Ho davanti a me una fotografia dove si vede un uomo, con il volto segnato, i capelli folti e bianchi, con il pastrano militare privo di spalline e gradi e decorazioni. Un volto che racconta di antiche ed estreme battaglie, di certe vittorie e di inevitabili sconfitte, un volto severo di chi sa rimanere in piedi tra le rovine, preservare se stesso ed il proprio mondo interiore di valori. Il volto di un soldato, di come dovrebbe essere ogni volto di soldato. Alle sue spalle la tenda del prigioniero, la sabbia del deserto, un cielo grigio e sporco. Ha avanti a sé un microfono: ‘…abbiamo operato virilmente, come abbiamo operato, perché abbiamo creduto che quella fosse la nostra missione nel supremo agone della Patria, che questo spirito nostro, agitato e sconvolto, possa trovare l’imperativo morale sul quale appoggiarsi all’avvenire… Io, vostro Maresciallo, sono presente al campo e quindi rappresento spiritualmente tutto e tutti; la Patria e la razza’. Asciutto e sintetico chè a un soldato non si chiede il ben parlare, si chiede, questo sì, d’essere degno dell’uniforme che indossa in guerra e in pace.
Quest’uomo, questo soldato, che è stato ricoverato nell’ospedale militare di Algeri ma che, successivamente, ha chiesto ed ottenuto d’essere rinchiuso dietro i reticolati del 211 Pow Camp per condividere il comune destino con quei soldati che, come lui, avvertirono il richiamo dell’Onore, questo soldato è il Maresciallo Rodolfo Graziani.
Sono rientrato questa domenica pomeriggio da Lecco, grigia e piovosa, dove mi sono immerso – e ricostruito con il coinvolgimento del cuore – nei luoghi ove si consumò la tragedia culminata con il massacro dei sedici ufficiali del btg. d’assalto Perugia della G.N.R. e del btg. Leonessa perché venissero risparmiati i loro centosessanta uomini, tutti giovanissimi. Ho visto il luogo dell’agguato partigiano e della breve resistenza, la scuola ove vennero ristretti depredati sottoposti a vessazioni inenarrabili, lo stadio in cui si consumò l’atto finale, i cadaveri ammucchiati sotto poche palate di terra, dissepolti e sui loro corpi vi pisciarono sopra ad estremo ludibrio. E la nuova targa a ricordo dove tutto questo orrore viene mascherato da atto di guerra legittimo perché i boia trovino riposo nelle loro comode tombe e tutta la città si lavi la coscienza. Ho proposto il mio libro Atmosfere in nero, dove narro di questa vicenda e della bella storia, sì, della bella storia d’amore tra Mila ed Emilio.
Sabato prossimo, 25 maggio, sarò nei pressi di Frosinone tra i relatori al convegno dedicato appunto al Maresciallo Rodolfo Graziani, che nacque e trovò sepoltura in terra di Ciociaria. Incontro doveroso e reso più urgente dal momento che la nuova giunta regionale di sinistra, di fronte alla crisi dell’occupazione della sanità della viabilità, ha ritenuto opportuno di tagliare i fondi destinati a completare lo spazio in via di edificazione a ricordo del Maresciallo Graziani, nel comune di Affile. Insomma, a quasi settant’anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale, vi è chi ritiene doverosa mantenere la rigida divisione tra vincitori (i buoni) e vinti (i cattivi). Dalla crisi delle ideologie, simbolicamente rappresentata dal crollo del muro di Berlino, vi è chi ancora ne fa un uso strumentale e menzognero per negare l’universalità e atemporalità del valore, i vincitori (tutti eroi e martiri, capaci di donare libertà e democrazia al nostro paese, trascurando il supporto della V e VIII Armate alleate) e i vinti (tutti, va da sé, numericamente insignificanti e tutti torturatori sadici venduti e asserviti al tedesco invasore).
Ho davanti a me un’altra fotografia, tratta dall’inserto de Il Secolo d’Italia, febbraio 1955. Si vede piazza Verdi, una ampia piazza di Roma nei pressi del quartiere Parioli, riempita da una folla immensa da migliaia e migliaia di braccia tese da tricolori e labari da un popolo di più generazioni (si parlò di oltre duecentomila persone) e, portata a braccia, si intravede la bara del Maresciallo Graziani, dopo la funzione religiosa celebratasi nella chiesa di San Roberto Bellarmino, la mattina del 13 gennaio. Credo (ma vi tornerò sopra in un prossimo contributo) quale ultima grandiosa autentica visione del Fascismo ‘immenso e rosso’. Dopo ci fu ‘il neofascismo’ che non è – e non solo in senso cronologico e terminologico – il Fascismo (questo va consegnato alla storia, l’altro alla cronaca, ad esempio). E, proprio sulla sua morte, sul funerale, su quella manifestazione vorrei incentrare il mio intervento al convegno del 25 maggio.
Mario M. Merlino
Mario M. Merlino
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