17 Luglio 2024
Appunti di Storia

La Strage del carcere di Cesena (8 maggio 1945) – Pietro Cappellari

Un crimine partigiano rimasto impunito

 

Molti conoscono l’eccidio di Schio (Vicenza) avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 Luglio 1945, quando una banda di partigiani penetrò nel locale carcere e sfogò il suo odio massacrando barbaramente cinquantaquattro fascisti, “colpevoli” di aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana. Se, oggi, è possibile parlare di questo crimine contro l’umanità compiuto dagli antifascisti è solo grazie a tutti coloro che, nel corso degli anni, non si sono fatti intimidire ed hanno cercato sempre di ricordare i caduti per mano partigiana. Divieti, provocazioni, aggressioni, minacce, non li hanno mai fermati.

Purtroppo, in molti altri luoghi non è stato così e di tante stragi commesse dai partigiani dopo la fine della guerra, contro innocenti inermi, “colpevoli” solo di essere fascisti o presunti tali, si è persa la memoria storia.

Oggi, narreremo della strage del carcere di Cesena, avvenuta nella notte dell’8 Maggio 1945, che anticipa per modalità ed azioni quella tragica di Schio. Quella notte vennero assassinati dagli antifascisti diciassette detenuti politici cui nulla poteva essere addebitato, se non il professare una idea assurta a simbolo del “male assoluto”.

La guerra a Cesena era finita il 20 Ottobre 1944, quando la città era stata occupata dagli Alleati che avanzavano lungo la dorsale adriatica. Da allora, l’autorità politico-militare della zona era stata assunta dai Britannici, mentre gli antifascisti si preparava-no all’“assalto del potere” e gli ormai onnipresenti partigiani imponevano con la violenza il nuovo ordine “libertario”.

Molti fascisti cesenati avevano seguito la ritirata al Nord delle truppe italo-tedesche e quelli rimasti in zona vivano il triste periodo della vendetta ingiustificata, dell’odio politico eretto a sistema, della violenza contro gli inermi e gli innocenti.

La fine della guerra (2 Maggio 1945) fece affilare agli antifascisti i “coltelli della rivincita” contro tutti coloro che avevano seguito le truppe della RSI al Nord ed ora, alla spicciolata, tornavano a casa, convinti che nessuno, comunque, avrebbe potuto imputargli nulla. Ma non era così. Per il solo fatto di esistere avrebbero dovuto pagare. E avrebbero pagato amaramente quella loro fede, simbolo della cattiva coscienza di tanti cesenati che per un ventennio avevano esaltato il Regime e, nel momento della sconfitta, si erano affrettati a riporre la camicia nera e salire sul “carro del vincitore”, cercando nell’odio contro i camerati dei “bei tempi” di rifarsi una verginità politica. L’odio coltivato in mesi e mesi di guerra civile esigeva ora il suo “olocausto”.

Ha scritto, ad esempio, Piero Pasini: “Cessate le ostilità [al Nord, anche nel Cesenate in “pace” dall’Ottobre 1944] si scatenò la ‘sudicia truppa’. Comincia la mattanza. Il 6 Maggio 1945, Nuti Enrico, soldato della RSI, tornando dal Nord, fornito di regolare lasciapassare dal CLN, si fermò a Capocolle di Bertinoro per rassettarsi prima di arrivare a casa. Si sparge la notizia: un gruppo di venti partigiani lo cattura. Portato a Fratta di Bertinoro fu passato per le armi e sepolto sommaria-mente in un castagneto. La moglie cercò da sola a lungo il cadavere, nessuno l’aiutò. Trovatolo, lo adagiò su un carretto e, accompagnata dai figli, lo portò al cimitero per una cristiana sepoltura. Il Nuti aveva 53 anni ed era operaio dell’Arrigoni, industria alimentare del Cesenate” (P. Pasini, Assassinii di cesenati ad opera dei partigiani 1945/46, “L’Ultima Crociata”, n. 1, Gennaio-Febbraio 1999).

Il rientro dal Nord di tanti fascisti impensierì le Autorità di occupazione angloamericane. E fu così che, su ordine della Field Security Section (il controspionaggio britannico) con sede a Forlì, i Carabinieri Reali della Stazione di Cesena vennero mobilitati per arrestare tutti coloro che rientravano alle proprie abitazioni dal Settentrione.

Il 3 Maggio, ad esempio, veniva fermato Francesco Semprini e il 5 Guglielmo Zamagni, prelevato dai Militi dell’Arma dal letto ove era febbricitante. Il 6 toccò ad Urbano Foschi e Cesare Righini, entrambi bastonati a sangue dai partigiani e, poi, “salvati” dai Carabinieri; il 7 a Sergio Romagnoli, Dante Bagnoli e Rino Rosetti; ecc.

