Le parole del nemico aumentano di numero ogni giorno e il fatto che vengano inventate da istituzioni accademiche ufficiali e diffuse h.24 dalla macchina della comunicazione non lascia dubbi sulla natura di operazione cognitiva studiata a tavolino. Alcune conclusioni e correlazioni sono così assurde da rendere evidente l’attacco alla nostra capacità di giudizio. Il vocabolario del Sierra Club, ad esempio, dichiara che “le donne, le persone transgender e quelle che non si conformano alle norme di genere (???) corrono un maggiore rischio di ingiustizia ambientale”. Affermazioni apodittiche prive di fondamento, espresse in neolingua.
All’università di Stanford sono più onesti; il loro dizionario ha il pregio della chiarezza: si chiama infatti “Guida al linguaggio nocivo” e si propone di eliminare le parole e le espressioni “dannose”. Come sempre, è dato per acquisito il concetto di nocività: sono tali tutti i significanti e i significati che negano il postulato di uguaglianza ossessiva, di equivalenza generalizzata. E’ il senso finale della formattazione cognitiva: l’imposizione di un’omologazione astiosa, rabbiosa, vittimista, nemica delle individualità, negatrice dell’evidenza e quindi del pensiero libero. La novità è che si accompagna alla più grande delle disuguaglianze, quella economica: nulla da eccepire sulla privatizzazione del mondo a favore di un’oligarchia onnipotente – tendente a diventare una specie a parte – imposizione di un orizzonte servile, apertamente zootecnico, per il resto dell’umanità, destinata a non avere nulla e non essere nulla.
Il documento neolinguistico di Stanford si intitola “Iniziativa per l’eliminazione del linguaggio nocivo”, un progetto che va oltre le parole, poiché costringe la mente ad acrobazie del pensiero e torsioni psicologiche per negare ciò che vede. Il termine “dipendenza” è vietato poiché alimenterebbe “la credenza che le dipendenze siano anormali”. La guerra contro la verità e la realtà si estende all’aborrita categoria di normalità, che va espunta per essere estesa – capovolta – a ogni condotta o preferenza, con il risultato di dinamitare il concetto stesso di società, abolendo il confine tra bene e male. Un capitolo è dedicato al linguaggio “impreciso”, esempio perfetto di inversione orwelliana. Aborto non piace (impreciso?), meglio “fine” o “termine”. Di che cosa?
Curioso l’ostracismo per il termine “ispanico”, da sostituire con “latinx”, tre volte impreciso. Non dà conto della nazionalità, evita di riferirsi alla lingua madre e, attraverso la “x”finale “, omette di indicare il “genere”, la solita ossessione , prova della volontà di abolire il dimorfismo uomo-donna. Risparmiamo al lettore l’incredibile quantità di capriole verbali per normalizzare ogni bizzarria sessuale, principale campo di battaglia della guerra cognitiva. Interessante è la preferenza per gli acronimi; doppia vittoria neolinguistica, poiché il sintagma “corretto” è già una neutralizzazione, uno scarto di significato. L’uso dell’acronimo permette di celare del tutto la natura di ciò esprime: falso significante per nuovo significato. Alcuni esempi: GPA (gestazione per altri) rende accettabile, perfino altruistica, la pratica dell’utero in affitto, IVG (interruzione volontaria di gravidanza) è l’algida sigla burocratica dell’aborto. Nuovissimo è BIPOC, acronimo di black, indigenous, people of color, ne(g)ri, indigeni, gente di colore, per oltrepassare, dicono, gli “stereotipi di razza”.
All’acribia non sfugge il calendario, rinnovato tenendo conto delle festività di ogni tradizione etnica e religiosa, per evitare che “un evento o una conferenza coincida con qualcuna delle ricorrenze”. Silenzio generale, tenuto conto delle infinite giornate celebrative inventate dall’efficiente fabbrica dell’inclusione. A giugno, porte aperte ai “gay pride”, le processioni della nuova anti religione, la cui bandiera sventola anche sulla Casa Bianca. Il drappo arcobaleno, simbolo inizialmente del pacifismo, passato a rappresentare il rigetto delle identità nazionali e comunitarie, è ora diventato il vessillo della rivoluzione sessuale LGBT (“famiglie arcobaleno”), acronimo fluido con iniziali variabili, le ulteriori pseudo identità “non binarie” e l’aggiunta del segno +, aperto a nuove acquisizioni, una volta spalancata la finestra di Overton della “normalizzazione” di ogni pulsione malata sotto l’ombrello rassicurante dell’ “orientamento sessuale”.
