lipit Ishstar: se qualcuno ha noleggiato un battello e se il battelliere per avventura non ha seguito la rotta preventivamente e consensualmente fissata, e causa la distruzione del timone sopra uno scoglio, questi dovrà indennizzarne il proprietario. Dal che si arguisce che la responsabilità veniva fondata sulla colpa, che nella specie era consistita nella violazione dell’obbligo contrattuale di tenere quella determinata rotta in luogo di altre.
Ugualmente, nel Codice accadico di Eshnunna [21] si legge che se colui è negligente e lascia affondare la nave, egli risponderà per tutto ciò che ha lasciato perire. Talché, in definitiva, in queste leggi la colpa si individua puntualmente nella negligenza. In altre parole, il noleggiatore era tenuto ad adottare, nell’esecuzione del contratto, quella che i giureconsulti romani avevano denominato diligentia.
È poi significativo il fatto che il Codice di Hammurabi riproduca le disposizioni contenute nelle leggi d’Esnunnak sopra illustrate. In particolare stabilisce che se un battelliere ha noleggiato un battello per poi, a sua volta, subnoleggiarlo per proprio conto, questi risponderà, se la nave va a picco, per sua negligenza. Di conseguenza, dovrà rifondere il proprietario del battello del suo integrale valore.
Sempre il Codice di Hammurabi contempla l’ipotesi in cui un commerciante che ha noleggiato un battello nonché l’opera e il servizio di un battelliere. Qui al noleggio della cosa — rileva il Dauvilleir — si unisce il contratto di servizi. Orbene, anche nell’ipotizzata vicenda, il battelliere se per sua disattenzione e, quindi, per sua negligenza, affondava la nave, doveva ristorare il proprietario del valore della nave e, ove anche il carico fosse andato perduto, doveva parimenti risarcire il proprietario del valore delle cose. In proposito, si legge nel Codice di Hammurabi di un contratto di locazione dove era disciplinata la regola relativa al prezzo, quantificato in mezza mina d’argento, coincidente con il valore della nave, per il risarcimento al proprietario del bastimento affondato in caso di contratto di noleggio con custodia. In un altro contratto si rinviene una clausola in forza della quale si sanciva che la nave doveva essere riportata alla banchina del suo proprietario in ottimo stato.
Esaminate dette fattispecie, il Dauvillier conclude che si deve rintracciare l’origine della responsabilità oggettiva non prima del diritto consuetudinario in vigore nei porti della Fenicia.
Maggiore interesse rivestono le conclusioni cui perviene l’Autore in tema d’avaria.
In proposito, il Talmud di Gerusalemme ha configurato la tipica ipotesi del getto delle mercanzie in mare effettuato per alleggerire una nave sotto l’incombenza di una tempesta. La cennata raccolta testualmente così si esprime: «Se nel resistere ad una tempesta un vascello ha dovuto lanciare le merci in mare, le perdite si ripartiscono in ragione del peso e non in ragione del valore». Tale norma trova altresì puntuale riscontro nel Talmud di Babilonia: «Se una nave che si trova in mare viene alleggerita per la minaccia di colare a picco, la valutazione deve farsi in base al peso e non in base al valore, e con ciò non viene apportata nessuna deroga all’usanze della gente di mare». Dunque, in entrambe le formulazioni, il contenuto normativo rimane lo stesso: nel caso di getto della mercanzia per la salvezza della nave è fatto obbligo di contribuire, poiché tale getto è avvenuto per la comune salvezza.
In merito, il Dauvillier mette in evidenza come la regola fenicia del nolo veniva computata alla stregua del peso della merce caricata. Si trattava di un principio coerente con le logiche di fondo di un sistema economico, quale era in effetti quello proprio del mondo fenicio, fondato su scambi equivalenti e alieno all’uso della moneta, ma che non consentiva, in realtà, un’equa ripartizione delle perdite.
Tale normativa può, però, considerarsi arretrata rispetto al sistema adottato nell’isola di Rodi, ove l’incidenza del pregiudizio economico veniva rapportata al valore di acquisto delle merci gettate e al prezzo di vendita del carico salvato[22].
Sostiene il Dauvillier, quindi, che le origini della norma da ultimo riprodotta non devono fondatamente rintracciarsi presso il popolo babilonese. Infatti, essa non è stata accolta in nessun testo legislativo ufficiale, né ha trovato concreta consacrazione in alcun atto commerciale posto in essere dai Babilonesi. Si deve poi considerare che la questione del getto non è stata mai posta relativamente alla navigazione fluviale, l’unica tipicamente praticata da questa popolazione. Perciò, conclude l’Autore, la norma in questione non può essere altro che una creazione dei Fenici.
