18 Luglio 2024
Appunti di Storia

1920: L’anno della minorità fascista (settimo capitolo)

 

 

13. “LE DONNE RESTINO A CASA”

 

Si avvia a fine l’anno della “minorità fascista”, ma ci saranno ancora due episodi che, per la loro drammaticità, per la risonanza che avranno, per le conseguenze che determineranno, sono destinati a fare veramente da spartiacque tra due periodi del fascismo, che, fin qui sostanzialmente defilato rispetto alla grande politica nazionale sarà avviato, d’ora in poi, ad iniziare la marcia inarrestabile che si concluderà con la conquista del potere il 28 ottobre del ’22.

Troppo totalizzante è, forse, De Felice, che, a proposito del passaggio di testimone che si verifica nelle file fasciste tra la fine del ’20 e l’inizio del ’21, così si esprime:

“Molti si persero per strada, parecchi passarono al campo avverso, i più si trovarono, quasi inavvertitamente, ad essere, ad un certo punto, altri rispetto a quelli che erano stati al principio, soppiantati nell’effettiva guida del movimento da elementi nuovi, di diversa origine e formazione, legati a realtà diversissime.”

E’ comunque certo che il ricambio umano e le correzioni di rotta che si verificheranno nei mesi a venire, anche, e forse soprattutto sotto la spinta di avvenimenti esterni non sempre previsti, costituiscono il presupposto indispensabile per l’affermazione finale. Il fascismo del biennio trascorso, minoritario, scapestrato ma, in fondo, privo di vere prospettive, deve, se vuole dare un senso alla propria azione ed al sacrificio dei caduti che va assumendo proporzioni sempre più rilevanti, “mettere da parte” qualche velleitarismo, una confusione di linguaggi ed un certo estremismo verbale controproducente, per cominciare seriamente a pensare di poter costituire l’alternativa al sistema liberaldemocratico, sotto la imprescindibile guida di Mussolini, che è l’unico che può traghettare il movimento in questo difficile passaggio.

Per ora, però, è l’azione di piazza a far da padrona: a Bologna, il 21 novembre, in coincidenza con l’insediamento del nuovo consiglio comunale, si verificano gravi incidenti, che culminano nella morte del consigliere, mutilato di guerra, Giulio Giordani, uno degli elementi, peraltro, più concilianti della minoranza antisocialista.

L’intera vicenda ha un prodromo nella giornata del 4 novembre, allorché, per festeggiare la vittoria, i fascisti cittadini danno vita ad una serie di manifestazioni, che coinvolgono tutta la cittadinanza non rinunciataria, ad eccezione, quindi, dei socialisti che, anzi, si riuniscono all’interno della Camera del Lavoro, dove convergono un centinaio di guardie rosse, in gran parte provenienti da Imola, armate di moschetto.

Il segretario confederale, Ercole Bucco, con preoccupate telefonate alla Questura si sforza di giustificare il concentramento con il timore di un attacco squadrista che, peraltro, effettivamente si verifica verso la mezzanotte, quando un centinaio di fascisti, guidati dal Tenente Attilio Pappalardo, muovo sulla sede sindacale. Dall’interno dell’edificio partono, in risposta, una serie di colpi di fucile che feriscono proprio il Pappalardo, il quale viene subito arrestato dalla forza pubblica, prontamente accorsa dopo le ripetute richieste di soccorso da parte degli assediati.

L’intervento ha, però, un risvolto non previsto: infatti, la successiva perquisizione della Camera del Lavoro, da dove sicuramente sono partiti i colpi, porta al rinvenimento, nell’abitazione del Bucco, (proprio lui che ha chiamato la forza pubblica!) di una decina di fucili, settantasei rivoltelle ed alcuni tubi di gelatina.