Il 4 Maggio, vennero sorpresi a Cesena, i coniugi Lombini, mentre rientravano alla loro abitazione a S. Mauro in Valle, dopo aver vissuto sfollati ad Imola. A riconoscerli come noti fascisti, il nuovo Sindaco di Savignano sul Rubicone, che non perse l’occasione di “catturarli” e portarli poi alle carceri cesenati.

Il 7 Maggio, invece, furono i partigiani ad arrestare Renato Gasperoni, nonostante fosse rientrato a casa con il foglio di viaggio del CLN di Vicenza. Così avvenne per Fernando Pieri, fermato dai ribelli nella notte tra il 2 e il 3 Maggio e trattenuto alcuni giorni presso i loro “Comandi”, dove fu selvaggiamente bastonato per fargli confessare la partecipazione ad alcuni rastrellamenti in zona. Solo l’8 Maggio, in condizioni pietose, il Pieri venne associato dai Carabinieri Reali alle carceri di Cesena.

Il 3 Maggio, era stato aggredito dagli antifascisti – che ferirono anche la madre – Urbano Foschi, appena rientrato dal Nord. La situazione parve farsi grave, anche perché i partigiani presero a cercare anche un altro “rientrato”, tale Dino Zoffoli, con intenti chiaramente vendicativi. Il locale CLN emise un ordine di cattura e, il 6 Maggio, un Carabiniere Reale prese in consegna Foschi e Zoffoli e li associò alle locali carceri, con loro estremo sollievo visto il rischio che stavano correndo.

Il 2 Maggio precedente, già rilasciato dalle carceri di Reggio Emilia, era stato arrestato Giovanni Corelli, su ordine del Comitato di Liberazione Nazionale di Cesena al quale si era spontaneamente presentato certo che nulla poteva essergli addebitato. Analoga la sorte di Dante Bagnoli, figlio di un antifascista, chiamato alle armi con i bandi di leva dell’Esercito Nazionale Repubblicano ed arruolatosi nella GNR. Finita la guerra era tornato a casa, ma alcuni amici partigiani lo avvertirono che era pericoloso farsi vedere in giro, in quanto i ribelli della frazione di Ronta «non risparmiavano nessun fascista» (cfr. testimonianza di Ida Giuglianini del 18 Luglio 1946, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48). Allora, per chiarire la propria posizione, Dante Bagnoli si presentò dapprima alla Sezione del PCI di Cesena e, poi, a quella del PRI. Nessuno, nonostante la sua partecipazione a dei rastrellamenti in montagna, gli addebitò nulla. Il 6 Maggio, però, arrivarono i Carabinieri Reali e lo arrestarono.

Primo Baiardi, che aveva prestato servizio con le truppe germaniche in qualità di Finanziere sul Po, decise di consegnarsi ai Militi dell’Arma dopo che il 5 Maggio aveva ricevuto la minacciosa visita di alcuni partigiani che lo volevano portare via ma, riconosciuti, avevano preferito rimandare.

Il 5 Maggio, era stato arrestato a S. Mauro a Mare dai ribelli e consegnato ai Carabinieri Reali il Milite Ernesto Buda, addetto alla guardia della Fornace “Malta” di Forlì durante la RSI.

Mentre tutto ciò avveniva, alcuni fascisti della zona non furono così “fortunati” e vennero direttamente passati per le armi da improvvisati Plotoni di “giustizieri della morte”. Dopo un duplice omicidio registrato a Torre del Moro, il 6 Maggio il fascista Celso Righini, già Guardia lungo la linea ferroviaria, decise di costituirsi spontanea-mente alla Stazione dei Carabinieri Reali, certo di non aver nulla da temere e di essere così protetto da eventuali “rappresaglie” partigia-ne. Anche lui venne associato alle carceri di Cesena, come tutti gli altri.

Leggermente diversa la storia di Edgardo Cedrini e Attilio Nicolini, Militi della GNR, residenti a Perticara di Novafeltria (Pesaro), che al momento del crollo del fronte si trovavano ricoverati presso l’Ospedale militare di Nave (Brescia), dal quale erano usciti dopo aver ricevuto un regolare foglio di licenza con quaranta giorni di convalescenza. Accortisi della situazione militare al collasso, sebbene ancora ammalati, decisero allora di dirigersi verso casa. Dopo sette giorni di cammino, il 2 Maggio 1945 raggiunsero Savignano di Rigo, frazione del Comune di Sogliano al Rubicone (Forlì), ma vennero subito catturati dai partigiani e selvaggiamente malmenati. Il Nicolini implorava di poter rivedere per l’ultima volta i suoi figli; il Cedrini di voler almeno salutare i suoi genitori. Ma non ci fu nulla da fare, furono condotti, dopo nove chilometri di “calvario”, alla Stazione dei Carabinieri Reali di Mercato Saraceno. Durante il tragitto vennero selvaggiamente bastonati, anche da uno Slavo – tale Ivan Toicen – che si era unito al gruppo di partigiani. Alla vista dei due fascisti ridotti in uno stato pietoso, il Comandante della Stazione reagì dicendo che non lì dovevano essere portati, ma in ospedale. Erano “irriconoscibili” per le percosse ricevute (cfr. relazione del V.Brig. Gino Pergoli, C.te int. la Stazione CC di Mercato Saraceno, datata 29 Agosto 1946, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

