“Più sono le leggi e i divieti, più il popolo cade in miseria”
(Daodejing)
I. Sicurezza e linguaggio
Quand’ero un ragazzo – all’incirca mezzo secolo fa – sprecavo la mia vita in molti modi. Per esempio, andavo a scuola. A noi pare normale che un essere umano passi gran parte della sua vita nell’illusione di imparare o d’insegnare qualcosa. Ma ogni individuo sano di mente riderebbe o avrebbe compassione di una simile follia. Così, durante i viaggi noiosi sul treno che mi portava a Milano, guardavo dal finestrino lo scorrere sempre uguale delle cose. E quando cominciavano i primi caldi mettevo la testa fuori, cercando refrigerio nell’aria che sferzava la faccia.
In realtà quest’atto innocente era proibito. Suppongo che motivo ne fosse la sicurezza, questa trista divinità che s’accompagna alla paura e sempre si frappone tra noi e il piacere. Il divieto era espresso in quattro lingue diverse. Non so se ora è cambiato o ne hanno aggiunte altre, come l’arabo: “se ti sporgi e ti capita una incidente è volontà di Allah”, o il cinese: “il saggio non espone la sua testa a rischi inutili”. Sta di fatto che quel finestrino, colpito da un tabù poliglotta, sembrava rivelarmi qualcosa dell’animo umano.
Cosa c’entra un finestrino con l’anima? Forse nulla, o forse l’anima è come la finestra di una casa, nient’altro che un vuoto attraverso cui entrano l’aria e la luce. Basta non chiuderla ermeticamente. Comunque, più che divagazioni poetiche quei quattro divieti stimolavano in me riflessioni morali. Pensavo come ogni proibizione inviti alla sua violazione, incoraggiando quei desideri o quella curiosità che vorrebbe reprimere. Ma c’è modo e modo d’interdire, e quel finestrino ne era la prova.
Prendiamo l’espressione italiana. Diceva semplicemente: “è vietato sporgersi”. Non conteneva alcun comando, solo un’informazione. Sembra una raccomandazione fatta per dovere e quasi di malavoglia. Nutre verso la legge il tuo stesso atteggiamento di sospetto e insofferenza. Ti avverte che qualcuno vuol toglierti la libertà di sporgerti. Nasconde una sorta di solidarietà con chi trasgredisce. Filosofia di un popolo abituato ad esser comandato da altri e a ubbidire per pura convenienza.
L’inglese è invece pragmatico: “It’s dangerous to lean out”, “è pericoloso sporgersi”. Neppure questo è un divieto, solo un avvertimento, un consiglio. Tra persone civili, avvezze a un secolare liberalismo, che bisogno c’è di proibire? È una comunicazione tra due menti educate e intelligenti, due gentlemen che si scambiano un messaggio ovvio e formale, come: “sta piovendo, le consiglio di prendere l’ombrello”.
Il francese sembra inclinare già a una maggior intransigenza: “Ne pas se pencher au de hors”, non sporgersi fuori. Ma più che un ordine è un invito. Lo tradisce la musicalità del verso. Ripetete dentro di voi quella formula, il suo cullante ritmo ternario, l’elegante anacrusi. Ha qualcosa di ammiccante, è una specie di refrain che balla sul ritmo di un valzer bonario, da café chantant.
“Suvvia, monsieur, perché penzolarvi dal finestrino?” mugugna il finto burbero. E intanto sembra invitarvi a farlo, strizzarvi l’occhio. Più che un divieto, in quel “ne pas” v’è una complicità. È l’intendersi tra uomini di mondo, eredi di una morale libertina, esperti nel simulare la virtù più che nel praticarla.
Solo nel tedesco vibra il tono di una vera proibizione: “nicht hinauslehnen (!)”. Due sole parole – dure, secche, spietate. Sembrano l’abbaiare di cani poliziotto. Ha la stessa fermezza di un comandamento biblico: non mentire, non rubare, non uccidere. Sul trasgressore sembra incombere un terribile castigo. Mi chiedevo se i tedeschi si ritenessero divini o se Dio fosse di razza teutonica. Quest’ultima ipotesi renderebbe però paradossale la Sua predilezione per il popolo ebraico.
In ogni caso, Dio non dice “è vietato desiderare la donna d’altri”, come farebbe un italiano, lasciandovi intendere che lui stesso la ritiene un’odiosa imposizione. Neppure dice “è pericoloso desiderare la donna d’altri”, con flemma anglosassone, alludendo agli effetti collaterali, spesso spiacevoli, di un simile desiderio. Tantomeno, vi esorta a evitare il peccato borbottando un accomodante “ne pas”, alludendo maliziosamente al piacere di qualche liaison dangereuse.