Tutti i presenti sono arrestati, e la cosa finirebbe lì, se Bucco, interrogato in Questura sulla provenienza delle armi, non avesse la malaugurata idea di tirare in ballo “la sua signora”, alla quale esse sarebbero state consegnate da sconosciuti, dopo i primi incidenti. Il gesto, perlomeno è poco “elegante”: quando i verbali sono pubblicati dalla stampa, il discredito per tutta l’organizzazione sindacale è enorme; i salaci commenti degli spiritosi bolognesi si sprecano, e i fascisti se ne vanno in giro canticchiando:

“Il fortunato è Bucco / Che mangia e non lavora

Il fortunato è Bucco / Che mangia e non lavora

E quando è nei pasticci / Ci mette la signora”

 

Aldilà del sarcasmo, a nessuno sfugge la stranezza del comportamento socialista che, da un lato mobilita e arma i suoi attivisti, dall’altro chiede e pretende la protezione delle Autorità – quelle stesse Autorità alle quali dice di non riconoscere alcuna legittimità – alla prima minaccia di scontro, salvo poi lamentarsi se questa protezione si trasforma, come in questo caso, in un danno.

Qui come altrove, i bellicosi propositi hanno bisogno, per realizzarsi di non trovare ostacoli imprevisti, ma, addirittura di incontrare il consenso vile di chi ne deve subire il danno, come accade con i timidi borghesi e bottegai. Gioda, che conosce bene i suoi “polli” lo ha detto in una lettera a Mussolini con la quale ha riferito, in verità non molto preoccupato, i minacciosi intendimenti dei socialisti contro i pochi fascisti torinesi, nel maggio del ’19: “per accopparci occorre però una cosa semplicissima: la nostra disposizione a lasciarci accoppare…”.

E’ chiaro che, dopo quello che è accaduto, i socialisti del capoluogo emiliano cerchino la rivincita: l’occasione propizia sembra essere proprio quella dell’insediamento del Consiglio comunale, che consacra la vittoria elettorale alla recenti amministrative. La cerimonia è prevista all’interno di quel palazzo D’Accursio, già obiettivo, durante la guerra, di decine di manifestazioni di protesta, ripetutamente assalito dagli interventisti che intendono protestare contro i “tedeschi d’Italia”.

E’, quindi, più che prevedibile che anche stavolta ci sarà battaglia; gli squadristi fanno chiaramente capire che non sono disposti a retrocedere. Il 19 novembre diffondono in città e attaccano alle cantonate un volantino dattiloscritto, del quale il Questore ha vietato la regolare diffusione e sequestrato gli originali in tipografia,nel quale di dice:

“Cittadini, i massimalisti rossi, sbaragliati e vinti per le piazze e le strade della città, chiamano a raccolta le masse del contado, per tentare una rivincita, per tentare di issare il loro cencio rosso sul palazzo comunale! Noi non tollereremo mai questo insulto! Insulto per ogni cittadino italiano e per la Patria nostra, che di Lenin e di bolscevismo non ne vuol sapere. Domenica, le donne e tutti coloro che amano la pace e la tranquillità, restino in casa, e, se vogliono meritare dalla Patria, espongano dalle loro finestre il tricolore italiano. Per le strade di Bologna, domenica, devono trovarsi solo fascisti e bolscevichi. Sarà la prova: la grande prova in nome d’Italia!”

Per meglio essere pronti, i fascisti bolognesi chiedono aiuto ai camerati delle altre città, ma la sera del 20, con un camion, arrivano solo venti squadristi da Ferrara, avvisati da uno studente di Medicina che studia presso l’Università del capoluogo. Si arriva così alla giornata del 21: la mattina, circa 400 fascisti improvvisano un corteo per le vie del centro, e poi si radunano nella loro sede di via Marsala. L’impegno, che hanno ottenuto dal Prefetto “mediatore”, che nessuna bandiera rossa verrà esposta sul palazzo comunale e che verranno rispettate le persone dei consiglieri di minoranza, li convince a restare tranquilli, ma vigili.