I due Militi, nonostante le condizioni fisiche, furono rinchiusi comunque nella locale cella e, il giorno successivo, viste le minacce degli antifascisti, trasferiti alle carceri di Cesena, alla Rocca Malatestiana.

La Rocca Malatestiana, carcere di Cesena

In un paio di giorni la casa circondariale cesenate si riempì di fascisti, con estrema elettrizzazione da parte degli antifascisti locali cui non parve vero di avere a disposizione delle “prede” inermi.

La Commissione per l’Epurazione, presa dallo zelo della vendetta, fu subito mobilitata per esaminare se tra di loro vi fossero dei “criminali”.

Nessuno era accusato di nulla o poteva essere accusato di nulla. Unica “colpa” per tutti: quella di aver servito la Repubblica Sociale Italiana.

Tutti rimasero in attesa dell’interrogatorio della FSS britannica che avrebbe probabilmente chiarito le loro posizioni. Un interrogatorio, però, che non vi sarà mai in quanto, poche ore dopo, si scatenerà su di loro la bufera di sangue dell’odio partigiano.

L’8 Maggio 1945 fu giornata di festa grande per gli antifascisti. La Germania aveva finalmente capitolato, la guerra in Europa era davvero finita. Come non festeggiare questo evento storico? Come festeggiare questo evento storico?

«Si dia il via alla “caccia al fascista”!», più di qualcuno gridò.

Verso le 23:30 di quell’8 Maggio, Roberto Nubi, custode delle carceri di Cesena, venne svegliato dal suono del campanello del portone di ingresso. Subito sopraggiunsero nella sua camera le due Guardie municipali comandate in servizio di scurezza quella notte su ordine della Polizia Militare britannica: Attilio Candolfini e Delio Della Strada. Piuttosto incuriositi dall’insolita visita notturna, il terzetto, armatosi dei fucili in dotazione, si avviò a verificare chi potesse essere. Probabilmente, i Carabinieri Reali che portavano un nuovo “catturato”.

Scesi nel cortile, però, i tre vennero improvvisamente circondati da una dozzina di individui armati di pistola e mitra e con il volto coperto. Privarono dei fucili le Guardie e il Nubi delle chiavi del portone d’ingresso ed infine chiesero insistentemente ove fosse la cella dei prigionieri politici.

La banda era riuscita a penetrare nel carcere arrampicandosi e scavalcando il muro dal lato Sud, calandosi poi con una corda di una decina di metri all’interno del cortile: «Con le armi impugnate ci intimarono ‘mani in alto’ – ricordò la Guardia Candolfini – e ci aggredirono; il Nubi fu sbattuto contro il muro, io ebbi dei calci al sedere ed il Della Strada dei pugni in volto» (cfr. testimonianza di Attilio Candolfini del 1° Ottobre 1945, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

Il terzetto “catturato” venne condotto sotto la minaccia delle armi nell’abitazione del custode. La Guardia Della Strada fu costretta ad aprire il portone principale del carcere dal quale entrarono altri cinque-sei individui con il volto coperto. Poi, fu unito al custode e all’altra Guardia e recluso nell’abitazione, la cui porta fu sbarrata dall’esterno.

Prima di lasciare il terzetto, i banditi chiesero ed ottennero la chiave d’accesso alla cella dei prigionieri politici.

Pochi minuti dopo, si sentirono delle raffiche di mitra prolungate. Seguite da un’agghiacciante silenzio e poi dal passo affrettato di uomini che attraversavano velocemente il cortile. Convintosi che i banditi avessero lasciato il carcere, il Nubi, con l’ausilio di un coltello da cucina riuscì a forzare lo spioncino della porta dell’abitazione e da qui raggiungere la sbarra che bloccava l’apertura.

Liberi, i tre corsero alla cella dei prigionieri politici, la numero 6, all’ultimo piano del “maschio”. Tutti giacevano ancora nei loro letti, nessuno si muoveva, nessuno respirava più. A terra un tappeto di bossoli. Erano stati tutti massacrati a colpi di mitra. Alcuni avevano fatto appena in tempo ad accorgersi di cosa stesse accadendo, cercando istintivamente di farsi scudo con le proprie mani.