Dio non ci dà un ragguaglio né un consiglio, non ci lancia ammiccamenti e sguardi d’intesa. Decreta, ordina. È il comando di un tiranno o di un antico sultano, perentorio e assoluto. E nelle stesso tempo assurdo, perché è impossibile non desiderare quello che piace. Proibirlo non fa che renderlo più desiderabile. Mi pareva impossibile che Dio non lo sapesse. Forse, conoscendoci, voleva solo indurci in tentazione, per poi mostrarci la necessità della Grazia.
II. Sicurezza onnipresente
Ma se era questo lo scopo, Dio dovrebbe aggiornarsi. La Sua psicologia è ormai obsoleta. Quel che oggi sembra rendere più felici le persone è proprio ottemperare a obblighi e divieti, non importa quanto innaturali, insulsi o dannosi. La gente ama conformarsi a regole stabilite da altri, perché ciò le dà un senso di sicurezza e la solleva da ogni responsabilità. È un sentimento ambiguo, il nostro rispetto per la legge e la costrizione. Espressione di un oscuro bisogno d’essere punito e insieme del bisogno di punire. Retaggi di quel bambino e di quell’aguzzino che sonnecchiano uno accanto all’altro in ognuno di noi. Sta di fatto che son molti a provare una morbosa voluttà nell’ubbidire, contenti d’esser chiusi come uccelli nella loro sicura gabbietta.
‘Sicuro’ è chi è sine cura, senza affanno, ma oggi ad assillarci è proprio questa ricerca di una sicurezza sproporzionata e grottesca. Potrei definirne l’eccesso con un caso emblematico. Fermo in auto a un passaggio a livello, calcolo che le sbarre restano abbassate per cinque minuti (300 secondi) per consentire a un treno di transitare di lì per per 5-10 secondi. La misura della sicurezza eccede quindi di 30-60 volte la necessità reale. Anche concedendo un logico margine alla prudenza, possiamo convenire che siamo ben oltre ogni ragionevole criterio.
Questa ipertrofica cautela denuncia a mio parere uno squilibrio mentale. Se vi sembra ovvio buttar via del cibo un giorno dopo la data di scadenza; se fate regolari analisi del sangue, delle urine o delle feci anche quando state bene; se vi rallegrate quando leggete espressioni come “intensificare i controlli”, “aumentare il livello di sicurezza”, “applicare norme più severe” ecc. è probabile che ne siate affetti.
L’iper-sicurezza condiziona la nostra intera vita, dal concepimento alla morte e oltre. È una sorta di Grande Madre che incombe su di noi, ambigua Dea divisa tra accudimento e crudeltà, ispirando nei figli sentimenti contrastanti di devozione e di paura. Non ci lascia mai, non distoglie mai il suo vigile occhio, educa, protegge, minaccia, accompagna ogni nostra attività circondandola di innaturali precauzioni.
Il ‘sicurismo’ è di fatto una religione, il cui dogma fondamentale è: “la vita è pericolo”. Non sorprende perciò che lo stesso venir al mondo venga scoraggiato. Prima condizione per nascere è infatti superare le barriere del ‘sesso sicuro’. In seguito, la gravidanza non sarà più una lieta attesa, ma una selva di dubbi angosciosi, che solo test prenatali sempre più sofisticati potranno dissipare, rassicurando gli angustiati genitori. Il parto, per esser sicuro, vien trasformato da atto naturale a evento medico-ospedaliero. Una volta nati, siamo circondati da un sistema di attenzioni soffocanti, come se oscure maledizioni gravassero su di noi. E ormai cresciuti, siamo sollecitati a fare regolari chekup, esami clinici d’ogni genere per prevenire e scongiurare paurose malattie, a inghiottire farmaci d’ogni tipo per puntellare la nostra vacillante salute.
Intolleranze, allergeni, tossicità, grassi, colesterolo, calorie, zuccheri, trigliceridi, glutine, carenze di vitamine o di sali minerali ecc. fan sì che anche ciò che mangiamo sia costante motivo di allerta. Ogni prodotto alimentare deve superare esami di salubrità, e forse l’ufficio d’igiene disporrà in futuro regolari ispezioni in casa nostra per controllare che la nostra alimentazione osservi scrupolosamente le direttive dell’OMS, dell’EMA, o di altre entità che come madri premurose e severe vegliano sulla nostra salute.