Perfino “indian summer”, la nostra estate di San Martino, va abolito. L’alternativa è “late summer” estate in ritardo, per non suggerire che i “nativi americani” siano arretrati. Follie miranti a destrutturare l’intero impianto cognitivo, esiti che non possono sfuggire a chi le propone, un cambiamento neuropsicologico teso a favorire il salto antropologico e successivamente ontologico. Ciò è dimostrato anche dalla riconversione di alcune parole chiave, come tolleranza e fobia, oltre all’ invenzione della resilienza. Tollerare significa in origine accettare, sopportare qualcosa che non piace; la nuova accezione impone la tolleranza come attitudine obbligatoria, alla base del quale c’è il divieto di giudicare, valutare, preferire, respingere. Ingabbiati nella tolleranza – falsa virtù dell’indifferenziato – cessiamo di essere titolari di libero arbitrio e pensiero autonomo.
Neanche cittadino è parola buona: potrebbe offendere chi non lo è. Cartellino rosso per “illegale” se riferito agli immigrati, che a loro volta non devono essere definiti tali e neppure stranieri. Un indigeribile pappone, la notte in cui tutti i gatti sono grigi, il solito, totalitario divieto di pronunciare le parole della verità. In una società sempre più violenta, gli angeli invertiti propongono di modificare espressioni popolari come “a prova di bomba” con garanzia di successo, “pistola fumante” con prova irrefutabile.
Fobia è il suffisso omnibus che imprime il sigillo negativo a una serie di atteggiamenti e giudizi (il giudizio, nemico assoluto dell’ideologia neolinguistica). Se preferiamo noi stessi agli stranieri – istinto di ogni popolo – siamo xenofobi; se non applaudiamo freneticamente l’inversione sessuale, siamo omofobi, con l’aggiunta di transfobia e addirittura “omobitransfobia”. Omofobia è parola ridicola: “paura dell’uguale”, un salto triplo per significare (condannare) avversione per gli omossessuali. Ogni trasgressione al pensiero unico è rubricata come fobia, malattia psichica più malvagità più anormalità (alla faccia dell’inclusione!). La psichiatrizzazione del dissenso è già in atto, con sinistre analogie sovietiche.
Il quid pluris neolinguistico è il “discorso di odio”, ossia la stigmatizzazione penale – preceduta dal proibizionismo verbale, ovvero divieto di pensiero – di un sentimento, per di più presunto. L’odio è un pessimo sentimento, ma non può diventare titolo di reato. Dio ci guardi dall’impero dei “buoni”. La resilienza – parola rubata alla fisica, l’attitudine di un materiale ad assorbire un urto senza rompersi, prestata alla psicologia, capacità di superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà – in neolingua cela un imbroglio. Definisce virtù la sopportazione di eventi negativi o restrizioni imposte dal potere senza opposizione, impone l’adattamento rassegnato, respingendo nel “discorso di odio”l’antagonismo. Il male cambia abito e diventa bene: miracoli del dominio globalista.
Sostenevamo dianzi che uno degli obiettivi dell’ossessione neurolinguistica è l’omologazione totale che riduce l’essere umano a capo di bestiame, codice a barre, schiavo di una casta di signori neofeudali pressoché onnipotenti, l’oligarchia di illuminati padroni di tutto, dai beni materiali alla nostra mente. La tesi acquista peso dinanzi alla guida linguistica della Johns Hopkins University. Essa rivela uno delle più incredibili distopie contemporanee, addirittura l’abolizione della donna.
Già in crisi per l’assurda definizione del dizionario di Cambridge (“persona adulta che si identifica con il genere femminile, indipendentemente dal sesso attribuito alla nascita”) un’enciclopedia di parole nemiche, la donna è squalificata in radice a partire dalla definizione di “lesbica” fornita nella guida. “Persona che non è un uomo attratta da persone che non sono uomini”. Qui usciamo dal territorio della neolingua per entrare nell’ambito dell’odio verso il cinquanta per cento dell’umanità. Un miscuglio inquietante di eterofobia (parliamo come loro…) misoginia e ginecofobia, rafforzato da furibonda negazione della realtà.
La parola donna è proscritta. Dopo aver decostruito l’uomo e il padre – la legge, la protezione e la trasmissione dei valori della comunità – sembra che Eva non esista più, un’entità fantasma ridotta a “non uomo”. Il maschio gay invece esiste, con la qualifica di “uomo che si sente emozionalmente, romanticamente (oh…) affettivamente o relazionalmente attratto da altri uomini o che si identifica con la comunità gay”. Ci siamo, ecco la confessione: il glossario è chiaramente opera di maschi omo. Provano insieme odio, paura e disgusto dinanzi al concetto di “donna”; nessuna delle varie ondate del movimento femminista ha dovuto confrontarsi con un tale disprezzo.