Caddero così assassinati:

 

  • Dante Bagnoli, Milite della GNR, iscritto al PFR, di 20 anni;
  • Primo Baiardi, Milite della GRF, iscritto al PFR, di 42 anni;
  • Luigi Bernardini, Milite del Btg. GNR “Romagna”, di 25 anni;
  • Ernesto Buda, Guardia campestre, di 50 anni;
  • Edgardo Cedrini, Milite del Comando Provinciale della GNR di Cesena, di 27 anni;
  • Giordano Luciano Corelli, Segretario del PFR di Cesenatico, di 31 anni;
  • Urbano Foschi, Milite della GNR a Bologna, iscritto al PFR, di 18 anni;
  • Renato Silvano Gasperoni, Milite della GNR (aggr. Flak), di 22 anni;
  • Leonenne Lombini, Ufficiale delle FF.AA.RR., di 47 anni;
  • Attilio Nicolini, Milite del Comando Provinciale della GNR di Cesena, di 34 anni;
  • Fernando Pieri, Milite della GNR, iscritto al PFR, di 18 anni;
  • Cesare Righini, iscritto al PFR, di 24 anni;
  • Sergio Romagnoli, Milite della GNR, di 18 anni;
  • Rino Rosetti, Milite della GNR, iscritto al PFR, di 36 anni;
  • Francesco Semprini, Sottotenente del III Btg. Par. “Azzurro”, di 23 anni;
  • Guglielmo Zamagni, Sergente delle FF.AA.RR., di 40 anni;
  • Dino Zoffoli, Milite della GNR, iscritto al PFR, di 20 anni.

 

Constato l’avvenuto massacro, il custode convocò il figlio Benito che, insieme alla Guardia Delio Della Strada, corse ad avvertire i Carabinieri Reali dell’accaduto.

Giunsero sul luogo dell’eccidio il Brig. Giacomo Bernardini con i Militi dell’Arma Virgilio Garbini, Alberto Reginelli, Giovanni Rossini e Libero Casadei. Anche loro non poteron far altro che constatare la morte di tutti i prigionieri politici della cella n. 6.

Ma quel 9 Maggio 1945, a Cesena fu “festa grande” per gli antifascisti. Questo non fu certo l’unico crimine compiuto.

Ha ricordato Giancarlo Navacchia, che quel giorno si trovava in città con un giovanissimo amichetto: “[…] Proseguiamo e a metà di Via Garampo, sulla sinistra (allora vi erano degli orti), vediamo steso a terra un militare imbrattato di sangue, la camicia e i calzoni strappati e senza scarpe, tiene le mani sullo stomaco dove da un’orrenda ferita fuoriescono gli intestini, non lontano due uomini con fazzoletto rosso al collo ci fanno segno col mitra di proseguire alla svelta. [Il ferito incontrato nella zona degli orti in Via Garampo è Mario Gavelli, fascista, morì dopo due ore di straziante agonia]. Il mio amico ed io corriamo, bianchi in volto, senza parlare. Ci fermiamo all’inizio del Gioco del Pallone dove incontriamo alcune donne che piangono, e sulla destra, a pochi metri dal portone della Rocca, il corpo di un militare crivellato a morte, dalla bocca esce un filo di sangue, dalle mostrine capisco che è un graduato della Guardia Naz. Repubblicana. Bossoli di mitraglia attorno. [Il graduato della G.N.R. ucciso sulla destra del portone della Rocca, di cui non si è mai saputa l’identità, venne sepolto in una fossa comune del cimitero]. Sulla sinistra, vicino alla cisterna dell’acqua ove ora vi è la zona chiamata ‘la pinetina’, notiamo tre uomini armati e con un fazzoletto rosso al collo, guardano qualcosa a terra, mi avvicino e scorgo il corpo accartocciato di qualcuno, dapprima non riesco a capire se di uomo o di donna tanto il viso è deformato dalle ferite, i capelli rasati, la nuca tinta con vernice rossa; ha lo stomaco e il ventre letteralmente squarciati da profonde ferite, un braccio staccato. È una donna morta a seguito di inimmaginabili torture. [La donna uccisa sulla sinistra del portone della Rocca è Iolanda Gridelli, nata in una modesta famiglia e abitante a Borgo S. Rocco di Porta Fiume, bollata come collaboratrice perché molto vicina agli ambienti fascisti e fidanzata con un Tenente della GNR. Venne prelevata alle ore 18 dalla sua abitazione, rasata e malmenata, costretta a pugni e calci a raggiungere il cancello del parco che si trova alla fine di Viale Mazzoni. Qui fu gettata a terra, afferrata per i piedi e trascinata fino sotto le mura della Rocca e nuovamente percossa con pietre e bastoni. Alle ore 20 la giovane donna che era incinta di pochi mesi, fu finita mediante sfondamento del ventre. Sua esecutrice un’altra donna: una iena partigiana di inaudita ferocia. Il corpo della giovane fu recuperato il mattino seguente]. (G. Navacchia, Cesena, 9 Maggio 1945, “L’Ultima Crociata”, a. LVII, n. 5, Maggio 2007; cfr. anche Cesena, “Acta”, a. XXIX, n. 1, Gennaio-Marzo 2015).