Dopo una attenta esegesi del Talmud di Babilonia, lo Scrittore sostiene che presso i Fenici sarebbe stata praticata altresì una forma, in nuce, di assicurazione marittima. «Coloro che navigano — dispone testualmente il cennato Talmud — hanno la facoltà di sancire questa condizione: se la nave si spezza, se ne pagherà un’altra». Ma subito dopo vi è un’altra disposizione, che in parte chiarisce il contenuto normativo della prima: «Se per caso il capitano fosse andato in luogo ove le navi non devono andare, non lo si deve pagare» (il valore della nave). Da quanto precede si deduce che un embrionale strumento assicurativo sarebbe risultato operativo soltanto nella ipotesi in cui vi fosse stato da risarcire un danno non imputabile.
Secondo il pensiero di Stefano Gsell:[23] gli armatori antichi formarono fra di loro società che avevano anche il precipuo scopo di sopportare, in favore di tutti i partecipanti, il notevole danno economico derivante dalla perdita della nave, la quale, però, doveva essere non imputabile. Ugualmente, anche a Cartagine, come testimonia lo studioso, armatori e banchieri si unirono in società per contenere l’entità dei rischi insiti nel commercio marittimo e per potenziare inoltre i loro mezzi di azione. Talché, ci spiega sempre il Gsell, ogni operatore economico, pur partecipando a numerose intraprese economiche, messe in essere da siffatte società, non esponeva altro che una quota del suo capitale.
Conclusioni
La portata storica del diritto marittimo fenicio deve essere accortamente intesa oltre i termini di una semplice, meccanica e materiale ricezione degli schemi giuridici babilonesi, e di un loro piatto adeguamento all’esigenze immanenti alla navigazione dell’alto mare. Anche quando hanno preso in prestito dai Babilonesi alcune nozioni e regole, i Fenici le hanno sempre convenientemente plasmate e rese conformi alla loro tipica ed autonoma concezione giuridica, elaborando caratteristicamente concetti giuridici originali. In proposito, basti citare l’esempio costituito dal prezzo del noleggio che dai Fenici veniva computato non sulla capacità, come invece solevano fare i Babilonesi, ma secondo il peso del carico. Inoltre, deve essere attribuito ai Fenici il merito di essere stati i primi a teorizzare e a statuire in materia di avaria comune, disciplinando peculiarmente il reparto della perdita comune, in ragione del peso del carico, in diretta e specifica relazione a quello che era il criterio del pagamento del noleggio. Con una certa dose di probabilità si può anche ritenere che essi abbiano praticato l’assicurazione marittima, il che sembra invece da escludere nei riguardi dei Babilonesi.
La circostanza che queste regole giuridiche siano state accolte nel Talmud di Babilonia attesta la loro larghissima diffusione in tutta l’Asia minore. Ciò permette di affermare che nel vicino Oriente, durante il corso del primo millennio a.C., furono in vigore un diritto commerciale e un diritto internazionale marittimo fortemente influenzato da un diritto consuetudinario fenicio, che ebbero incidenze storiche e ripercussioni giuridiche sia sul diritto greco e sia sul diritto romano.
31/01/2023
Giuseppe Chiàntera
[1] Teoria giuridica, elaborata in Francia da M. Hauriou e in Italia da S. Romano, che concepisce l’ordinamento giuridico come organizzazione (istituzione), rifiutando la definizione normativista del diritto. Ciò che per l’istituzione caratterizza un ordinamento è la preesistenza, all’interno di un gruppo sociale, di un’organizzazione finalizzata a stabilire l’ordine, che preesiste alle norme e costituisce il parametro a cui va fatto riferimento per l’interpretazione delle norme stesse.
[2] Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946, Pensiero: vedeva una società di società, una società organizzata per gruppi. Questo tipo di impostazione antropologica influisce sulla teoria del diritto. Santi Romano riprende una tesi di Kant, il quale sostiene che una volta che si forma una società civile, tutto il diritto è diritto pubblico, anche il diritto privato, che è un diritto posto da determinate autorità. Santi Romano riconduce il diritto alla società, riprende espressioni conosciute dalla cultura giuridica romana” ubi societas ibi ius“, diritto e società coincidono, il diritto è fatto di una serie di ingranaggi, di una serie di cose che vengono prima delle norme, l’elemento fondamentale, originario è l’organizzazione. Il diritto nasce là dove c’è un gruppo sociale che si organizza. Affinché ci sia il diritto c’è bisogno di un gruppo sociale, di un gruppo di individui che si organizzano in una qualche maniera.