L’impegno però, come era prevedibile, non viene mantenuto: i socialisti hanno stipato il palazzo D’Accursio di guardie municipali, vigili del fuoco, agenti daziari, dipendenti comunali di provata fede, guardie rosse provenienti da fuori città, e si sentono sicuri, in grado di dare una lezione ai provocatori fascisti. E’ così che, verso le 14,30 sulla torre degli Asinelli viene issata una bandiera rossa.

In un attimo, gli squadristi escono di corsa dalla loro sede, travolgono gli esili cordoni di truppa che li separano dalla piazza, e irrompono da due parti; uno, più ardito, si arrampica veloce sulla torre per togliere la bandiera, mentre gli altri cominciano a premere sulla folla ammassata in piazza.

Poco importa, ed è sempre difficile in questi casi, accertare chi abbia sparato i primi colpi: certo è che, dal balcone di palazzo D’Accursio si affacciano le guardie rosse, vedono la folla che corre, pensano all’attacco fascista e tirano bombe a mano sulla piazza; è una strage: alla fine, sul selciato, cosparso di “copricapi, ombrelli, bastoni ed oggetti abbandonati nel disordinato rosso fuggi-fuggi” si conteranno dieci morti innocenti ed una sessantina di feriti.

Ma non è ancora finita: al rumore delle deflagrazioni, gli attivisti socialisti radunati all’interno del palazzo irrompono nella sala del Consiglio, inveendo contro i consiglieri della minoranza, Esplodono anche alcuni colpi di pistola, che colpiscono a morte Giulio Giordani e feriscono altri due consiglieri.

Lo sdegno, in tutto il Paese è grande: la figura del caduto; il comportamento irresponsabile delle guardie rosse che hanno “bombardato” una folla inerme, e per di più della loro stessa fede politica, temendo chissà quale pericolo, il gran numero di vittime innocenti, tutto contribuisce a far crescere la condanna dell’opinione pubblica stanca, sempre più stanca, delle violenze dei rivoluzionari rossi.

I fascisti “danno il bando” a Missiroli, direttore del Resto del Carlino, accusandolo di essere troppo vicino ai socialisti. Egli non può più rientrare in città, e il 5 aprile rassegnerà le dimissioni dal giornale. I nazionalisti, dal canto loro, “bandiscono” da Bologna i consiglieri della maggioranza comunale ed i maggiorenti del Partito socialista che, se inadempienti, saranno “svillaneggiati e sputacchiati sul grugno”.

Altrettanto faranno, infine, gli studenti della locale Università, che boicottano le lezioni e gli esami di laurea dei professori in odore di socialismo.

La reazione è forte, ma l’indignazione della pubblica opinione sarebbe ancora maggiore, se solo si sapesse che, la sera stessa dell’eccidio, a Castel San Pietro si tiene regolarmente il programmato banchetto di ringraziamento per il risultato elettorale, al quale partecipano anche gli on. Graziadei e Bombacci, provenienti da Bologna, che commentano a tavola i fatti della giornata, minimizzandoli come un deplorevole incidente, del quale essi non hanno colpa.

Sarà vero, come sostiene Missiroli, un bolognese che conosce bene i suoi rossi concittadini, che i comunisti “invocano Lenin, ma il loro Dio è Gargantau” ?

14. FRA I MERLI DEL CASTELLO

 

L’eco dei fatti di Bologna non si è ancora spenta, che a Ferrara, il 20 dicembre, si verifica un episodio per molti versi analogo, anche se con un epilogo molto diverso.

Pure nella città estense il movimento fascista sta muovendo i primi passi in queste settimane. Gesti goliardici, come la tradizionale sottrazione di bandiere rosse dalle finestre del Palazzo comunale, si alternano a iniziative più squisitamente politiche, come quando i boicottati dalle leghe vengono convinti, con la promessa di protezione contro eventuali ritorsioni, a presentare regolare denunce alla Magistratura contro i loro persecutori.