Ha scritto Piero Pasini: “Per rendere più completa la giornata, si dovette registrare un caso di linciaggio pubblico. Gridelli [Jolanda] aveva da poco passato i venti anni e proveniva da una famiglia poverissima di Porta Fiume. Accusata di essere ‘spia dei fascisti’, prima del passaggio del fronte aveva seguito il suo uomo al Nord. Rientrata, incinta, al termine delle ostilità fu subito riconosciuta e linciata. Per questo fatto esiste la testimonianza di Montesi Maria: «Mi trovavo a passeggiare nel parco della Rocca assieme al mio fratellino… non ho mai dimenticato la scena. Una giovane donna giaceva supina sull’erba… Era crivellata da minuscole ferite, come se le avessero sparato anche con pallini da caccia… attorno a lei c’erano una decina di giovani armati e non, che discutevano animata-mente… uno voltandosi verso l’uccisa le sputò in faccia… anche gli altri presero a sputare ripetutamente su quei miseri resti… un militare alleato, forse inglese, si tolse di tasca il fazzoletto e lo pose sul volto dell’uccisa»” (P. Pasini, Sucida truppa senza onore, pronta a servire ovunque ci sia da saccheggiare o da uccidere senza correre rischi. Assassinii di cesenati ad opera dei partigiani 1945/46, “L’Ultima Crociata”, a. IL, n. 1, Gennaio-Febbraio 1999).

Tornando all’eccidio della Rocca Malatestiana, le indagini – condotte dalle Autorità di occupazione alleate, le uniche che avevano il potere in tutta la provincia – precedettero a rilento, come se nessuno fosse realmente interessato a scoprire chi fossero i banditi autori del massacro. Nessuna informazione si riuscì a reperire sul “mercato”, la popolazione terrorizzata si rinchiuse in se stessa, nel timore di vendette partigiane. Tuttavia, agli inquirenti non sfuggì un episodio avvenuto il giorno prima dell’eccidio: improvvisamente, senza una motiva-zione valida, tre fascisti detenuti nella cella n. 6 erano stati trasferiti in un’altra stanza ed associati ai delinquenti comuni.

Si sospettò allora che qualcosa potesse sapere Fabio Ricci, Commissario all’Epurazione, che entrava ed usciva dal carcere in quelle ore per interrogare i prigionieri politici e poteva disporre trasferimenti del genere. Venne addirittura arrestato dalle Autorità alleate, ma quasi subito rilasciato per mancanza di prove a sostegno dell’accusa.

Per oltre un anno il massacro delle carceri di Cesena rimase un “mistero”. Tra i partiti antifascisti vi fu ovviamente un’accettazione dell’accaduto considerato inevitabile e molti commentarono favorevolmente l’accaduto. Omertà, paura, minacce, complicità, soddisfa-zione, vendetta, furono tutti ingredienti che permisero il calo di una “cortina di ferro” sulla drammatica vicenda.

Gli stessi famigliari delle vittime vennero discriminati e perseguitati: «La sera dell’11 Giugno 1946, vennero a Perticara [in provincia di Pesaro] varie persone di Savignano di Rigo per celebrare l’avvento della repubblica. Fra costoro venne pure un certo Santolini Adelmo di Savignano di Rigo, il quale, come vide per strada Tani Teresa, vedova dell’ex Milite Nicolini Attilio, le si avvicinò in atteggiamento minaccioso; la Tani allora raccolse un sasso per difendersi ed in quel mentre sopraggiunse la moglie del Santolini, [la] quale si mise ad aizzare il marito, dicendogli: “Sparale, sparale!”. Al che il Santolini, che aveva estratto la rivoltella, ebbe a pronunziare queste parole: “Non farti avanti se no sparo anche a te!”. La Tani fu poi gettata a terra con violenza dal Santolini, ma fu sottratta a più pericolose conseguenze dall’intervento di altre persone presenti» (testimonianza di Pio Marchetti, datata 15 Gennaio 1947, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