Gli ambienti accademici, luoghi della conoscenza e della cultura, sembrano incapaci di definire il concetto di donna, neppure nei suoi fondamenti biologici. Sappiamo di esprimere un’opinione controversa, ma è il segnale del potere di una lobby omosessuale maschile che detesta il femminile. In Gran Bretagna il servizio sanitario nazionale ha eliminato la parola donna dalla sua guida, sostituita da “titolare di collo uterino”.
L’attacco linguistico – innegabile – cela qualcosa di (ancora) innominabile. La donna è detestata, a nostro avviso, in quanto portatrice dello straordinario potere di contenere in sé e dare la vita. E’ la negazione della sterilità programmatica della società mortuaria in cui stanno trasformando l’agonizzante occidente, in corsa verso la gaia morte. Gaia in quanto vissuta come un gioco, innalzata a felice “scelta di civiltà” (altro sintagma neolinguistico) e gaia nell’ altro senso. Il termine universale con cui si deve obbligatoriamente chiamare l’orientamento omofilo richiama la gioia, l’allegria. Gay è dunque la scelta che produce felicità, il modo migliore per conseguire il più singolare dei diritti stabiliti dalla costituzione americana, la “ricerca della felicità”. Capovolgendo il concetto, dovremmo persuaderci che la scelta secondo natura (cisgender, etero, o come vogliono definirla) è triste.
Si è passati da presentare le due identità – maschile e femminile – come costrutti sociali, negando la natura (ridefinita biologia, che è la scienza della natura) per cadere nel pozzo nero di nuovi tabù. La donna – suggeriscono i soloni della Johns Hopkins – non ha caratteristiche obiettive, si definisce solo in negativo, tanto da non poter neppure essere nominata. Viene quindi ridotta – come e più dell’uomo – a cosa, prodotto di consumo, caricatura della condizione “non maschile”.
Nessun essere “normale” può pensarla così, negando in un sol colpo natura e biologia, storia, psicologia e antropologia. Vorremmo sbagliarci, ma tale destrutturazione ha obiettivi inconfessati contro la vita e si serve di personalità maschili animate da odio insano per la donna. Pensiamo a certi stilisti i cui abiti mostrano un profondo disprezzo per il corpo, la bellezza, la natura e la psiche femminile. Ribadiamo: la nostra convinzione è che un furioso rancore si concentri sul misterioso, divino potere di trasmettere la vita. Un fine che eccede il tema neolinguistico e lambisce i “novissimi” del mondo contemporaneo, ovvero la volontà di trascendere l’uomo attraverso la tecnica in una corsa prometeica il cui traguardo è l’autocreazione per via tecnologica.
Un tema terribile, definitivo, nemico nel senso più totale. Sembra che cominci a serpeggiare il dubbio in settori del pensiero femminista. Secondo Jennifer Bilek, giornalista femminista progressista, la cancellazione terminologica della donna è un’operazione di ricchi gay e trans decisi a “creare ex novo “esseri umani, impossessandosi della fertilità femminile, soppiantandola attraverso la biotecnologia. Sarebbe in atto “un progetto eugenetico che cancella le donne come fonte della vita”. Investono nelle cosiddette “cliniche di genere”e detengono posizioni di potere politico. Petra De Sutter, transessuale, vicepremier belga, docente di ginecologia, ha parlato apertamente di “riproduzione tecnologica senza donne”.
Altri esponenti dell’oligarchia di potere, il “filantropo” gay Mark S. Bonham, il defunto Ric Weiland, alto dirigente di Microsoft, insieme con altri, avrebbero il progetto di “decostruire il dimorfismo sessuale” per produrre esseri umani attraverso tecniche di trapianto e l’impianto di cellule, organi e tessuti, anche artificiali o di origine animale. Una tecnologia in cui i “genitori” – in numero variabile – sono semplici fornitori di materiale genetico e non necessariamente umani. La Bilek conclude di essersi accorta in ritardo, da femminista storica, del vaso di Pandora che si sta aprendo.
Se è così – speriamo con tutta l’anima di equivocarci – le parole nemiche sono il necessario corollario cognitivo per farci accettare un destino postumano. Il pericolo è talmente grande, totalizzante da sembrare un racconto di fantascienza o una follia di chi lo evoca. Solo la conoscenza, la cultura, la sana diffidenza critica possono aiutarci.
L’ ignoranza odierna somiglia alla società di Fahrenheit 451, la distopia di Ray Bradbury: “gli anni di studio si accorciano, la disciplina si rilassa, la filosofia, la storia, e il linguaggio sono trascurati, l’idioma e la pronuncia vengono gradualmente trascurati. Alla fine, del tutto ignorati”. Vittoria del nemico, fine dell’uomo, unica creatura in possesso del Logos, la parola che si fa Verbo, coscienza, autocoscienza.