[3] Precisamente, per quanto di interesse del Diritto marittimo, ai paragrafi 8 e 9. Eccone qui di seguito i testi:
§ 8: “Se un uomo provoca l’affondamento di una nave, sia condannato a risarcire il danno”.
§ 9: “Se un uomo prende a nolo una nave ma non segue le disposizioni sulla rotta e causa la perdita dell’imbarcazione facendola incagliare sul fondo sabbioso, deve risarcire il valore della nave”
[4] Nel Codice di Hammurabi si ritrovano 11 paragrafi (precisamente §§8, 234-240, 275-277) riguardanti il diritto della navigazione. Si forniscono qui di seguito i testi.
§ 8: “Se un uomo ha rubato un bue, o una pecora, o un asino o un maiale, o una barca, e quanto ha rubato è di proprietà del tempio o del palazzo, sia condannato a pagare una somma 30 volte superiore; se la refurtiva appartiene invece ad un muskénum corrisponda una somma di 10 volte superiore. Se non possiede la somma sia condannato a morte”.
§ 234: “La ricompensa per un calafatato* di una nave che ha una portata di 60 gur è di 2 sicli d’ argento”.
§ 235: “Se il lavoro del calafato non è stato accurato ed entro l’anno la nave comincia a pendere e a denunciare difetti, il calafato deve demolirla e rifarla solida”.
§ 236: “Se un nocchiero causa l’affondamento o la perdita di una nave avuta a nolo, deve risarcire il proprietario con un’altra nave”
§ 237: “Se un uomo ha preso a nolo una nave ed un nocchiero che provoca l’affondamento e la perdita della nave e del carico (orzo, lana, olio, datteri, o qualsiasi altro bene), il nocchiero deve risarcire nave e carico”.
§ 238: “Se un nocchiero provoca il naufragio di una nave e poi riesce a recuperarla, dovrà risarcire con la metà del valore della nave”.
§ 239: “Se un uomo assume un nocchiero, gli dia 6 gur di orzo all’anno”
§ 240: “Se una nave che naviga controcorrente sperona una nave che naviga secondo corrente provocandone il naufragio, il padrone della nave affondata dichiari davanti al dio il valore del carico, e gli sia risarcita la perdita del carico e della nave dal nocchiero che lo ha speronato”.
§ 275: “Il noleggio di una nave per un percorso che segua il corso della corrente è di 3 sicli d’argento al giorno”.
§ 276: “Il noleggio di una nave per un percorso controcorrente è di 2 e ½ sicli d’argento al giorno»
§ 277: “Il noleggio di una nave di 60 gur di portata è di 1/6 di siclo di argento al giorno”.
* [Calafataggio: rendere stagne le giunzioni fra gli elementi di legno]
[5] M. Tocci, Sintesi storica delle fonti del diritto marittimo dall’antichità al medioevo, in Diritto dei trasporti, 2002, vol. XV, pp 349 ss.
[6] Erodoto ne descrive una simile (Erodoto, Le storie, trad. L. Annibaletto, Milano, Mondadori, 1956)
Ma la più grande di tutte le meraviglie che esistono colà, a mio parere, dopo la città (di Babilonia) in se stessa, è quella che mi accingo a narrare.
Le loro imbarcazioni, con le quali seguendo il corso del fiume (Eufrate) arrivano a Babilonia, sono di forma rotonda e tutte di pelle.
Infatti, quando in Armenia, che è sopra l’Assiria, con delle tavole di salice ne hanno costruito lo scafo, vi stendono sopra una coperta di pelli all’esterno, come si fa con i pavimenti, senza segnare la poppa con un allargamento, o la prora con un restringimento; ma, facendolo rotondo come uno scudo, lo colmano tutto di paglia e lo lasciano andare secondo la corrente, dopo averlo riempito di mercanzie.
Per lo più trasportano così recipienti di vino di Fenicia. Il battello è governato, per mezzo di due pali, da due uomini che stanno ritti in piedi: quando uno tira a sé il palo, l’altro lo spinge in fuori.