Il 27 Luglio 1946 vi fu un fatto clamoroso che sembrò risolvere il caso. Rino Errico, nato a Napoli, classe 1923, Comandante del 2° Gruppo Sabotaggio della Divisione “Garibaldi” del PCI (quella operante nella zona di S.Sofia-Forlì-Ravenna-Faenza-Valli Comacchio), fratello di un ragazzo ucciso dai Tedeschi (?), ristretto nelle prigioni di Casale Monferrato, già accusatosi di essere tra gli autori della strage di Schio, si accollò – con una lettera alle Autorità alleate – anche la responsabilità del massacro delle carceri di Cesena. Un eccidio che, per le modalità dell’esecuzione, sembrava proprio costituire “il precedente” della successiva mattanza di Schio.

Secondo quanto dichiarato dall’Errico, era a Venezia con altri partigiani quando seppe che a Cesena erano stati arrestati «alcuni fascisti colpevoli di strage» e ritenne quindi «opportuno di compiere giustizia sommaria». «Con la scusa di portare il pranzo ad un detenuto», la banda penetrò di sorpresa nel carcere e si apprestò a massacrare tutti i fascisti lì detenuti (cfr. interrogatorio di Rino Errico, datato 17 Agosto 1946, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

Era davvero arrivata la “svolta”. Dopo oltre un anno di silenzi più totali, finalmente si poteva archiviare il caso, quando l’analisi delle dichiarazioni dell’Errico portarono i Giudici a sospettare che qualcosa non quadrasse. Infatti, le modalità di incursione nel carcere non erano assolutamente state quelle denunciate dall’Errico. E il dubbio che il Comandante partigiano, che si era comunque rifiutato di firmare il verbale, si fosse inventato tutto, cominciò a farsi strada tra gli inquirenti.

A questo punto, il 29 Agosto 1946, come estremo atto di coraggio, due parenti delle vittime – Giovanni Cedrini, papà del povero Edgardo; e Livio Nicolini, fratello dello sfortunato Attilio – presentarono dettagliata denuncia presso la Stazione dei Carabinieri di Mercato Saraceno contro sette partigiani (o sedicenti tali), tutti di Savignano di Rigo, frazione del Comune di Sogliano al Rubicone, accusati di essere complici della strage. Erano coloro che avevano fermato i due Militi della GNR il 2 Maggio 1945: Antonio Amadei, Giulio Gori, Francesco Lanzoni, Adelmo Santolini, Quinto Savoia, Ennio Ugolini e Primo Vitali.

Costretti da questa circostanziata denuncia – che, però, portava scarse prove a sostegno dell’accusa – si fu costretti ad un supplemento di indagine e si ripartì dall’unica “stranezza” rilevata all’indomani del massacro, ossia al trasferimento improvviso di tre fascisti dalla cella n. 6 dei politici a quella dei delinquenti comuni, avvenuto la sera precedente l’arrivo dei banditi.

Si sospettò ancora che ad ordinare il trasferimento era stato Fabio Ricci, Presidente della Commissione per l’Epurazione, che entrava ed usciva dal carcere di Cesena dove interrogava i prigionieri politici. Il trasferimento sarebbe stato determinato dal fatto che ormai nella cella n. 6 i detenuti erano troppi. Ma i tre trasferiti sembravano a tutti dei “graziati”.

L’opinione pubblica, per quanto ancora in preda al terrore, teme l’ambiente politico e tenta far conoscere alle Autorità qualche nomignolo degli eventuali esecutori dell’eccidio, ma in modo così vago che l’identificazione è sempre impossibile.

Si pensa che gli esecutori dell’eccidio del carcere di Cesena furono i medesimi di quelli dell’eccidio del carcere di Schio e pare che essi vennero reclutati da elementi stranieri allo scopo di fomentare gli odi di classe e punire con la morte i fascisti pericolosi.

Dagli atti processuali si sono rilevati il nome di un certo Enrico Primo [sic; leggasi “Errico Rino”] di origine napoletana e di certi Luciano, Tigre, Lupo e Corbara. […]

Negli stessi atti processuali si è fatto il nome di Ricci Fabio […] allora Commissario per le sanzioni contro il fascismo Sezione di Cesena. Questi effettivamente frequentava il carcere per ragioni del suo ufficio di Commissario dell’Epurazione e tutti i giorni interroga i fascisti che in istato d’arresto giungevano dal Nord Italia.

In quel periodo erano comandati di servizio al carcere, per ordine del Governatore alleato, oltre ai custodi, n. 6 Guardie municipali di recente recluta, le quali in tre turni facevano otto ore si servizio al giorno.

Si disse, appunto, che il Ricci sia stato proprio quello che abbia, prima dell’eccidio, selezionato i detenuti, togliendo fra quelli destinati alla morte, alcuni fascisti meno temibili e di età molto giovani.