A capo degli squadristi c’è Olao Giaggioli, valoroso Ufficiale in guerra, decorato con quattro medaglie d’argento, antisocialista fervente, ma per nulla disposto a farsi strumentalizzare dai padroni dell’Agraria. E’ lui che organizza, in occasione delle elezioni amministrative, la prima dimostrazione di forza, con una ronda volante presso i seggi, per evitare la ripetizione delle violenze dell’anno prima, quando le cabine elettorali sono stati presidiate dai socialisti, che hanno coartato in tutti i modi la libera espressione di voto di quanti ritenevano potenziali avversari.

Come già detto, uno sparuto gruppetto di fascisti ferraresi è stato presente, a Bologna, il 21 novembre; per rendere il favore, una cinquantina di camerati bolognesi vengono a Ferrara per dare manforte al Fascio locale, il 20 dicembre. E’ una giornata particolare, i fascisti vogliono ricordare, ad un mese esatto, la morte di Giordani a palazzo D’Accursio, mentre i socialisti hanno organizzato un comizio di protesta, con l’intervento di tutte le organizzazioni della provincia, a seguito della bastonatura subita a Bologna dall’avv. Niccolai, Deputato del collegio Ferrara-Rovigo.

Di nuovo, in questo caso, come a Bologna, l’Autorità media, trovando, alla fine, una soluzione che sembra accontentare tutti: i socialisti manifesteranno all’interno del teatro comunale, mentre i fascisti non si muoveranno dalla loro sede di corso Giovecca. Anche stavolta, però, qualcuno non sta ai patti: i socialisti, per raggiungere il teatro, fanno volontariamente ed ostentatamente lunghi giri in città, sventolando le rosse bandiere, finchè i loro avversari, avvertiti dai cittadini inviperiti, escono dalla sede, pronti allo scontro.

E infatti, nei pressi del castello, sede dell’Amministrazione comunale, i due gruppi vengono a contatto e partono i primi colpi di pistola; agli sparatori in piazza si aggiungono una ventina di guardie rosse che anche qui, grazie alla complicità dei consiglieri socialisti, si sono appostati in alto, con i fucili tra i merli dell’edificio medievale.

Questa volta, fortunatamente, non c’è lancio di bombe sulla strada, ma i fascisti, bersagliati da più parti, hanno tre morti, due dei quali sono iscritti al Fascio da pochi giorni, alla loro prima avventura. Solo l’intervento della forza pubblica, che provoca la fuga dei cecchini così ben riparati, e quindi in grado di fare altri danni, evita un numero maggiore di caduti.

I funerali si svolgono qualche giorno dopo, con grande mobilitazione di tutti i Fasci limitrofi. Un elemento di novità e modernità rispetto alla solennità della cerimonia è l’apparizione di un aeroplano, che lancia fiori sulle salme mentre sorvola il corteo, al quale vi è un’adesione grande e spontanea da parte della popolazione.

Comincia da qui la fine del predominio rosso in città: Giacomo Matteotti, che arriverà a gennaio, per assumere il controllo del movimento socialista, decimato dalla latitanza dei dirigenti, inquisiti per i fatti del Castello, dovrà andare in giro, in un clima di grande ostilità, circondato da guardie rosse armate di bastone.

Di contro, aumentano le adesioni al Fascio. In questo periodo viene maturando la decisione di Italo Balbo di iscriversi alle schiere mussoliniane. Interventista intervenuto”, decorato con due medaglie d’argento e una di bronzo, beffardo protagonista di audacie guerresche tra gli Alpini, pizzo di ferro” – come lo chiamano i suoi uomini – porta al fascismo ferrarese il contributo decisivo del suo indubbio carisma di capo ed organizzatore, che ne farà, nei mesi successivi, uno dei principali protagonisti sulla scena squadrista propriamente detta, non sempre “in linea” con le direttive milanesi, talvolta contestato anche nella sua Ferrara, ma sempre, sicuramente, vicino al cuore ed al sentimento della base attivistica.