Il nostro più profondo terrore son però microbi e virus. In realtà, in condizioni normali i batteri non sono affatto pericolosi. L’uso di antisettici, di sostanze chimiche per sanificare la nostra pelle o gli oggetti che tocchiamo, è pratica stupida e inutile, talvolta dannosa. Ma noi, come dei visionari don Chisciotte combattiamo germi inoffensivi come fossero giganti, celebriamo riti magici per esorcizzare demoni virali. Al posto dell’elmo di Mambrino indossiamo una ridicola mascherina, crediamo nelle virtù taumaturgiche di un siero. Persi in oscuri incantamenti, ingaggiamo battaglie col nulla.
Il nostro sogno è un mondo igienizzato, disinfettato, linda dimora di particelle immacolate. È una sorta di nevrosi catartica, in cui il senso di colpa o di peccato che inconsciamente rimuoviamo riemerge nel bisogno di purificarsi. La pulizia del corpo sembra calmare le insicurezze dell’anima. Da qui l’irrazionale paura che affligge la società razionale ed evoluta, il timor panico d’esser contaminati da qualcosa di immondo. Solo i bambini, più saggi e innocenti di noi, non han di queste fisime e non temono di insudiciarsi e far commercio di microbi, almeno finché non trasmettiamo loro le nostre fobie.
Aria e terra, acqua e fuoco, flora e fauna, ogni cosa sembra tramare contro di noi. Ah, natura cinica e matrigna! Il caldo d’estate è un pericolo, il freddo d’inverno pure, specie per i soggetti fragili. La primavera danneggia i raccolti, l’autunno annuncia epidemie. Allarmanti le piogge, temibile la siccità. Qualunque sia la condizione atmosferica, rappresenta un pericolo per la nostra salute. E l’anidride carbonica? Un incubo. Il global warming, il cambiamento climatico, la polluzione planetaria.
I fiumi esondano, i ghiacciai si sciolgono, alberi magnifici vanno abbattuti perche fatiscenti e pericolosi, i pollini ci provocano paurose crisi allergiche, il Sole provoca tumori alla pelle. Polli, maiali, pipistrelli, scimmie, pangolini ecc. si trasformano in trampolini di lancio per consentire ai virus un salto di specie. I cani, una volta i migliori amici dell’uomo, sembran lupi mannari pronti a sbranarci, la placida vacca con le sue deiezioni surriscalda il pianeta, i gatti trasmettono la toxoplasmosi, orsi e cinghiali ci assalgono, gli acari ci divorano, insetti e parassiti son causa di shock anafilattici, a volte letali. In un mondo tanto ostile e gravido di insidie è logico “mettere in sicurezza” l’intero ecosistema, frugando ogni pertugio ove si possa nascondere un pericolo.
La sicurezza diventa così il nostro angelo custode. È l’ombra fedele che ci segue in montagna, al mare, in campagna, negli spazi telematici e virtuali. Sorveglia gli uffici e i negozi, le scuole, le strade, gli ospedali, gli aeroporti, i treni, i ristoranti, i teatri, le automobili, le case, la toilette, gli elettrodomestici, i computer. Avvolge in una vigilante nube i giochi dei bambini, i contatti fisici più o meno intimi, gli eventi pubblici e le relazioni private, le sagre e i funerali. Crea password sempre più complesse, nuovi codici e dispositivi di sicurezza, sistemi antifurto, polizze per ogni evenienza. Protegge i nostri dati, i risparmi, gli acquisti. È il rifugio della nostra precaria esistenza.
I corsi sulla sicurezza sono ormai obbligatori, perché dobbiamo esser pronti ad affrontare terremoti, incendi, alluvioni, eruzioni vulcaniche, impatti di meteoriti, aggressioni extraterrestri. Ma anche le più banali attività – lavare i pavimenti, salire o scendere le scale – vanno svolte secondo criteri anti-infortunistici. Persino se vuoi adottare un gatto randagio devi garantirgli una vita senza rischi. Forse in futuro, prima di soffiarci il naso, dovremo esibire un diploma in “Teoria e Prassi della Sicurezza”. E poiché, nonostante ogni cautela, la morte pare ancora inevitabile, chiediamo di venir assicurati anche sui rischi che correremo una volta defunti.