Anche questo particolare non ha fondamenta consistenti e si ritiene che siano supposizioni popolari solo perché Ricci era, per ragioni del suo ufficio, sempre al carcere.

Immediatamente dopo l’eccidio egli fu fermato dalle Autorità alleate e fu rilasciato dopo qualche giorno perché a suo carico non furono raccolte prove di colpabilità.

Tempo dopo l’eccidio, il carcere, per quanto riguardava i fascisti, passò sotto la sorveglianza di elementi partigiani comandati dallo stesso Ricci, sempre per ordine del Governatore alleato.

Nell’opinione pubblica si raccolse anche la voce che fra gli esecutori dell’eccidio vi poteva essere il nominato Francia Alberto […] attualmente in carcere per duplice omicidio a scopo di rapina e per associazione per delinquere.

Il Francia è in effetti ritenuto l’elemento capace di qualsiasi azione delittuosa, ma per quanto si sia indagato per raccogliere prove sulla sua eventuale partecipazione all’eccidio, non si è potuto stabilire se egli vi abbia preso parte o meno.

Richiamando il rapporto dell’8.10.1945 di questo Comando si conferma che l’azione è stata studiata nei minimi particolari perché rimanesse avvolta nel mistero, fu iniziata elementi forestieri che vennero a contatto con elementi del luogo.

Circa i prelevamenti di fascisti nelle loro case e portati al carcere non si è potuto accertare altri elementi oltre a quelli risultanti nel processo” (relazione del Mar. Magg. Salvatore Ficarra, C.te la Stazione CC di Cesena, datata 21 Febbraio 1947, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

E i mesi passavano, mentre gli inquirenti brancolavano nel buio di un’omertà sempre più diffusa e di un terrore ormai assurto a sistema di governo locale.

A quasi due anni dal massacro, tre erano le ipotesi di indagini su cui si investigava inutilmente:

 

  • il Comandante partigiano Rino Errico;
  • il Commissario per l’Epurazione di Cesena Fabio Ricci;
  • i partigiani di Savignano di Rigo.

 

Nessuna delle tre ipotesi era sostenuta da prove a sostegno dell’accusa.

Il 16 Giugno 1947, usciva di scena il Comandante partigiano Rino Errico. Davanti al Giudice istruttore, infatti, ritrattò, dichiarando di essersi inventato tutto perché stanco di vivere e speranzoso in una condanna a morte che potesse mettere fine alla sua infelice vita.

Un semplice riscontro avrebbe fatto evidenziare che l’8 Maggio 1945, Errico era detenuto, a Ravenna, in seguito alla condanna da parte delle Autorità alleate “per possesso ingiustificato di armi”. Era stato arrestato addirittura nel Gennaio 1945 e da allora non aveva mai lasciato le case circondariali!

Nell’Ottobre 1947, ancora si brancolava nel buio, tanto che la Procura della Repubblica di Forlì dovette evidenziare come, nei giorni successivi al massacro, “infruttuose […] furono le indagini della Polizia, che è opportuno però rilevare, non pose quella diligenza e quell’impegno che sarebbero stati doverosi data l’eccezionale gravità del delitto, né affiancò l’opera dell’Autorità giudiziaria” (relazione del S. Procuratore della Repubblica di Forlì, datata 27 Ottobre 1947, in ASBO, Corte d’Appello, PP, SI, f. 72-48).

La stessa Procura insistette sulla figura del Commissario all’Epurazione Fabio Ricci che nel pomeriggio dell’8 Maggio 1945 aveva trasferito tre detenuti politici – tra cui tale Fiorello Bellavista – della cella n. 6 tra i delinquenti comuni. Si faceva notare, inoltre, che i genitori dei tre fascisti trasferiti erano tutti divenuti simpatizzanti del Partito Repubblicano Italiano improvvisamente. Fu chiaro come, quel giorno, qualcuno del PRI fosse intervenuto in favore dei tre fascisti salvandogli la vita.

Prove a sostegno delle tue tesi? Ancora nessuna. Solo voci. Le solite voci di paese che si rincorrevano e si sovrapponevano, tra chi si glorificava per vanagloria di aver partecipato alla mattanza e chi diceva di sapere chi fosse stato presente.

Secondo Giancarlo Navacchia, nella cella n. 6 era ristretto anche il Commissario prefettizio di Cesenatico e Podestà di Coriano durante la RSI. Anche lui, nel pomeriggio dell’8 Maggio, era stato trasferito in un’altra stanza dopo essere stato interrogato, per ordine dell’Avv. Davossa, Giudice istruttore. (cfr. G. Navacchia, Cesena, 9 Maggio 1945, “L’Ultima Crociata”, a. LVII, n. 5, Maggio 2007).