Se ne costruiscono di veramente grandi e anche di minore portata: i più robusti reggono un carico anche di 5000 talenti.
In ciascun battello si imbarca un asino vivo, in quelli più grandi un numero maggiore. Quando, dunque, seguendo la corrente, siano giunti a Babilonia e abbiano venduto la loro mercanzia, vendono all’asta le fiancate e tutta la paglia, ma le pelli le caricano in groppa agli asini e se ne tornano in Armenia.
Infatti non potrebbero essi, in alcun modo, risalire il fiume, data la rapidità della corrente; ed è per questo, anche, che essi fanno le imbarcazioni non di legno, ma di pelle.
Quando poi, spingendosi innanzi gli asini siano ritornati in Armenia, con lo stesso modo si procurano altri battelli.
Note al testo, da “Le civiltà sepolte”, di A. Camera e R. Fabietti: Ipotizzando che il talento (che variava di valore secondo i paesi) equivalesse per Erodoto a circa 26 kg, com’è molto probabile, le navi dei Babilonesi avrebbero potuto trasportare fino a 130 tonnellate di merce e avrebbero dovuto quindi avere un diametro non inferiore ai 9 metri (nel caso limite che avessero la forma di una semisfera perfetta). Tali dimensioni avrebbero comportato una struttura di sostegno delle pelli assai robusta: troppo laboriosa da costruire perché convenisse demolirla al termine di ogni viaggio. In conclusione: è probabile che sulla capacità di queste navi Erodoto esageri alquanto.
[7] Il calafataggio è una tecnica di impermeabilizzazione dello scafo in legno. Essa crea una giunzione tra le tavole del fasciame in grado di reggere il mare e resistere nel tempo. In passato la tecnica consisteva essenzialmente nell’inserire tra il fasciame che costituisce lo scafo delle fibre, spesso canapa o stoppa, impregnate di pece.
[8] Il relitto di Capo Chelidonia è un’imbarcazione dell’Età del Bronzo, identificata da pescatori di spugne alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. La campagna di scavi subacquei fu condotta nell’Anatolia meridionale, che separa la baia di Finike a ovest, dal Golfo di Antalya a est, e portò alla luce un relitto adagiato su un fondale roccioso ai piedi di una scogliera, a 25 metri di profondità. Il carico presentava importanti tracce di corrosione e concrezione, suggerendo allo staff di spostare tutto in superficie e iniziare le operazioni di pulitura e restauro. L’affondamento dello scafo avvenne nel 1300 a.C., datazione stabilita con il metodo del radiocarbonio effettuato su due vasi in stile miceneo IIIB in buono stato di conservazione. Il carico comprendeva 40 lingotti d’oro di 20 kg ciascuno, contrassegnati da marchi di fonderia, 30 lingotti di bronzo discoidali, 20 a barra lunga e 4 lingotti di stagno. Inoltre, c’erano centinaia di utensili come asce, picconi, scalpelli e lame, tutti in cattivo stato, forse destinati alla rifusione, come suggerisce il ritrovamento di strumenti per la lavorazione del metallo. Alcuni oggetti del carico forniscono indizi sulla provenienza dell’equipaggio perché quattro scarabei, una targa scarabeo a forma di lampada a olio e una serie di mortai in pietra di tipologia cananea, suggeriscono una provenienza dalle città costiere della Siria meridionale e del Libano, confermando che la rotta che passava per le coste meridionali anatoliche aveva nella città di Ugarit un porto privilegiato.
[9] cfr. l’episodio della «benedizione di Giacobbe », Gen., XLIX, 13, ed Ebrei, Storia, XIII, p. 334.
[10] Iliade, XVII, 298-9; XXIII, 739; Odissea, IV, 83-5, 615-19; XIII, 272-85; XIV, 288, 291; XV, 115 ss.
[11] F. A. Querci, La storia della dogmatica marittima, in Trasporti, 2007, n. 101, Edizioni Università di Trieste, pag. 43
[12] Geographia, XVII, I, 19, éd. Mueller e Duebner, Paris 1953, p. 681
[13] Vedansi, ad es. Pipia, Trattato di diritto marittimo, vol. I, Milano 1922, p. XXIV; Brunetti, Diritto marittimo privato italiano, vol. I Torino 1929, p. 72; Lefebvre e Pescatore, Manuale del diritto della navigazione, Milano 1960, p. 8; presso la dottrina francese, vedasi per tutti il Danjon, Traité de droit maritime, vol. I, Paris 1926, p. 7; presso i Tedeschi, il Wagner, Handbuch des Seerechts, Leipzig 1906, p. 10
[14] Cfr. J. Dauvillier, Le droit maritime phénicien, in Revue internationale des droits de l’antiquité, 1959, pp. 33-63, riportato da G. Purpura, , La protezione dei giacimenti archeologici in acque internazionali e la Lex Rhodia del mare, in Tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale subacqueo, 2004, p.16. Cfr. anche F. Querci, Il diritto marittimo fenicio, in Rivista del diritto della navigazione, 1960, I, pp. 411 ss.