III. Sicurezza e prudenza
In tutto ciò non v’è però nulla di sicuro, a parte la nostra insicurezza. È che abbiamo perso la fiducia in noi stessi. Cerchiamo ovunque maestri, guru, esperti certificati che risolvano per noi i problemi della vita. Andiamo a scuola, ci adeguiamo alle opinioni della maggioranza, crediamo che anche il decidere con la nostra testa contrasti con le ragioni della sicurezza. Per sentirci sicuri e tenere a bada le nostre paure cerchiamo l’avallo di un’autorità, di una tradizione, aderiamo a qualche corrente politica, filosofica, religiosa. Oppure facciamo branco, ci nascondiamo nell’indistinto conformismo della folla.
Naturalmente, una società che non preveda divieti e restrizioni della libertà personale, anche relativamente alla sicurezza dei cittadini, è una chimera. Non voglio riesumare l’impraticabile “vietato vietare” e non nego che la prudenza sia necessaria. Ma oltre un certo limite ogni virtù diventa vizio. Est modus in rebus, ed esistono determinati confini al di là dei quali non può esservi il giusto, come dice Orazio. La vita è diventata invece un’apologia della prudenza, utopia del rischio zero, maniacale rete di ordinanze e di sanzioni.
«Conviensi adunque essere prudente, cioè savio» dice Dante, ma la nostra prudenza è quella che Blake definiva “una vecchia laida corteggiata dall’impotenza”. Indurita zitella col volto giallo e rugoso, scavato da una sicurezza mortifera. Ed è sconcertante quanto la gente la cerchi, e quasi goda della sua compagnia. Nessuno protesta, nessuno reagisce. Anzi, molti vorrebbero più sicurezza, ne sono assuefatti, come a una droga. “La prudenza non è mai troppa” potrebbe essere il nostro motto. Formula coerente con una società cui non manca mai motivo per essere in allarme, che sempre trova qualche paurosa emergenza o minaccia che richiede d’esser scongiurata con le opportune misure.
Occorre rispettare protocolli sempre più astratti e alienanti, nominare periti, ispettori e commissari che vigilino sul rispetto delle norme vigenti, nell’attesa che se ne inventino di nuove, sempre più folli. Abbiamo creato una società dell’ansia e del controllo. La sicurezza è diventata uno stile di vita, una metafisica, una logica formale indipendente dalla realtà concreta. È l’idolo cui sacrificare il nostro piacere e la nostra libertà, ogni sano istinto vitale.
Ma fatti non fummo per vivere una vita “a norma di legge”. Succede così che alcuni, stanchi di tale materna e oppressiva vigilanza, forse sentendo il richiamo di sensi meno burocratici e grigi, sentano il bisogno di compiere gesti estremi e di correre reali pericoli, mettendo a repentaglio la sicurezza propria o di altri per il gusto di farlo, mostrando coraggio senza necessità, esponendosi a rischi inutili e insensati quanto le norme di una società iper-protettiva.
IV. Sicurezza e sorveglianza
S’è detto: libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome! Oggi potremmo dire lo stesso della ‘sicurezza’. Il nostro ipertrofico apparato di regole, controlli e divieti non ha infatti come scopo di render più sicura o migliore la nostra vita, ma di manipolarla. È un perfetto strumento per indurre nelle persone comportamenti forzati e limitarne, passo dopo passo, i naturali diritti. Creando il pregiudizio che sia necessario dare assoluta priorità alla sicurezza si creano le condizioni perché la società accetti sempre più capillari sistemi di controllo.
Ispirare nelle persone ansie e paure immaginarie per offrir loro regole rassicuranti e altrettanto illusorie è il modo più efficace per tenerle in uno stato di servitù. Basta indicar loro nemici inesistenti, distogliendole dalla percezione del reale Nemico, ossia dalla consapevolezza che a minacciarle è il Sistema stesso che dice di proteggerle. E questo toglie loro ogni voglia di ribellarsi, perché nessuno vorrebbe rivoltarsi contro un Potere così maternamente apprensivo e preoccupato del nostro benessere. Inoltre, far rivoluzioni significherebbe perdere quelle comode sicurezze cui siamo abituati e di cui non sappiamo più fare a meno.
Per cui, prendi il cittadino, mantieni il suo cervello occupato da emergenze fittizie, imponigli esorbitanti cautele, fondate su probabilità statistiche che prescindono dalla realtà. E ovviamente convincilo che è per il suo bene. Questo non lo renderà certo ‘sicuro di sé’ ma in compenso ne farà un fantoccio spaventato e docile, senza volontà propria, preso nella trappola di una perversa dialettica di timore e rassicurazione. È chiaro che questo fenomeno si produce grazie a complicità politiche e mediatiche. Ma ciò che fa di un’influenza una peste medievale, di un lieve riscaldamento un cataclisma planetario, ciò che invoca la protezione di barbari green pass o dichiara una guerra santa alla CO2, è sempre, in ultima analisi, la nostra insicurezza interiore.