Mentre, quindi, il panorama interno si va animando per le nuove iniziative fasciste, volge al termine l’avventura fiumana; con il trattato di Rapallo, Giolitti “boia labbrone”, è riuscito, in qualche modo, a trovare una soluzione diplomatica allo spinoso problema: occorre ora che D’Annunzio lasci la città.

La mattina del 20 dicembre viene decretato il blocco totale, terrestre e navale, a Fiume; il 24 inizia la marcia di avvicinamento dei Reparti governativi: alla periferia della città si accende qualche combattimento, con caduti di parte legionaria, finchè, il 26, anche il palazzo del comandante è cannoneggiato dal mare.

D’Annunzio capisce allora che è giunta l’ora di por fine all’occupazione, offeso anche dall’indifferenza del Paese, che non gli pare meritare il suo sacrificio:

“E, mentre mi ero preparato ieri al sacrificio, e avevo già confortato la mia anima, oggi mi dispongo a difendere con tutte le armi la mia vita. L’ho offerta cento e cento volte nella mia guerra, sorridendo. Ma non vale la pena di gettarla oggi in servizio di un popolo che non si cura di distogliere, neppure per un attimo, dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia, mentre il suo Governo fa assassinare, con fredda determinazione, una gente di sublime virtù, come questa che da sedici mesi patisce e lotta al nostro fianco, e non è mai stanca di patire e di lottare.”

 

Il 18 gennaio si conclude la mesta partenza degli ultimi legionari; nel complesso, le reazioni nel Paese sono state scarse: a Bologna, Milano, Torino e in qualche altra città, i fascisti hanno organizzato manifestazioni di protesta, che si sono risolte, in qualche caso, in violenti scontri con la polizia.

Fallisce il tentativo milanese di Carli, collegato a gruppi di Arditi ed anarchici, di far saltare in aria la centrale elettrica, per poi provocare una sommossa in città, e miglior sorte non hanno i progetti insurrezionali a Trieste, dove Giunta e tutto il direttorio vengono arrestati, a titolo precauzionale, dopo un tentativo di rivolta cittadina:

“Il 23 dicembre era già preparato l’ordine di arresto per i capi del fascismo; il 24 il Fascio veniva occupato da una compagnia di Guardie Regie; il 25 si proclama lo stato di assedio, con il divieto di portare armi, anche se muniti del relativo permesso, e si proibivano gli assembramenti di tre persone; il 25 sera, dopo che noi avevamo tirato due bombe contro la forza, cominciarono gli arresti in massa dei fascisti delle squadre d’azione.”

 

In realtà, il Comitato centrale dei Fasci del 15 dicembre ha espresso la sua opinione sul trattato di Rapallo, giudicato sufficiente ed accettabile per il confine orientale, deficiente ed inaccettabile per la Dalmazia. E’ la linea indicata già da Mussolini, con molto realismo, anche a costo di dispiacere a quanti vorrebbero un impegno più attivo a fianco di D’Annunzio, senza considerare che il Paese è stanco e desidera che, anche per una questione di credibilità internazionale, la storia di Fiume sia risolta.

Lo sforzo maggiore del fascismo deve ora indirizzarsi verso l’interno: se la battaglia sarà vittoriosa, riuscirà più facile anche dare, in un momento successivo, una soluzione definitiva, nel senso voluto, al problema della città olocausta; una sottile analogia sembra collegare gli avvenimenti di Fiume e Bologna:

“Il Natale di sangue fiumano è, in qualche modo, il pendant dell’episodio bolognese: a Bologna, un’apparente vittoria popolare (la conquista del Comune da parte dei socialisti) si risolve in una disfatta; a Fiume, l’apparente sconfitta dell’eversione di destra ne preannuncia il trionfo”

 

Cambiano velocemente le situazioni: la riscossa nazionale faticosamente preparata nel biennio 1919/20, si svilupperà, da qui in avanti, prepotente ed inarrestabile, così come prepotente ed inarrestabile sarà il declino socialista, preparato dagli errori politici e favorito dalle incapacità personali dei dirigenti massimalisti.

 

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