In quei giorni, a Cesena spirava una chiara aria di vendetta. Molti antifascisti chiedevano una dura “rappresaglia” contro i fascisti per vendicare gli otto partigiani fucilati il 3 Settembre 1944 proprio alla Rocca Malatestiana da elementi della 25a Brigata Nera “Arturo Capanni”. Se gli Squadristi avevano fucilato otto ribelli, gli antifascisti ne avrebbero uccisi per vendetta il doppio, sedici.

Ma nulla fu possibile provare. Neanche che fu il Ricci a trasferire i prigionieri politici. Ci si limitò ad affermare che il trasferimento fu dovuto all’intervento di dirigenti del Partito Repubblicano Italiano facenti parte della Commissione per l’Epurazione.

Il 16 Febbraio 1948, visti gli atti processuali, non risultando indizi sugli autori del barbaro crimine, la Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Bologna che aveva seguito il caso stabilì il “non doversi procedere, per essere ignoti coloro che hanno commesso il reato”.

L’8 Maggio 1950, la vedova Lombini, madre di cinque figli orami resi orfani di padre, tentò di citare in giudizio il Ministero di Grazia e Giustizia per un risarcimento danni, dovuti in base a presunte colpevolezze dei custodi del carcere di Cesena, che non avrebbero agito secondo le norme per impedire l’infiltrazione di civili armati all’interno della casa circondariale.

Il caso poi ebbe nuova celebrità nell’Agosto 1953, quando la Procura della Repubblica di Forlì – in tutt’altro clima politico – si interessò dell’eccidio, disponendo ulteriori indagini.

Il tutto era nato da un articolo de “Il Secolo d’Italia” del 14 Agosto, rilanciato anche da “La Notte” del 29 Agosto, con cui si accusava la Polizia e la Giustizia “di colpevole inerzia di fronte ad un crimine che tanto commosse l’opinione pubblica”. Addirittura, su “La Notte”, un autore ignoto asseriva di conoscere gli autori e di averli visti in giro.

Il Procuratore della Repubblica di Forlì Dott. Nicola Petta, davanti alle accuse della stampa, riconoscendo la “colpa degli organi di polizia dell’epoca”, decise di predisporre nuove indagini. A coloro che lo sconsigliarono di procedere, tanto l’amnistia decisa da Togliatti copriva anche questi criminali, il Procuratore rispose, forzando un po’ la mano, che per alcuni degli uccisi il movente politico non poteva essere chiamato in causa: si trattava di omicidi comuni.

Fu così che ripartirono le indagini.

Se ne interessò il Cap. Divo Capecchi, Comandante la Compagnia CC di Cesena che, essendo stato, nel 1945, Comandante interinale della Compagnia dei Carabinieri Reali di Ferrara, di massacri partigiani – senza nessun colpevole identificato – era piuttosto pratico. Schema classico del periodo, tanto per essere chiari: ritrovamento casuale di una fossa comune; indagini; nessun indizio; chiusura indagini; nessun colpevole.

Il Cap. Capecchi, nell’Ottobre 1953, assumendo l’incarico, faceva notare al Procuratore che l’articolista de “Il Secolo d’Italia”, tale Primo Piraccini, che aveva riaperto polemicamente il caso con il pezzo Troppi non hanno pace. Nessuno vuol fare il processo dei morti di Cesena, non poteva essere preso in seria considerazione. Quindi?

Il 1° Dicembre 1953, il Cap. Capecchi fu affiancato nelle indagini dal Mar. Magg. Guglielmo Forconi, senza che però si registrassero risultati di sorta. Anche in questo caso, gli accertamenti si protrassero per lunghi mesi, addirittura anni, senza giungere a nessuna conclusione.

Il 26 Settembre 1956, il Magg. Leopardi Piccini, Comandante il Gruppo Carabinieri di Forlì, doveva comunicare alla locale Procura della Repubblica l’inutilità delle indagini fino ad allora condotte.

Il caso poteva considerarsi chiuso. Per sempre. L’omertà e la paura presero allora il sopravvento, rapendo il cuore e la coscienza di molti, fino ai nostri giorni.

Nessuna lapide ricorda il sacrificio dei diciassette innocenti combattenti della Repubblica Sociale Italiana, assassinati dai banditi quella maledetta notte dell’8 Maggio 1945.

Ancor oggi la paura si addensa come una nebbia fitta attorno alle anime dei cesenati. Ma c’è chi non ha dimenticato ed un giorno si tornerà a parlare di loro. Pubblicamente.

 

Pietro Cappellari

(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 4, Maggio-Giugno 2023)

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