[15] B. Croce; Filosofia – Poesia – Storia, ed. Ricciardi, Milano-Napoli, p. 431
[16] Il Talmud è una raccolta di commenti rabbinici e note sulla Mishnà (tradizione orale ebraica) che fu compilata in Terra di Israele durante il IV e V secolo d.C.. Il Talmud di Gerusalemme precede la sua controparte, il Talmud babilonese, di circa 200 anni ed è scritto in ebraico e aramaico giudaico palestinese. Comprende, come componente principale, la Mishnà, un insieme delle discussioni dei rabbini in Terra di Israele che furono compilate negli anni 350-400 d.C.. Il Talmud babilonese è spesso reputato come il più autorevole e viene studiato molto più frequentemente del Talmud gerosolimitano. In generale, se non altrimenti specificato, il termine “Talmud” si riferisce alla redazione babilonese. La parte essenziale e più ampia (due terzi del T. babilonese, cinque sesti di quello palestinese) riguarda le norme giuridiche che regolano la vita delle comunità giudaiche, discusse attraverso tutte le interpretazioni trasmesse dai dottori; il resto è composto da narrazioni e leggende.
[17] V. nota 16
[18] Althiburos, attuale El Médéïna, centro situato sugli altopiani della Tunisia centrale
[19] Particolare del Sarcofago della nave, dalla pietra di Sidone
[20] Eliogabalo o Elagabalo (Marcus Aurelius Antoninus Augustus – Heliogabalus o Elagabalus) –
(Thracia, Perinthus – 218-222 d.C.). Busto dell’imperatore; al retro galea con 6 rematori e timoniere.
[21] Il codice di Eshnunna: Le tre raccolte di leggi precedenti quella di Hammurabi furono redatte in sumero. Il primo scritto in accadico (l’altra principale lingua della Mesopotamia) fu il codice emanato nella città di Eshnunna, capitale del regno di Warum e importante centro politico ed economico. È il suo re Dadusha, intorno al 1800 a.C., a proclamare di svolgere grazie alla sua compilazione il ruolo di sovrano di giustizia, garante per volontà divina della stabilità sociale e dell’ordine pubblico.
[22] La Lex rhodia è un antico regolamento sulla navigazione mediterranea. Gli storici dibattono tuttora sulla legge: è difatti profondamente difficile determinarne la natura, e ci si chiede se in effetti questa costituisse un apparato di disposizioni contenenti norme precise, oppure se la denominazione raccogliesse in fondo solo una serie di norme consuetudinarie.
La legge fu recepita dal diritto romano dal mondo greco in tema di locatio operis, un’espressione con cui si intendeva un contratto molto simile all’odierno contratto di appalto e di prestazione d’opera.
A proposito di quelle merci che sarebbero state trasportate per mare, si stabilì che, se in caso di difficoltà nella navigazione si fosse stati costretti a buttare a mare parte delle merci locate per il trasporto, il rischio si sarebbe ripartito proporzionalmente sui locatori; all’uopo, il locatore che aveva perduto la merce avrebbe agito con l’actio locati contro il conduttore trasportatore e costui in via di rivalsa avrebbe agito con l’actio conducti contro i locatori delle merci che si erano salvate.
[23] Stefano Gsell: storico e archeologo francese (Parigi 1864 – ivi 1932). Diresse gli scavi della necropoli di Vulci (Fouilles dans la nécropole de Vulci, 1891); fu poi prof. alla Scuola superiore di lettere di Algeri, e da allora si dedicò all’archeologia dell’Africa settentrionale. Scrisse fra l’altro: Monuments antiques de l’Algérie (2 voll., 1901); Histoire ancienne de l’Afrique du Nord (8 voll., 1913-18); Inscriptions latines de l’Algérie (2 voll., 1922-57; il 2º pubbl. da H. G. Pflaum e altri).