Soffriamo di una ipocondria sociale e collettiva, ci sentiamo minacciati da ogni sorta di sciagura. Sempre in attesa di catastrofi – ora pare che ne verremmo informati tempestivamente, via SMS – sempre in cerca di soluzioni salvifiche. Nessun meccanismo difensivo ci appare eccessivo. Pensiamo che un proliferare di leggi in materia di sicurezza rappresenti un progresso sociale, mentre è solo un espediente vessatorio, volto a legarci con nodi sempre più stretti, a ridurre il nostro spazio di autonomia e di iniziativa.
È da un lato un immenso business, uno stratagemma per incrementare la vendita di prodotti o servizi che offrano dubbi palliativi. Dall’altro è un’enorme foglia di fico per nascondere il fatto che mai l’uomo è vissuto in una situazione più aleatoria e minacciosa di quella attuale. I protocolli sanitari uccidono, i controlli alimentari coprono truffe e raggiri, la salvaguardia dell’ambiente alimenta una gigantesca speculazione ecc. Il culto della sicurezza ci dimenticare che non siamo più sicuri di nulla, che la nostra epoca è la più insicura della storia.
V. Sicurezza e libertà
Si sa che l’uomo medio, dovendo scegliere tra sicurezza e libertà, preferisce rinunciare alla seconda. L’impavido, l’audace, è rara aves, non vive nella medietà. “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” scrive Dante parlando di Catone, il quale preferì il suicidio alla tirannide. Ma ai più è cara la sicurezza, l’amano più della vita e del piacere, e per lei son pronti a rifiutare la libertà.
Siamo disposti a rigettare ogni creativo, giovanile impulso, per averne in cambio un surplus di immaginarie franchigie. È evidente perciò che dietro la sicurezza v’è un problema di verità e di libertà. Quali sono i veri pericoli? E come possiamo affrontarli senza pregiudicare le nostre libertà fondamentali?
Per rispondere dovremmo innanzitutto riconoscere gli aspetti deliranti e ingannevoli della prudenza che ci viene imposta, i suoi caratteri fobici e ossessivi. Ciò presuppone l’emanciparsi dalla tutela di esperti che son solo cicisbei del Potere, il toglier loro l’aura di intermediari tra noi e la salvezza. Meglio di una fede supina è accettare i dubbi, i rischi e le incertezze della vita. Dopodiché, una ragionata disubbidienza civile dovrebbe diventare per noi una quotidiana igiene mentale. Perché il rischio vero è che l’assillo della sicurezza ci tolga ogni libertà d’azione e di pensiero.
Rendere il mondo “un luogo sicuro in cui vivere” è un’illusione che conduce a una società dell’ubbidienza. Società-prigione retta da procedure e regole carcerarie, posto disumano da cui sarà impossibile evadere. Dove saremo forse ridotti a macchine che ubbidiscono a leggi cibernetiche, ben più sicure di quelle di un cuore umano. Ogni volta che accettiamo i criteri, le formule, i contenuti di questa millantata sicurezza cediamo un pezzo di libertà. E quando saremo assolutamente sicuri, saremo anche totalmente non liberi. Vivremo in una dittatura della sicurezza. E infine questa previdente Grande Madre potrebbe decidere che, per il nostro bene, è più prudente sopprimerci o impedirci di nascere.
Cinquant’anni fa sentivo d’istinto e con noncuranza il bisogno di trasgredire. Oggi lo vedo come un drammatico dovere. Se è giusto che mettiamo un freno alla nostra libertà, ancor più necessario è limitare l’altrui potere di privarcene. Non dobbiamo farci inibire da prevaricanti “nicht hinauslehnen!”. Se ci fa piacere sentire il vento in faccia, sporgiamoci dal finestrino. Il ligio cittadino dirà che compiere un atto vietato in quattro lingue diverse è tipico dell’incoscienza di un ragazzo, e che occorre una più matura responsabilità. Da parte mia, anche invecchiando son rimasto poco rispettoso dei divieti e, per vari aspetti, irresponsabile. Non so che farci e del resto non voglio esser d’esempio a nessuno.
34 Comments